Tratto da “Dove
nasce il malessere sociale” di Vincenzo Visco, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 28 di gennaio 2019: (…). …se si vogliono comprendere l'origine e
le cause profonde del malessere sociale e politico che oggi caratterizza i
Paesi sviluppati dell'Occidente, sarebbe utile riflettere sul funzionamento
dell'economia mondiale negli ultimi 30 anni, quelli intercorsi dalla
rivoluzione di Reagan e Thatcher negli anni '80 del secolo scorso a oggi, con
il ritorno a una gestione liberista dell'economia, superando e accantonando il
modello keynesiano.
Il nuovo paradigma diventato rapidamente senso comune si basa sul mercato, sulla concorrenza su scala globale, sulle liberalizzazioni, la deregolamentazione, la privatizzazione delle imprese pubbliche e il ridimensionamento del settore pubblico; prevede bilanci pubblici in pareggio, l'indipendenza delle Banche centrali, politiche monetarie non accomodanti, libertà dei movimenti di capitale, banche universali, massimizzazione del valore delle imprese nel breve periodo, e quindi minimizzazione dei costi, flessibilità dei mercati del lavoro, riduzione del potere sindacale. L'esatto contrario del modello precedente, che pure aveva prodotto risultati eccellenti. Gli effetti di tale cambiamento di rotta sono evidenti, significativi e impressionanti. Per esempio, la distribuzione funzionale del reddito, quella tra redditi di lavoro e di capitale (profitti, interessi, royalty, rendite, ecc.), è peggiorata di 10-15 punti in tutti i Paesi Ocse; oggi in Italia meno del 50% del valore aggiunto complessivo va ai redditi di lavoro (rispetto al 60-65% del passato). Il tasso di crescita medio a lungo termine dei Paesi sviluppati è andato progressivamente riducendosi passando dal 3-4% dei primi anni '70 alla crescita stentata che prevale oggi in molti Paesi, e che anche quando sembra essersi ripresa appare incerta e destinata ad arrestarsi rapidamente. Le crisi finanziarie e l'instabilità del sistema sono ridiventate frequenti e abituali nel nuovo contesto. Dopo essere praticamente scomparse nei 30 anni successivi alla guerra, esse sono riapparse prepotentemente e sistematicamente: crisi di Borsa negli Stati Uniti nel 1983 e 2001, crisi messicana (1994), crisi asiatica (1997), crisi Ltcm (1998), crisi argentina (1999), crisi subprime (2007-08), più una serie di crisi minori. Oggi tutti siamo in attesa non di se si manifesterà la prossima crisi, ma di quando. È aumentato in modo molto rilevante il grado di indebitamento non solo degli Stati (in verità i debiti pubblici rappresentano una quota ridotta dei debiti complessivi), ma anche delle famiglie, delle imprese non finanziarie, e soprattutto di quelle finanziarie. Il debito è diventato la leva principale con cui si cerca di stimolare la crescita nella fase attuale del capitalismo. Per combattere la deflazione le banche centrali hanno seguito politiche "non convenzionali" inondando i mercati con enormi quantità di moneta (quantitative easing), con effetti positivi sui bilanci delle banche, sui valori dí Borsa e sul costo del debito pubblico e privato, ma del tutto insufficienti sulla crescita. Inoltre questa strategia appare pericolosa e contraddittoria nel lungo periodo. Come ha sostenuto la Bri (Banca dei regolamenti internazionali n.d.r.) in uno dei suoi rapporti: «Dopo tutto, la moneta a basso costo rende più facile indebitarsi che risparmiare, più facile spendere che non tassare, più facile rimanere fermi che cambiare». La diseguaglianza nei redditi personali è fortemente aumentata in tutti i Paesi. Posto eguale a 100 il valore medio dell'indice di Gini dei Paesi Ocse nel1985, esso supera oggi quota 110. I livelli che la diseguaglianza ha raggiunto in alcuni Paesi appaiono grotteschi: per esempio negli Stati Uniti è stato stimato che il rapporto tra il reddito medio dei 400 contribuenti più ricchi e quello del 90% dei più poveri risultava nel 2007 di 10.327 a 1, e quello della ricchezza finanziaria di 108.765 a 1! Bassa crescita, diseguaglianza e alti debiti, nella loro interazione, determinano un effetto cumulativo che peggiora tutti e tre i fenomeni. Le retribuzioni medie orarie e i redditi familiari sono rimasti stagnanti in termini reali sui livelli degli anni '80 del '900 mentre la produttività è più che raddoppiata nel periodo considerato, il che significa che l'intero incremento del valore aggiunto verificatosi è andato a beneficio esclusivo della quota più ricca (e minoritaria) della popolazione. Al tempo stesso la pressione fiscale si è ridotta in tutti i Paesi, le aliquote marginali sui redditi più elevati e sulle società si sono drammaticamente ridotte, la spesa pubblica è stata tagliata e i dipendenti pubblici fortemente ridotti di numero. Intanto le grandi imprese multinazionali eludono sistematicamente le imposte, i paradisi fiscali sono diventati uno strumento fondamentale della nuova finanza, la corruzione negli affari e nella politica è pervasiva. L'occupazione langue. Oggi tassi di disoccupazione del 7-8% sono considerati "normali", persino in Paesi come la Svezia. Gran parte della occupazione è precaria, a tempo parziale, e mal retribuita. La rappresentazione statistica abituale non fornisce quindi una informazione corretta. Questa situazione è difficile da accettare. I meccanismi attuali di funzionamento dell'economia non sono in grado di assecondare la transizione energetica, la fine dello sfruttamento scriteriato delle risorse, la riduzione dell'inquinamento. E non è un caso che, nello stesso periodo, i processi democratici si siano fortemente indeboliti: gran parte delle decisioni più importanti vengono oggi prese da organismi tecnici indipendenti, da organismi sovranazionali, da comitati di ministri e capi di Stato e di governo senza il coinvolgimento dei Parlamenti. In conseguenza è comprensibile che negli ultimi 30 anni la partecipazione al voto si sia molto ridotta. In sintesi abbiamo sostituito la centralità del lavoro e dell'occupazione e l'equa distribuzione del reddito con la sovranità dei consumatori, e soprattutto (dei proprietari) delle (grandi) imprese, e dei mercati finanziari. Abbiamo sostituito Keynes con Hayek, e i risultati si vedono. Non dovrebbe quindi sorprendere la reazione di paura, rabbia e sfiducia che caratterizza la scena politica attuale e il ripiegamento nazionalista, sovranista e populista che oggi predomina, per quanto illusorio esso possa essere dato che i problemi sopra indicati non possono trovare soluzione a livello esclusivamente nazionale. Lo stesso fenomeno dell'immigrazione è un effetto delle scelte economico-finanziarie compiute qualche decina di anni fa. Servirebbero quindi riforme sostanziali e di grande portata per ricostruire un contratto sociale condivisibile da tutti e ristabilire un equilibrio accettabile tra capitalismo e democrazia.
Il nuovo paradigma diventato rapidamente senso comune si basa sul mercato, sulla concorrenza su scala globale, sulle liberalizzazioni, la deregolamentazione, la privatizzazione delle imprese pubbliche e il ridimensionamento del settore pubblico; prevede bilanci pubblici in pareggio, l'indipendenza delle Banche centrali, politiche monetarie non accomodanti, libertà dei movimenti di capitale, banche universali, massimizzazione del valore delle imprese nel breve periodo, e quindi minimizzazione dei costi, flessibilità dei mercati del lavoro, riduzione del potere sindacale. L'esatto contrario del modello precedente, che pure aveva prodotto risultati eccellenti. Gli effetti di tale cambiamento di rotta sono evidenti, significativi e impressionanti. Per esempio, la distribuzione funzionale del reddito, quella tra redditi di lavoro e di capitale (profitti, interessi, royalty, rendite, ecc.), è peggiorata di 10-15 punti in tutti i Paesi Ocse; oggi in Italia meno del 50% del valore aggiunto complessivo va ai redditi di lavoro (rispetto al 60-65% del passato). Il tasso di crescita medio a lungo termine dei Paesi sviluppati è andato progressivamente riducendosi passando dal 3-4% dei primi anni '70 alla crescita stentata che prevale oggi in molti Paesi, e che anche quando sembra essersi ripresa appare incerta e destinata ad arrestarsi rapidamente. Le crisi finanziarie e l'instabilità del sistema sono ridiventate frequenti e abituali nel nuovo contesto. Dopo essere praticamente scomparse nei 30 anni successivi alla guerra, esse sono riapparse prepotentemente e sistematicamente: crisi di Borsa negli Stati Uniti nel 1983 e 2001, crisi messicana (1994), crisi asiatica (1997), crisi Ltcm (1998), crisi argentina (1999), crisi subprime (2007-08), più una serie di crisi minori. Oggi tutti siamo in attesa non di se si manifesterà la prossima crisi, ma di quando. È aumentato in modo molto rilevante il grado di indebitamento non solo degli Stati (in verità i debiti pubblici rappresentano una quota ridotta dei debiti complessivi), ma anche delle famiglie, delle imprese non finanziarie, e soprattutto di quelle finanziarie. Il debito è diventato la leva principale con cui si cerca di stimolare la crescita nella fase attuale del capitalismo. Per combattere la deflazione le banche centrali hanno seguito politiche "non convenzionali" inondando i mercati con enormi quantità di moneta (quantitative easing), con effetti positivi sui bilanci delle banche, sui valori dí Borsa e sul costo del debito pubblico e privato, ma del tutto insufficienti sulla crescita. Inoltre questa strategia appare pericolosa e contraddittoria nel lungo periodo. Come ha sostenuto la Bri (Banca dei regolamenti internazionali n.d.r.) in uno dei suoi rapporti: «Dopo tutto, la moneta a basso costo rende più facile indebitarsi che risparmiare, più facile spendere che non tassare, più facile rimanere fermi che cambiare». La diseguaglianza nei redditi personali è fortemente aumentata in tutti i Paesi. Posto eguale a 100 il valore medio dell'indice di Gini dei Paesi Ocse nel1985, esso supera oggi quota 110. I livelli che la diseguaglianza ha raggiunto in alcuni Paesi appaiono grotteschi: per esempio negli Stati Uniti è stato stimato che il rapporto tra il reddito medio dei 400 contribuenti più ricchi e quello del 90% dei più poveri risultava nel 2007 di 10.327 a 1, e quello della ricchezza finanziaria di 108.765 a 1! Bassa crescita, diseguaglianza e alti debiti, nella loro interazione, determinano un effetto cumulativo che peggiora tutti e tre i fenomeni. Le retribuzioni medie orarie e i redditi familiari sono rimasti stagnanti in termini reali sui livelli degli anni '80 del '900 mentre la produttività è più che raddoppiata nel periodo considerato, il che significa che l'intero incremento del valore aggiunto verificatosi è andato a beneficio esclusivo della quota più ricca (e minoritaria) della popolazione. Al tempo stesso la pressione fiscale si è ridotta in tutti i Paesi, le aliquote marginali sui redditi più elevati e sulle società si sono drammaticamente ridotte, la spesa pubblica è stata tagliata e i dipendenti pubblici fortemente ridotti di numero. Intanto le grandi imprese multinazionali eludono sistematicamente le imposte, i paradisi fiscali sono diventati uno strumento fondamentale della nuova finanza, la corruzione negli affari e nella politica è pervasiva. L'occupazione langue. Oggi tassi di disoccupazione del 7-8% sono considerati "normali", persino in Paesi come la Svezia. Gran parte della occupazione è precaria, a tempo parziale, e mal retribuita. La rappresentazione statistica abituale non fornisce quindi una informazione corretta. Questa situazione è difficile da accettare. I meccanismi attuali di funzionamento dell'economia non sono in grado di assecondare la transizione energetica, la fine dello sfruttamento scriteriato delle risorse, la riduzione dell'inquinamento. E non è un caso che, nello stesso periodo, i processi democratici si siano fortemente indeboliti: gran parte delle decisioni più importanti vengono oggi prese da organismi tecnici indipendenti, da organismi sovranazionali, da comitati di ministri e capi di Stato e di governo senza il coinvolgimento dei Parlamenti. In conseguenza è comprensibile che negli ultimi 30 anni la partecipazione al voto si sia molto ridotta. In sintesi abbiamo sostituito la centralità del lavoro e dell'occupazione e l'equa distribuzione del reddito con la sovranità dei consumatori, e soprattutto (dei proprietari) delle (grandi) imprese, e dei mercati finanziari. Abbiamo sostituito Keynes con Hayek, e i risultati si vedono. Non dovrebbe quindi sorprendere la reazione di paura, rabbia e sfiducia che caratterizza la scena politica attuale e il ripiegamento nazionalista, sovranista e populista che oggi predomina, per quanto illusorio esso possa essere dato che i problemi sopra indicati non possono trovare soluzione a livello esclusivamente nazionale. Lo stesso fenomeno dell'immigrazione è un effetto delle scelte economico-finanziarie compiute qualche decina di anni fa. Servirebbero quindi riforme sostanziali e di grande portata per ricostruire un contratto sociale condivisibile da tutti e ristabilire un equilibrio accettabile tra capitalismo e democrazia.
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