Tratto da “Il
Paese della paura” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 28 di novembre 2018: Consumiamo
più paura di quanta una democrazia possa permettersi: e lo squilibrio determina
gli scompensi politici, sociali, culturali che dobbiamo toccare con mano nella
vita di ogni giorno, e che ci circondano fino a sovrastarci. Una paura che
pensiamo di riuscire a riconoscere, almeno a definire, in ogni caso a
controllare. Ma in realtà sta straripando da un campo all'altro, sta invadendo
aree non controllate, cancellando confini, mescolando territori, fino a
confonderci e a ottenere il risultato supremo, perché politico: diventare un
tutt'uno indistinguibile, un insieme che non è più scalfibile, e per questo
vince.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 30 novembre 2018
giovedì 29 novembre 2018
Terzapagina. 55 «Non è dell’immaginazione che dobbiamo aver paura».
Tratto da “L’immaginazione (e i leader) che mancano alla politica” di Maurizio Viroli,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 26 di ottobre dell’anno 2013: (…). Il
nostro tempo è caratterizzato da un’espansione della possibilità di immaginare
altre vite sconosciuta nei secoli passati.
mercoledì 28 novembre 2018
Terzapagina. 54 «Scopo della politica è vincere, non di stare ferma».
Tratto da “A
questa sinistra serve una mossa” di Donald Sassoon, pubblicato sull’inserto
“Robinson” del quotidiano la Repubblica del 25 di novembre dell’anno 2018: (…).
L’Unione europea è rimasta sostanzialmente una confederazione disunita di stati
con capitalismi divergenti, dove tutto è soggetto all’obiettivo della
competizione libera, pur mascherata da armonizzazione; da qui deriva la crisi
contemporanea, resa ancor più grave dalla decisione del Regno Unito di lasciare
l’Unione. Il problema sorge dalla difficoltà di difendere i diritti sociali ed
economici sulla base della singola nazione, essendo altrettanto difficile
raggiungere un accordo a livello europeo per applicarli. La recessione globale
iniziata nel 2007 contribuì ai sentimenti antieuropei. Un sondaggio condotto
nel settembre 2012 dimostrò che l’Unione europea stava registrando valutazioni
in calo (pur restando ancora favorevoli) da una maggioranza della popolazione in
paesi ove il concetto di Ue era molto radicato, come Germania, Francia e
Italia, per non parlare dell’Inghilterra. Tutto ciò dimostra che le opinioni
pro-Europa riflettono il comportamento dell’economia: quando essa è positiva,
l’Europa è popolare. Quando erano in carica, i partiti socialisti hanno finito
per fare quello che ci si è sempre aspettati dai governi europei: assicurarsi
che il loro capitalismo “nazionale” rimanesse forte e competitivo. Si impose
così una “grandiosa narrativa” della proporzione globale, mai vista prima.
Raccontava una storia di progresso che era acutamente diversa da quella
raccontata dalla sinistra. La narrativa della sinistra vedeva il socialismo
come il successore naturale dell’Illuminismo: un sistema razionale che sanciva
i diritti economici e sociali avrebbe completato il lavoro della democrazia
politica. La narrativa dei neoliberali era diversa: il mercato globale stava
per ottenere un’era senza precedenti di libertà individuale. Questo sviluppo
era impedito da regole e regolamentazioni imposte dallo stato. Tassando le
persone si tassava anche l’imprenditorialità, l’innovazione e lo sforzo
individuale. Secondo questa visione, il socialismo in tutte le sue forme era
stato meritatamente sconfitto dato che era, ed è, illiberale, dogmatico e
inefficiente. Mentre scrivo, i partiti socialdemocratici tradizionali sono
stati ampiamente sconfitti in Europa, e dove non lo sono stati è per via di
nuove formazioni (Syriza in Grecia e Podemos in Spagna) o per la scelta di
spostarsi verso la sinistra (in Portogallo dove i socialisti hanno stretto un
patto con la sinistra radicale, oppure in Gran Bretagna, dove il Partito
Laburista ha eletto Jeremy Corbyn come proprio leader). I cosiddetti partiti
“populisti” che sono emersi nell’Europa dell’Est, in Italia e Francia (dove
Marine Le Pen ha ottenuto più del 30 percento nelle elezioni del 2017), e che
sono potenti anche in certi paesi scandinavi, sono contro gli immigrati, anche
se un’implementazione rigida dei principi neoliberali sosterrebbe il libero
movimento della manodopera. Lo scarso rendimento della sinistra e la modestia
dei suoi obiettivi sono ancor più sorprendenti se si considera che gran parte
dei sondaggi dimostra che la maggioranza (più del 70 per cento) degli europei è
consapevole che il divario tra ricchi e poveri è aumentato, che il sistema
economico contemporaneo favorisce i benestanti e che le diseguaglianze
rappresentano un grave problema. Le prospettive per la sinistra, che non vuole
o non è in grado di capitalizzare tali opinioni e difendere i diritti economici
e sociali del passato, sono cupe. I suoi partiti sono stati obbligati a
mettersi sulla difensiva e hanno poco di nuovo da proporre, ma una strategia
difensiva può reggere solo se è temporanea. Lo scopo della politica tuttavia è
quello di vincere, non di stare ferma.
martedì 27 novembre 2018
Riletture. 45 «Ciò che cresce deve essere rapidamente distrutto per poter ricominciare».
Tratto da “Video,
ergo ingrasso” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27
di novembre dell’anno 2015: (…). Il food è uno dei settori trainanti
dell’economia. Non c’è città europea che non sia zeppa di ristoranti e
ristorantini esotici. Questa bulimia va di pari passo con un’altra delle
ossessioni del nostro mondo quella delle diete, accompagnate, per chi se lo può
permettere, dal personal trainer con cui tenersi in forma. I due fenomeni sono
solo apparentemente in contraddizione, ma in realtà la loro combinazione è una
perfetta metafora del nostro modello di sviluppo. Noi dobbiamo ingurgitare,
cioè consumare, il più possibile, ma anche espellerlo il più rapidamente
possibile. È la Crescita, bellezza. Ciò che cresce deve essere rapidamente
distrutto per poter ricominciare. Se così non fosse salterebbe tutto il
meccanismo su cui si sostiene la nostra società. Questo a livello di sistema.
Individualmente è la stessa cosa: dobbiamo accaparrarci costantemente di nuovi
gadget, nuovi I-Phone, nuove auto con varianti irrilevanti, nuovi vestiti,
nuove scarpe, eccetera, eccetera. L’eterno dilemma se è nato prima l’uovo o la
gallina qui è risolto. È il sistema, che ne ha estremo bisogno per non
collassare, che ci convince, attraverso la pubblicità, vero motore di tutto
l’ambaradan, a consumare non perché in realtà ci dia un vero piacere ma perché
si possa continuare a produrre. Insomma l’uomo, ridotto a consumatore, è il
lavandino, il water attraverso cui deve passare il più velocemente possibile
ciò che altrettanto velocemente produciamo. Naturalmente questa bulimia
omnicomprensiva ha anche la funzione di riempire il vuoto di valori che si è
creato nella nostra società e che ci rende così vulnerabili di fronte a culture
e a mondi più spartani. Non si tratta di nutrirsi di muschi e licheni come gli
asceti e gli eremiti (anche se adesso ci vogliono gabellare i pipistrelli e i
vermi come il non plus ultra della sofisticatezza alimentare) o di meditare
solitari seduti su una colonna come gli stiliti, ma di ritrovare un onesto
equilibrio nel nostro rapporto con il cibo e con tutto il resto. E io ho una
grande nostalgia di quando con qualche amico si mettevano le gambe sotto il
tavolaccio di una trattoria, con pane, salame e un buon bicchiere di rosso
senza farsi le seghe mentali dei niente affatto innocenti cuochi alla moda.
lunedì 26 novembre 2018
Sullaprimaoggi. 37 «Fino al limite della resistenza ai soprusi e della disobbedienza civile».
Tratto da “È
arrivato il tempo della Resistenza civile” di Gustavo Zagrebelsky,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 24 di novembre 2018: (…). Per
definire la costituzione, si può dire ch'essa è una selezione: promuove e
condanna quanto nella società c'è di buono e quanto di male, secondo ideali di
giustizia storicamente vincenti. Ma il progetto di selezione, per non essere
campato per aria, deve essere sostenuto da una società che, almeno
prevalentemente, ci si identifica, ci crede. A ogni regime politico deve
corrispondere infatti un certo tipo di società; (…). La costituzione
democratica presuppone una società a sua volta democratica. Non esiste
democrazia politica se non c'è democrazia sociale. Chi vuole destabilizzare la
costituzione democratica, per poi rovesciarla e costruirne una nuova su altre
basi, sa bene che deve incominciare dalla società. Si tratta per lui di
amplificare il disgusto per le immancabili corruzioni, di diffondere veleni che
alimentano paure, invidie, risentimenti, e giustificano così pulsioni
autoritarie, sopraffazioni, intolleranze, discriminazioni e violenze.
Facilissimo: questo vaso di Pandora è molto più facile scoperchiarlo che chiuderlo.
Ma ciò che ne esce è fascismo? La controversia odierna su questo punto, per non
essere un esercizio propagandistico, deve considerare, innanzitutto, che il
fascismo è solo una tra le tante manifestazioni storiche di qualcosa di assai
più profondo, costante e radicato nell'animo umano e nelle pulsioni sociali.
Questo "qualcosa" può assumere forme storiche le più varie, pur
avendo radici comuni. Noi e l'Europa occidentale ne abbiamo conosciute alcune,
non identiche ma fondate su principi similmente antidemocratici: fascismo
italiano, nazismo, falangismo spagnolo, estado novo portoghese, ecc., sicché si
spiega che ancora oggi per indicare ciò che contrasta con la democrazia si
dica: fascismo! Ma i nemici della democrazia sono proteiformi, non necessariamente
fascisti nel significato ch'esso ha assunto storicamente. Si può essere
antidemocratici senza essere fascisti. Non tutto ciò che non ci piace è
fascismo. (…). I suoi caratteri sono riassunti così: identità aggressiva e
purismo etico; rifiuto della modernità e tradizionalismo reazionario; rigetto
dei principi dell'89 e dei diritti individuali; irrazionalismo e primato
dell'azione sulla riflessione e sulla discussione; decisionismo; culto della
forza e "machismo", anti-parlamentarismo; ostilità nei confronti
della libertà di scienza arte e stampa, sospette portatrici di germi critici;
esaltazione dell'uomo medio e del senso comune; concezione del popolo come un
tutt'uno indifferenziato; corporativismo; intolleranza nei confronti dei
"diversi" e dei "non integrabili"; xenofobia variamente
motivata e razzismo; pensiero unico e unanimismo; fantasmi di complotti;
nazionalismo ripiegato su se stesso contro internazionalismo e, a maggior
ragione, cosmopolitismo; complesso di unicità e di superiorità, unito a
vittimismo che sfocia in aggressività. Il linguaggio, a sua volta, è l'ingrediente
comunicativo pieno di sottintesi: parole nuove, parole antiche in significati
nuovi; parlar violento e plebeo di cose difficili ed elevate; accarezzare
l'ignoranza e la banalità di massa. Non necessariamente tutti compresenti,
questi sono aspetti delle "società chiuse" o "società
organiche", di cui il modello primordiale è, propriamente, la tribù.
Sebbene talora si abbia l'impressione di cose relativamente moderne, comparse
nel secolo dei totalitarismi, sono invece antichissime. L'archetipo è il
tribalismo da sempre riemergente in particolari situazioni storiche, ogni volta
con caratteri propri, per esempio con quelli del fascismo. Ciò significa che
tutti i fascismi sono tribalisti, ma non tutti i tribalismi sono fascisti.
Donde la deduzione: per mettersi il cuore in pace non basta dire che, data
l'incontestabile distanza della società odierna da quella del secolo scorso,
ciò che bussa alle nostre porte non è fascismo; possono battere, uno dopo
l'altro, gli ingredienti del tribalismo; ed è perfino peggio, perché è facile
illudersi che ci si fermi lì. Invece, uno dopo l'altro, possono diventare una
valanga. A forza di subire adeguandosi, si finisce per diventare qualcosa che
non si sarebbe voluto e, all'inizio, nemmeno si sarebbe immaginato. Resta la
domanda: che fare? (…). Si sarà notato che tutti gli elementi del tribalismo
stanno anzitutto nel "substrato" delle azioni e dei convincimenti
sociali. Da lì occorre procedere. A chi pretende di parlare a nome degli
"italiani" e della loro "identità", si opponga il dissenso;
a chi esalta la forza, si oppongano il rispetto e la mitezza; a chi
burocratizza la scuola e l'università per trasformarle in avviamento
professionale, si oppongano i diritti della cultura; alle illegalità, si reagisca
senza timore con la denuncia; alla cultura della discriminazione e della
violenza, si contrappongano iniziative di solidarietà. Agli ignoranti che usano
la vuota e spesso oscena neo-lingua, si chieda: ma che cosa dici mai, come
parli? eccetera, eccetera. Fino al limite della resistenza ai soprusi e della
disobbedienza civile che, in casi estremi, come ha insegnato don Milani, sono
virtù.
domenica 25 novembre 2018
Cronachebarbare. 61 «”Me ne frego” era proibito, "me ne frego" era la morte».
Scriveva Pier Paolo Pasolini: «L’Italia sta marcendo in un benessere
che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo:
prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il
fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella
forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo
che apparentemente funziona con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre
essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole:
occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come
codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo
brutalmente egoista di una società». Lo scriveva P.P.P., con la Sua
scrittura sempre pregna di “patos” e le Sue intuizioni profetiche che
anticipavano sempre e le cose e gli avvenimenti a venire, su “Vie Nuove” il 6
di settembre dell’anno 1962. Ora sfido voi a negare come quelle Sue affermazioni
non si possano attagliare agli avvenimenti politico-sociali che hanno
interessato il bel paese da una indimenticata ed infausta “discesa in campo”, per
approdare poi al tempo del “rignanese”, tempo goliardicamente
definito della “rottamazione”, per giungere infelicemente a questo tempo nostro
del “me
ne frego”, tempo che con sprovvedutezza ed arroganza lo si è definito del
“cambiamento”.
P.P.P. lo aveva ben definito quell’aspetto della vita associata del bel paese
che non muta mai quella sua aspirazione latente, sonnacchiosa a quel “fascismo
eterno” per come lo avrebbe ben definito successivamente Umberto Eco. Avrebbe
P.P.P. definito al meglio le Sue intuizioni quando sul Corriere della Sera del
10 di giugno dell’anno 1974, nel pezzo che ha per titolo “Gli italiani non sono più quelli”, avrebbe scritto: «L’omologazione
culturale (…) riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto
sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che
genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è dunque differenza
apprezzabile – (…) – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un
qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente,
psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente,
interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente
che distingua – (…) – un fascista da un antifascista (…). Ecco perché
oggigiorno non può sorprendere più di tanto, né tantomeno scandalizzare – ché di
scandalizzarsi al momento siano stati in ben pochi lo si deve a quel trascorso
denunciato da P.P.P. – questo ritorno ad uno sfacciato, inquietante “me
ne frego” che impregna ed indirizza ogni svolazzo della pratica politica
dei temporanei reggitori della cosa pubblica. Di quel triste e becero “me
ne frego”, erroneamente considerato legato ad una passata, non
rinnovabile stagione storico-politica, ne ha un (caro, familiare) ricordo lo
scrittore Maurizio Maggiani che ce lo rende, con la vividezza e nitidezza della
Sua scrittura, in «Antifascismo è non
dire mai “me ne frego”», “pezzo” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
21 di novembre 2018: Tanto
tempo fa, in un giorno d’estate, un futuro scrittore, allora ragazzino, rispose
così, sbadatamente, al papà, ricevendo in cambio il primo e unico schiaffo
della vita: “Ora capisco cosa voleva insegnarmi la sua mano”. Per tutto il
tempo che ha potuto esercitare la sua potestà sulla mia capoccia, mio padre ha
alzato le mani una sola volta per prenderla di mira, ed è stato un gran fatto,
un manrovescio, un patton nella mia lingua natale, che mi si è impresso nella
mente così come nel corpo, nel corpo tra guancia, orecchio e collo, un tinnire
di denti, un fischiare di orecchio, un palpitare di pupilla che ancora mi si
rievocano con cristallina presenza a mezzo secolo dall’accaduto. Ricordo il
tempo, era estate e andavo per la terza media, e naturalmente ricordo ragione e
motivo, e ricordo molto bene come mi fossero apparsi incomprensibili e
ingiustificabili, e come recriminassi, in silenti ma cogenti lacrime, la
gratuità di tanta crudele violenza. Di fatto avevo solo sbadatamente risposto
«me ne frego» a una qualche sua osservazione, la sostanza della quale mi parve
così irrilevante che, quella sì, non riesco a farmela tornare alla mente; mio
padre non era un uomo dedito a un intenso dialogo intergenerazionale, non
ritenne di dover accompagnare il gesto con verbo alcuno, dopodiché fece passare
un giorno intero prima di aprir bocca in merito all’accaduto, e lo fece con
poche e ben scandite parole: non voglio un fascista in casa mia. Mio padre
aveva dei problemi con il fascismo in generale e con i fascisti in particolare,
era stato condannato a morte in contumacia dalla Repubblica Sociale come
militare renitente, dopodiché lui e i fascisti si erano combattuti per due
interi anni armi in pugno nella montagna che si vedeva da casa nostra, proprio
dove andavamo a fare la scampagnata a ferragosto. Questo lo sapevo, mi era
stato raccontato, parcamente da mio padre e più diffusamente, con ricchi e
conturbanti particolari, dai suoi amici che venivano a trovarlo e che erano più
propensi a darmi confidenza; potevo dunque capire come mio padre riprovasse
fortemente l’idea di un fascista in casa sua, non mi capacitavo però per quale
ragione il fascista dovevo essere io, per via di quel «me ne frego», possibile?
Ci
dovetti pensare un po’, in effetti continuo a pensarci ancora, ci penso molto
in questi giorni per il gran parlare che si fa del fascismo, e anche
dell’antifascismo. Beh, sì, io sono antifascista, so che a questo punto posso
articolare un ragionamento intelligentemente complesso sul perché lo sono, ma
in tutta sincerità le ragioni fondanti del mio antifascismo sono di grande
semplicità. Mi sono fatto una prima, rudimentale coscienza antifascista intorno
ai tredici anni per vedere di risparmiarmi degli altri patriarcali manrovesci,
ho poi raffinato la coscienza non molti anni dopo, lontano ormai dalle grosse
mani paterne e per questa ragione propenso a considerare in libertà di cosa
intendessero parlare quelle mani, le mani parlanti di un uomo che non aveva che
poche parole e per il tempo che ha vissuto, con il lavoro delle sue mani aveva
edificato tutto ciò che intendeva essere e intendeva che il mondo fosse, tutto
ciò che di lui voleva si sapesse, e capisse. Non era il solo se è per questo,
sono nato e cresciuto tra uomini e donne che gli somigliavano, che con il lavoro
delle proprie mani compendiavano la loro vita e altro strumento per educarmi
non avevano se non il loro agire, il loro edificare. Agivano per la vita, e
nient’altro che vita edificavano; niente di che, vita da poco, vita di molta
miseria e qualche speranza, e quella loro speranza nella miseria trovava
ragione solo nel fatto che si incaparbivano a non fregarsene di niente e di
nessuno, di nessuno che vivesse, uomo, pianta, animale e sasso.
sabato 24 novembre 2018
Terzapagina. 53 «Certe vite sono parecchio più divertenti da leggere di altre».
Tratto da "Scandalo a Hollywood” di Woody Allen, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 12 di gennaio dell’anno 2017: La vita è terribilmente ingiusta.
Anni fa, quando rimossi il vecchio linoleum di un appartamento malmesso che
avevo preso in affitto, ci trovai sotto soltanto “schmutz”: schifezze
assortite, chewing-gum solidificato e la matrice strappata di un biglietto per
la pièce teatrale Moose Murders. Ed Sorel invece rimuove il vecchio linoleum
del suo appartamento e ci trova sotto giornali ingialliti con titoli a tutta
pagina su uno scandalo, che gli hanno fornito materiale per un libro stupendo.
E non solo scrive un libro stupendo (“Mary Astor’s Purple Diary”, pubblicato in
America da Liveright, ndr), ma lo illustra pure con le sue meravigliose
caricature. Chi avrebbe immaginato che la vita di Mary Astor potesse essere una
lettura tanto piacevole? Ma la storia che racconta Sorel, con il suo stile
colloquiale ed eccentrico, è succosa, divertente e alla fine toccante. Ma
perché Mary Astor? Solo perché il caso ha voluto che fosse sotto al suo
linoleum? Non fraintendetemi, mi piaceva Mary Astor. Trovavo piacevole vederla
al cinema, ma non ho mai perso la testa per lei come Sorel, e se fossi stato io
a trovarla sotto il linoleum non avrei provato l’impulso ad approfondire quei
dettagli interessanti che hanno affascinato Sorel. Per me Mary Astor era
un’attrice molto brava, magnifica ma non entusiasmante come Bette Davis o
Vivien Leigh, per citarne due. E quando Bogart, nel Mistero del falco, dice che
il suo socio assassinato era un detective troppo astuto per seguire un uomo che
stava pedinando dentro un vicolo senza uscita, ma poi dice a Mary Astor, «Ma
con te ci sarebbe andato, angelo. Ti avrebbe squadrata dall’alto in basso, si
sarebbe leccato le labbra e ci sarebbe andato, con un sorriso a trentadue
denti», concordo solo a metà con questo apprezzamento.Il fatto è che mi
vengono in mente una dozzina di altre femme fatale da cui preferirei farmi
attirare in un vicolo buio per essere pestato o ammazzato. Perfino Sorel, che è
innamorato al punto che vorrebbe vederla immortalata su un francobollo,
concorda che non ha mai raggiunto i vertici di umidità sensuale di Rita
Hayworth o Marilyn Monroe. Ma allora che cosa aveva Mary Astor da riuscire a
scriverci sopra un libro così bello? Beh, per dirne una, aveva un grosso
scandalo, e di quelli torridi per di più. E anche se non emanava sex appeal
odorava di aristocrazia, o almeno il suo cognome, Astor, puzzava di maniero
inglese. Naturalmente non era collegata in alcun modo all’uomo più ricco del mondo
che affondò a bordo del Titanic. Astor non era il suo vero cognome. Era nata
Lucile Vasconcellos Langhanke, un nome che sulla locandina media di un film
probabilmente non sarebbe neanche entrato. E, studiando il testo di Sorel,
rimaniamo sorpresi nello scoprire che la donna che interpretava la parte della
saggia e affettuosa mamma di Judy Garland e Margaret O’Brien in Incontriamoci a
Saint Louis, la presenza materna che cantava con il suo sposo nel salotto
vittoriano del film in realtà era una festaiola sboccata, bevitrice e affamata
di sesso. Figlia di una madre che non l’ha mai amata e un padre che sfruttava
finanziariamente il suo successo, aveva sviluppato presto aspirazioni attoriali
e aveva la fortuna di possedere una grande bellezza, oltre al talento. A poco
più di diciassette anni, aveva già una storia importante con John Barrymore,
enormemente più vecchio di lei, infinitamente più esperto, un ubriacone di
prima categoria e uno dei più grandi attori del palcoscenico americano. All’inizio,
Lucile Langhanke interpreta dei piccoli ruoli e si fa notare più che altro per
la bellezza. Ben presto finisce nella capitale del cinema e fa colpo su Jesse
Lasky, un pezzo grosso degli studios che vuole scritturarla per dei
lungometraggi. Lasky cambia il suo goffo cognome teutonico e lei si ritrova
tramutata d’incanto, da questo dio di Hollywood, in Mary Astor. All’inizio fa
delle particine in qualche pellicola mediocre, ma alla fine diventa un’attrice
promettente, che frequenta il bel mondo della West Coast. Quando la relazione
con Barrymore si esaurisce, si mette con un personaggio benevolo di nome Glass,
con cui resta a lungo per la grande costernazione dei suoi genitori, la cui
influenza non riesce a scrollarsi di dosso. Lascia Glass e incontra Ken Hawks,
il fratello del grande regista Howard Hawks. Lo sposa e, anche se si dimostra
di buona compagnia come marito, fin dall’inizio nota una certa pigrizia nella
sua libido. La giovane Mary, che invece è passionale, inizia una storia con un
produttore che la mette incinta. Lei non vuole un bambino, ma, considerando le
pressioni cattoliche predominanti, un aborto sarebbe un disastro per la sua
carriera. Entra in un posto riccamente decorato che offre “trattamenti
terapeutici” ma in realtà è una copertura per le operazioni chirurgiche
necessarie a rimandarla a casa immacolata come conviene. Flashback su Ken
Hawks, il suo affettuoso e lattiginoso compagno di letto: sta girando un’epopea
aeronautica e (lo direste mai?) mentre dirige una scena di volo il suo aereo si
va a schiantare, lasciando Mary vedova. Mary è triste, beve, lavora e alla fine
incontra Franklyn Thorpe. Thorpe era un esuberante medico delle star, con una
clientela ricca di celebrità. Lui e Mary si sposano e col tempo, anche se fanno
un figlio insieme, il dottor Thorpe esce bocciato dall’esame del materasso,
ostacolo insormontabile per certi uomini della vita di Mary. Ma mentre la vita
coniugale è di nuovo noiosa e la relazione si deteriora, la sua carriera ormai
è in ascesa e ottiene un ruolo da leccarsi i baffi nella versione
cinematografica del successo teatrale Dodsworth ( Infedeltà). Uno dei
protagonisti è il meraviglioso Walter Huston, e nella parte di sua moglie c’è
Ruth Chatterton. Mary è la terza dell’illustre cast, un colpaccio per lei.
Arrivata a questo punto vorrebbe tanto sbarazzarsi di suo marito, e chi può
biasimarla? Il dottor Thorpe non gradisce l’idea di un divorzio e la coppia si
impaluda in un limbo, paralizzata dagli dei gemelli dei matrimoni falliti,
Paura e Inerzia. Poi per Mary arriva un viaggio a New York, lontano dal marito.
Con i suoi ormoni che come al solito tintinnano percepiamo che è stata
raggiunta la massa critica per trastullarsi un po’. A New York Bennett Cerf la
presenta a George Kaufman, il commediografo di maggior successo di Broadway.
Dietro quella faccia lunga e tetra e gli occhiali, era impossibile che qualcuno
potesse scambiare quest’uomo per un meccanico da boudoir. Anzi, Kaufman era uno
terrorizzato dai germi, e questa storia è la dimostrazione che un bacio
appassionato con un partner sexy sconfigge tutti i batteri. Kaufman fece
perdere la testa a Mary. Oltre a portarla a vette empiree tra le lenzuola, la
portava a teatro, all’opera, al “21” e alla favoleggiata “Tavola rotonda”
dell’Algonquin, a pranzo insieme a Woollcott, Benchley e a quella lingua di
vipera di Dorothy Parker. Un’altra delizia che mi concede Sorel nel libro è una
citazione di Dorothy Parker che non avevo mai trovato prima, nonostante sia un
devoto fan: disgustata dalla spazzatura che sfornavano gli studios
hollywoodiani, la Parker sosteneva che Mgm stava per “Metro- Goldwyn-Merde”. E
così ecco la nostra eroina che visita New York con il commediografo preferito
di Groucho Marx, ed è un gran complimento per Kaufman. Quando l’orologio batte
la mezzanotte e lei deve tornare in California, torna a insistere con suo
marito per il divorzio, ma Thorpe rimane intransigente. I rispettivi avvocati
imbracciano le armi e si scatena una battaglia per la custodia dell’unica
figlia della coppia. Il dottore usa la bambina come arma per impedire a Mary di
lasciarlo. Sostiene che è inadatta come madre e come prova adduce che è
un’adultera dichiarata. Per avvalorare le sue affermazioni mostra il suo
diario. Si stenta a crederlo, ma questa donna aveva
messo nero su bianco le sue sessioni da quattro volte a serata con Kaufman e,
peggio ancora, suo marito era riuscito in qualche modo a mettere le mani sul
suddetto licenzioso volume, che contiene resoconti espliciti del sesso fra
questa donna sposata e il consorte di un’altra donna. Sì, anche Kaufman era un
uomo sposato e non appena i primi resoconti dei loro paonazzi sfregamenti
arrivarono sui rotocalchi, la battaglia legale si trasformò in un bagno di
sangue.
venerdì 23 novembre 2018
Riletture. 44 «La post-verità è un pericolo reale».
Tratto da “L’era
della post-verità, realtà à-la-carte per noi post cretini” di Alessandro
Robecchi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 23 di novembre dell’anno
2016: (…). Le sorti del mondo sarebbero messe in forse dal fatto che milioni,
forse miliardi, di persone credono alla prima fregnaccia che dice la rete,
invece di leggere il New York Times sulle poltrone in pelle del circolo del
bridge. C’è del vero, probabilmente. E del resto se i media ufficiali cavalcano
questa cosa della post-verità è anche per non ammettere il fallimento: non
sappiamo più leggere la società (Trump, Brexit, eccetera). Ma questi sono
discorsi complessi, per esperti. Ci limitiamo a scorgere piccoli segnali di
post-verità che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Il post-soffritto. In
una bella intervista al Corriere della Sera, il famoso cuoco Massimo Bottura,
il più bravo del mondo, dicono, ci spiega cos’è la narrazione ai fornelli.
“Dovevo fare una carbonara per duemila persone, ma avevo bacon per due
porzioni. L’ho tagliato a fettine sottilissime e le ho stese sulla teglia. Poi
ho preso delle bucce di banana. Le ho sbollentate, grigliate, tostate in forno.
Alla fine erano affumicate, croccanti. Le ho fatte a cubetti, ricoperte di un
altro strato di bacon e rimesse in forno: il bacon si è sciolto; le bucce di
banana parevano guanciale”. Perfetto, pare la ricetta delle riforme renziane,
tipo il Jobs act al sapore di tempo indeterminato (tagliato finissimo) e tanti
cubetti di voucher, ma tanti, eh! Per carità, saremo lontani dalle solenni
riflessioni sulla post-verità, ma la post-carbonara esiste e lotta insieme a
noi Il post-emigrante. Piccolo esempio di post-valigia-di-cartone. Intervistato
a Piazzapulita, il grande manager Andrea Guerra (ha lavorato in molte aziende,
non tutte in attivo: Luxottica, Governo Italiano, Eataly) ha detto la sua sugli
italiani all’estero. Ha detto che lui se n’è andato, che è giusto andarsene, e
che l’importante è che dopo, fatte queste “esperienze meravigliose all’estero”,
si torni qui a dare una mano. In pratica, fateci caso, quando si parla di
italiani all’estero si citano sempre i supermanager, gli scienziati, le
eccellenze, oppure una specie di éducation sentimentale per giovani europei,
una gaia aria di Erasmus per milioni di persone.
giovedì 22 novembre 2018
Sullaprimaoggi. 36 «Merkel: l’Europa si salva insieme o perisce insieme».
Tratto da “Merkel
e l’Europa unita (contro Trump)” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 20 di novembre 2018: (…). Cosa ha detto Angela? “Il tempo in cui
potevamo contare sugli altri è finito: oggi noi europei dobbiamo prendere il
destino nelle nostre mani”. Quegli “altri” sono gli americani come Angela aveva
detto in modo più esplicito qualche mese fa in un’occasione meno solenne. La
prima cosa da fare, secondo Merkel, è “costruire un vero esercito europeo”. Di
questa intenzione, per la verità di lunga data perché già negli anni Ottanta
tedeschi e francesi avevano cercato di costituire un primo nucleo di un
esercito europeo, tentativo bloccato dagli Stati Uniti, si è accorto,
preoccupandosene, anche il Washington Post per la firma di un suo autorevole
editorialista, David Ignatius. Adesso, col discorso di Merkel, questo tentativo
è diventato ufficiale. Per i soliti motivi (80 basi militari americane, anche
nucleari, in Germania, 60, in parte atomiche, in Italia) Merkel non ha potuto dire a chiare lettere
che i Paesi europei che fanno parte della Nato dovrebbero denunciare questo
Trattato che è uno degli strumenti con cui gli Stati Uniti hanno tenuto in stato
di minorità l’Europa dal punto di vista militare, politico, economico. E, alla
fine, anche culturale, per rendersene conto basterebbe guardare i programmi dei
film che si danno da noi quasi monopolizzati dalle grandi major yankee. Questa
minaccia sottintesa di lasciare la Nato è stata invece avvertita dal Washington
Post. Dovrebbero rendersene conto anche gli altri Paesi europei. E Trump ce ne
ha dato il destro come scrive lo stesso
Washington Post: “Dal giorno in cui si è insediato Trump ha fatto vacillare la
Nato”.
mercoledì 21 novembre 2018
Riletture. 43 «La vita è senza significato, lo si capisce presto».
Tratto da “Magico
Woody” di Arianna Finos, pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 21 di novembre
dell’anno 2014: (…). Allen, il suo cinema è pieno di maghi e prestigiatori. "Sì.
Stavolta sono partito dalle gesta di Houdini, famoso per aver smascherato falsi
medium. Nell'America anni Venti erano molti: rubavano i soldi alla gente
fingendo di comunicare con i morti, predire il futuro, possedere strani poteri.
Gli intellettuali e gli scienziati potevano essere raggirati, gli illusionisti
no".
Lei era appassionato fin da bambino di
trucchi magici. "Facevo pratica per ore. Mi piacevano la scatola cinese, i
trucchi con le carte e tutto l'armamentario. Ero bravo a fare le cose che si
fanno quando sei solo. Chiuso in camera a suonare jazz al clarinetto, scrivere,
provare giochi con le carte o le monete. Mi piacevano, quando mostravo i giochi
agli amici, le reazioni entusiaste. In fondo il regista è un illusionista, usa
gli stessi trucchi: convince il pubblico e poi lo sorprende, lo illude che
quello che c'è sullo schermo è vero".
Il film ("Magic in the
moonlight" n.d.r.) suggerisce che l'unica magia della vita è
l'amore. "Fortunatamente quando ci si innamora ci si appassiona. Incontri
qualcuno e una piccola magia ti attraversa. La vita è tragica e senza
significato, lo si capisce presto. Dio non esiste. Per sfuggire alla
depressione, alla paura, si cerca qualcosa che ci faccia sentire meglio. Alcuni
pensano che l'arte sia la risposta: io muoio ma la mia arte vivrà per sempre e
altre sciocchezze. I cattolici pensano: io muoio, ma la mia anima vivrà per
sempre. Altri cercano nuove strade per il conforto".
Perché così scettico sulle religioni? "Non
sono contro la fede individuale. Non ho questo tipo di sentimenti, ma li
rispetto. Ma le organizzazioni religiose sono terribili, con i loro precetti, i
capi eleganti che sanno quel che Dio vuole fingendo di avere le risposte.
Possono essere responsabili di gesti orrendi, ruberie, omicidi".
Quando ha perso le illusioni? "Molto
presto. Ero un bimbo quando ho scoperto che non c'era Babbo Natale e non c'era
Dio, nessun uomo con la barba che vegliava sul mondo e aveva creato le cose.
Sono cresciuto troppo in fretta. È spaventoso rendersi conto che non c'è
nient'altro fuori da te. L'unica cosa che puoi decidere è vivere la tua vita in
modo etico, morale. Non perché hai paura di andare all'inferno o c'è qualcuno
che veglia su di te. Perché è buono in sé e non per compiacere un'immaginaria
figura paterna".
Condivide la fede del suo personaggio nella
scienza? "Sì. Non ha tutte le risposte, ma è il meglio che l'uomo possa
fare. La scienza ci procura le medicine, la tecnologia, lo sciacquone del
bagno... Ci fa capire cos'è l'universo, da dove veniamo. E c'è un progresso
costante di invenzioni e scoperte che ci aiutano a vivere una vita migliore. Le
risposte più giuste che può fornire la razza umana le ha trovate la
scienza"
Quali sono i momenti magici della sua vita? "Quando
incontro qualcuno e m'innamoro, quando i bambini fanno qualcosa che mi
stupisce, quando suono. Quando guardo una partita ho momenti di estasi. Ma so
che sono piccole oasi nel deserto della tragedia. Ci sono momenti della vita
che sono meravigliosi, la vita non lo è. È un deserto pieno di polvere,
esplosioni, morte, violenza. Il meglio che puoi fare è godere dei fuggevoli
momenti di meraviglia, perché la vita va avanti, che tu voglia o no".
Il consenso di Obama, che lei ha sempre
sostenuto, è ai minimi storici. "Penso che sia una vergogna per gli Stati
Uniti. Obama è un grande presidente. Intelligente, onesto, perbene. Ha avuto
l'incarico in un momento terribile sul fronte economico e internazionale. Ha
fatto qualche errore, come tutti. Ma lo voterei ancora, se si candidasse".
Perché la gente gli ha voltato le spalle? "Penso
che il suo staff abbia perso la guerra mediatica. Non ha saputo esaltare le
cose buone che aveva fatto in materia di sanità, istruzione, ambiente. Lo
scrittore Henry Louis Mencker diceva che il pubblico americano non è mai stato
esempio di buone scelte. Coloro che Obama ha aiutato ora gli sono contro perché
non capiscono che dai prossimi non avranno benefici ma ferite. Obama sarà molto
rimpianto. E se non avesse avuto un'opposizione repubblicana così feroce,
avrebbe fatto cose meravigliose per il nostro paese".
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