Tratto da “Quell'unica
strada per combattere l'indifferenza” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 4 di febbraio dell’anno 2017: La nostra capacità di commuoverci
ha una soglia predeterminata. Che dobbiamo imparare a superare. Nel mondo c'è
più atrocità che amore. Perché un maledetto "istinto di
conservazione", portato all'esasperazione, ci fa dire: "Mors tua,
vita mea". Come se la propria vita potesse affermarsi alla sola
condizione, se non di sopprimere, comunque di limitare la vita degli altri.
Nonostante non manchi giorno in cui rivendichiamo la nostra differenza e
superiorità rispetto agli animali, siamo esattamente come loro, anzi peggio di
loro.
Gli animali infatti uccidono per alimentarsi, gli uomini invece, come ci ricorda Hegel, uccidono per ottenere il riconoscimento della loro superiorità nei confronti del vinto. Non uccidiamo per fame, ma per potere, perché il potere potenzia la nostra identità e il nostro vissuto di superiorità. Come osservava opportunamente Nietzsche, la storia umana è regolata dalla volontà di potenza che si esprime tanto in guerra quanto in pace, perché anche la pace, ce lo ricorda Heidegger, non è che un altro modo di proseguire la guerra, che a sua volta: "È una sottospecie della conquista della terra in vista del suo sfruttamento spinto fino alla sua usura che viene continuata nel tempo di pace. Questa lunga guerra, nella sua lunghezza, non va lentamente verso una pace di tipo tradizionale, ma verso una situazione in cui i caratteri costitutivi della guerra non sono più esperiti come tali, e ciò che costituisce la pace ha perso ogni senso e ogni contenuto". A questa situazione generale che dice quanto è arretrata la condizione umana rispetto ai suoi ideali di pace e di reciproco rispetto e riconoscimento - propagati in Occidente dalla religione cristiana e dalla cultura illuminista, che ha declinato in versione laica i valori di libertà, uguaglianza e fraternità a suo tempo annunciati dal cristianesimo delle origini - a questa situazione di spaventosa arretratezza, si aggiunge un'ulteriore impressionante arretratezza della nostra condizione psichica, dovuta al fatto che il "troppo grande" ci lascia "freddi", perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. Se muore infatti un congiunto a cui eravamo legati, soffriamo, se muore il nostro vicino di casa facciamo le condoglianze, se ci dicono che ogni otto secondi muore di fame un bambino nel mondo, questa finisce con l'essere solo una statistica, che si stenta ad approfondire per non toccare con mano la nostra impotenza di fronte a una simile situazione. Lo stesso accade con la reazione emotiva che proviamo di fronte ai nostri morti di terrorismo, e a quelli delle terre di Siria e d'Iraq, troppo lontani e grandi per commuoverci e suscitare un minimo di partecipazione. Ma come scrive Günther Anders: "L'inadeguatezza del nostro sentire non è un difetto fra i tanti, è la peggiore delle peggiori cose che sono già accadute. Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose. Infatti se il nostro meccanismo di inibizione si arresta non appena si sia superato una certa grandezza massima, allora, finché vige questa regola infernale, il mostruoso ha via libera". Capiamo adesso l'importanza (…) di educare nei giovani la consapevolezza e il sentimento, affinché non siano indifferenti al proliferare delle armi, alla distruzione del sistema ecologico, alla ricchezza smisurata di alcuni e alla povertà spaventosa di molti. E tutto ciò affinché la loro insensibilità non aumenti e non si traduca in irresponsabilità collettiva, che consentirebbe alla distruttività umana di dilagare indisturbata, senza neppure più bisogno di appoggiarsi come un tempo a tramontate ideologie.
Gli animali infatti uccidono per alimentarsi, gli uomini invece, come ci ricorda Hegel, uccidono per ottenere il riconoscimento della loro superiorità nei confronti del vinto. Non uccidiamo per fame, ma per potere, perché il potere potenzia la nostra identità e il nostro vissuto di superiorità. Come osservava opportunamente Nietzsche, la storia umana è regolata dalla volontà di potenza che si esprime tanto in guerra quanto in pace, perché anche la pace, ce lo ricorda Heidegger, non è che un altro modo di proseguire la guerra, che a sua volta: "È una sottospecie della conquista della terra in vista del suo sfruttamento spinto fino alla sua usura che viene continuata nel tempo di pace. Questa lunga guerra, nella sua lunghezza, non va lentamente verso una pace di tipo tradizionale, ma verso una situazione in cui i caratteri costitutivi della guerra non sono più esperiti come tali, e ciò che costituisce la pace ha perso ogni senso e ogni contenuto". A questa situazione generale che dice quanto è arretrata la condizione umana rispetto ai suoi ideali di pace e di reciproco rispetto e riconoscimento - propagati in Occidente dalla religione cristiana e dalla cultura illuminista, che ha declinato in versione laica i valori di libertà, uguaglianza e fraternità a suo tempo annunciati dal cristianesimo delle origini - a questa situazione di spaventosa arretratezza, si aggiunge un'ulteriore impressionante arretratezza della nostra condizione psichica, dovuta al fatto che il "troppo grande" ci lascia "freddi", perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. Se muore infatti un congiunto a cui eravamo legati, soffriamo, se muore il nostro vicino di casa facciamo le condoglianze, se ci dicono che ogni otto secondi muore di fame un bambino nel mondo, questa finisce con l'essere solo una statistica, che si stenta ad approfondire per non toccare con mano la nostra impotenza di fronte a una simile situazione. Lo stesso accade con la reazione emotiva che proviamo di fronte ai nostri morti di terrorismo, e a quelli delle terre di Siria e d'Iraq, troppo lontani e grandi per commuoverci e suscitare un minimo di partecipazione. Ma come scrive Günther Anders: "L'inadeguatezza del nostro sentire non è un difetto fra i tanti, è la peggiore delle peggiori cose che sono già accadute. Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose. Infatti se il nostro meccanismo di inibizione si arresta non appena si sia superato una certa grandezza massima, allora, finché vige questa regola infernale, il mostruoso ha via libera". Capiamo adesso l'importanza (…) di educare nei giovani la consapevolezza e il sentimento, affinché non siano indifferenti al proliferare delle armi, alla distruzione del sistema ecologico, alla ricchezza smisurata di alcuni e alla povertà spaventosa di molti. E tutto ciò affinché la loro insensibilità non aumenti e non si traduca in irresponsabilità collettiva, che consentirebbe alla distruttività umana di dilagare indisturbata, senza neppure più bisogno di appoggiarsi come un tempo a tramontate ideologie.
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