Nella grande cacofonia del
chiacchiericcio planetario, con grande leggerezza ed ingenerosamente definito
planetario poiché in verità è il chiacchiericcio dei satolli e grandi
consumatori di inutili parole, ché ben altro hanno da patire i popoli del
secondo e terzo e quarto mondo, nel chiacchiericcio senza senso dei bulimici divoratori
di immagini che trasmettono realtà che svaniscono come d’incanto allo spegnersi
dello schermo del televisore, torna utile ri-leggere il glossario dello psicoanalista
Vamik Volkan, con la lettura del quale si vorrebbe compiere il tentativo –
ahimè forse vano - di una ridefinizione e di una rivalutazione delle parole e
delle espressioni abusate e rese vuote di significato nel tempo della
comunicazione di massa più sfrenata ed inconcludente. Dacché, è dall’alba del
mondo che la comunicazione è a difesa del potere e dal potere sapientemente e
convenientemente manovrata ed utilizzata. Non è affatto la scoperta dell’oggi.
È nella meritoria opera di sottrarre al potere, a qualsivoglia potere, il
controllo della comunicazione che si sostanziano e si rendono veramente efficaci
le forme democratiche delle umane società, aldilà della benevola
ritualizzazione, a scadenze ben determinate, di una scheda elettorale da
imbucare in un’urna.
Alla voce “trovare soluzioni ai conflitti”. Nelle
aree di conflitto non si può dire che oggi manchi il dialogo. Anzi, c'è una
comunicazione costante: ci sono i governi impegnati in questo, ci sono le
organizzazioni non governative (ong) e le diverse fondazioni. Sono tutti
concentrati a far dialogare tutti con tutti. Io stesso, da psicoanalista, sono
stato coinvolto in colloqui con diplomatici e personalità politiche e mi è
stato chiesto di capire come mai nei grandi gruppi avvengano certe dinamiche di
tensione. Esistono scambi ufficiali e altri che non lo sono, ma che comunque
possono essere determinanti. Durante la guerra tra Israele ed Egitto, un ruolo
importante l'ha avuto per esempio un giornalista della CBS news, che ha fatto
da vero trait d'union tra i due Paesi, più di quanto forse non abbiano fatto i
rispettivi assetti istituzionali. Oggi poi ci sono molte, forse troppe, ong.
Sono ovunque: alcune non appartengono a nessuno, altre sono affiliate a gruppi
religiosi, altre sono legate all'Onu. E se è vero che queste associazioni
smuovono parecchie cose e sono in grado di riunire moltissimi ragazzi, è anche
vero che spesso scivolano in errori che stanno diventando sempre più lampanti.
Penso alla gestione dei rapporti tra serbi e croati: è stato un disastro.
Alcune ong si sono impegnate ad avvicinare i ragazzini serbi ai croati, facendo
fare loro dei viaggi insieme od organizzando partite di pallone in giro per il
mondo. Poi però quando ognuno di loro tornava in patria, a casa sua, veniva
trattato dagli altri quasi alla stregua di un traditore. Si sono creati non
pochi problemi in seguito a queste iniziative alternative. È diventata una moda
del XXI secolo: si vogliono creare ponti, accordi, alleanze e amicizie. Ma
bisogna saper fare le cose, bisogna avere un approccio sistematico e i
diplomatici ufficiali sono stanchi di queste persone che pretendono di dire la
loro, con modalità non sempre corrette.
Alla voce “la conquista dell’indipendenza”. Molte etnie sono state colonizzate e sono diventate indipendenti. Per alcune è stato un bene e hanno reagito positivamente, per altre è stato un danno, una rovina. Detto questo è vero che ci sono problemi condivisi nel momento in cui si recupera la propria indipendenza. Un popolo che vive sotto un altro popolo, è come se si appropriasse dell'identità del Paese che lo sta colonizzando, si identifica con questo. Allo stesso tempo, però, come nel caso dell'Estonia, della Lettonia e della Lituania, ognuno ha comunque la sua singola identità. Dopo il crollo dell'Impero Ottomano, gli europei fecero delle linee dritte - che si possono notare ancora adesso - per dividere il loro territorio dal Medio Oriente. E in Africa, con queste demarcazioni così nette, sono stati divisi interi gruppi etnici che si sono ritrovati separati da una parte e dall'altra del confine. E questo, di necessità, ha creato un'assoluta disgregazione delle tribù. Poi può succedere come è accaduto alla Georgia e all'Ossezia. Dopo aver conseguito l'indipendenza, nel 1991, la Georgia ha abolito l'enclave autonoma osseta provocando una migrazione di molta della popolazione dall'Ossezia del Sud (della Georgia) all'Ossezia del Nord (della Russia). Gli abitanti dell'Ossezia del Sud, che si sono trovati in conflitto con la Georgia, hanno pensato di fare fronte comune con gli abitanti dell'Ossezia del Nord, che, sebbene fossero diversi perché facevano parte della federazione russa, erano, però, comunque osseti e non georgiani. Un'indipendenza, dunque, che ha messo sul piatto tutto il problema dell'identità. Un'altra questione è che noi occidentali ci sentiamo così onnipotenti, così forti, che quando decidiamo di aiutare i Paesi in via di sviluppo pretendiamo che questi diventino a nostra immagine e somiglianza. Per queste popolazioni invece ci vogliono decenni per imparare cose che noi diamo per scontate.
Alla voce di cosa sia “l’appartenenza:
Ci sono diversi elementi che creano
un'identità di gruppo. Un grande gruppo è fatto da milioni di persone che non
si incontreranno mai. E, nonostante le sue divisioni interne, un gruppo è
capace velocemente di ricompattarsi. Prendiamo l'Italia per esempio. C'è
l'Italia del Nord e l'Italia del Sud, che ci tengono a essere ben distinte. Poi
però immaginiamo che gli albanesi vengano in Italia e invadano l'Italia del
Sud. Bene, in realtà l'Italia intera si sentirebbe attaccata: non farebbe più
differenza se l'attacco è stato al Nord o al Sud. La verità è che quando c'è un
trauma, le differenze si annullano e il trauma diventa condiviso. Ogni Paese
individua dei simboli, che possono essere degli animali, una montagna, un
piatto caratteristico e li identifica come simboli della propria appartenenza.
Così, per esempio, per i finlandesi lo è la sauna e per gli italiani i
maccheroni o la pizza: sono elementi di coesione, nonostante tutte le altre
differenze, magari anche più sostanziali. Guardiamo ai Paesi che io chiamo sintetici,
come può esserlo Israele. Israele ha una forte connessione religiosa, ma è
composto da realtà molto disparate: ci sono gli askenazi, i safarditi, le
vittime dell'Olocausto e quelli che non hanno vissuto l'Olocausto, ci sono
quelli che arrivano dall'Etiopia e i russi. Ma come si fa a creare un'identità
israelita e tenere unite tutte queste realtà? In Israele hanno addirittura un
ministro che se ne occupa: c'è il cosiddetto ministero dell'assorbimento. Ero
ospite al cinquantesimo anniversario dello Stato ebraico e, in quell'occasione,
il tema dominante era proprio questo: come mettere tutti insieme? Spesso,
infatti, per creare coesione si ha bisogno di focalizzare un nemico comune: il
nemico serve a rafforzare la propria identità. E lo stesso vale per i
palestinesi, per i musulmani in generale, per gli americani. Se non si capisce
questo scoglio, non ci sarà mai una reale soluzione del conflitto.
Alla voce “trovare il proprio
leader”. Quando una società è in crisi,
di solito crea un leader con una personalità narcisistica. La gente cerca un
salvatore. D'altra parte un buon leader deve essere un narcisista, perché si
deve sentire a suo agio nell'essere il numero uno. E un buon leader deve essere
anche un po' paranoico, perché deve avere sempre sotto controllo la propria
popolazione. Poi, di certo, è bene che sia intelligente e che abbia sense of
humor. Caratteristiche non facili da avere tutte insieme. La personalità del
capo, nelle situazioni difficili, è importante, determinante direi. Se il
leader regredisce a livello della società, se arriva a provare le stesse ansie
che prova la sua nazione è grave e negativo. Colui che sta al comando deve
distinguere i pericoli reali dai pericoli fantasticati ed esagerati: solo così
la società può trarne beneficio. Farò due esempi, per capirci meglio. Un caso
positivo è sicuramente quello di Nelson Mandela: lui di certo non si è ridotto
a provare le paure e le umiliazioni della sua gente. Racconterò un episodio
esplicativo: tre mesi prima che lui prendesse il potere, era a un meeting con
il suo futuro governo. Ricevette una telefonata e dovette uscire per un quarto
d'ora. Quando tornò, gli altri gli dissero: - Abbiamo preso una decisione
mentre tu non c'eri: cambieremo l'inno nazionale. Quello che c'è è pensato per
i bianchi...-. Mandela si contrariò: - Non potete farlo, umiliereste la nostra
gente: l'inno è un simbolo della loro identità-. Era riuscito ad avere una
visione più ampia. Al contrario George Bush, quando ci fu l'11 settembre,
cedette ai timori del suo popolo e contribuì ad incrementarli. All'improvviso
questo grande Paese era stato umiliato e per lui si trattò di un'umiliazione personale.
Fu lì che perse la sua battaglia da leader.
Alla voce “l'odio perpetuo”. L'odio è
necessario per creare un'identità di popolo. E questo odio viene portato avanti
per anni e anni. Si è notato come non si riesca a capovolgere la propria
umiliazione, né la propria impotenza, né si riesca a elaborare il lutto fino in
fondo se si sono avute delle perdite gravi. Così, se le madri e i padri non
risolvono questi nodi, li delegano ai propri figli. E se i figli si dovessero
trovare nella stessa situazione di crisi, passerebbero la questione alla
generazione successiva. Finché queste situazioni di conflitto non diventano
croniche, insite nell'essere di quel popolo: ci si sente in diritto di provare
odio e di considerare il nemico quasi non umano. I confini fisici diventano
confini della mente. Ma, benché tutto ciò sia risaputo è come se mancasse uno
sforzo sistematico e globale per risolvere la grande questione del conflitto.
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