All’indomani dell’esito referendario del 4 di
dicembre dell’anno 2016 “Il populismo
del potere” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 6 di
dicembre dell’anno 2016: La semplificazione assoluta della politica è
stata inventata da Renzi come il post-linguaggio, dopo la fine delle ideologie,
delle appartenenze, delle distinzioni di campo tra destra e sinistra. Arrivata
alla sua forma estrema nella logica propria del referendum - la riduzione del
discorso politico alla scelta basica tra un Sì e un No, senza sfumature - quella
semplificazione si è imbizzarrita, disarcionando il suo cavaliere e gettandolo
a terra sconfitto, senza rimedio. Tutti gli elementi della grande
semplificazione si erano riuniti in questo scontro referendario, e molti li
aveva materializzati proprio il presidente del Consiglio, incautamente. Una
riforma della Costituzione è cosa complessa, che va spiegata con pazienza nella
sua logica e nella tecnica. Qui ha preso l’aspetto di un mezzo colpo d’accetta
contro la “casta”, con riduzione dei senatori, dei loro stipendi, della loro
potestà legislativa, senza la costruzione di un paesaggio culturale, storico e
istituzionale che trasmettesse la sensazione di una modernizzazione governata
del sistema, di una riforma rispettosa della cornice costituzionale, nella
quale inserire un principio di innovazione coerente. Renzi ha scommesso sulla
voglia di cambiamento degli italiani, estenuati dall’inefficienza della
macchina politica, dall’inefficacia di quella amministrativa e
dall’improduttività di quella istituzionale. Ha scelto due bersagli grossi e
facili, l’alto numero dei parlamentari e la rigidità del bicameralismo troppo
perfetto. Ha pensato di proporsi come l’unico attore del rinnovamento,
denunciando come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano riserve
e obiezioni, o difendevano la Costituzione. Chiuso in questo recinto
artificiale perfetto, ha poi esposto la collezione degli avversari
rivendicandola, orgoglioso del loro numero e incurante della somma finale,
nella convinzione di avere il popolo con sé. Attacco alla casta,
antiparlamentarismo, mozione degli istinti antipolitici: sono tutti elementi di
un inedito populismo del potere che Renzi ha provato a impersonare nel tentativo
- o nella tentazione - di disegnarsi un doppio profilo di lotta e di governo,
usando le armi dell’antipolitica per combatterla. Come se il premier dicesse al
sistema che doveva torcersi per salvarsi, e l’atto stesso del cambiamento
diventava più importante della sua qualità. Come se fosse semplice parlare
contemporaneamente la lingua del governo e quella dell’opposizione. Come se
fosse possibile una dose omeopatica di antipolitica nel governo di una
democrazia occidentale moderna. Tutto questo ha prodotto una semplificazione
simmetrica nelle opposizioni, ma ben più radicale ed estrema, perché libera nei
linguaggi, nelle responsabilità, nelle contraddizioni. In questa raffigurazione
del No, la riforma è diventata addirittura una prova di colpo di Stato, di
gesto tirannico, di autoritarismo, mentre era evidente semmai la mancanza di
autorità del governo, non altro. (…). A questo punto è scattata l’ordalia
mortale, e il referendum si è trasformato in un plebiscito a favore o contro
Renzi. E qui c’è il peccato capitale del presidente del Consiglio: non aver
creduto nella politica, ma solo nel rapporto di forza. Non aver capito che
l’ordalia compiva il miracolo di coalizzare l’incoalizzabile. Non aver compreso
che solo dando un’anima politica al corpo scomposto della riforma si sarebbero
selezionati i consensi e i dissensi su un asse riconoscibile e trasparente,
evitando una sommatoria indistinta. Un discorso autenticamente riformista, progressista,
sulla necessità di riformare la Carta rispettandone forma e sostanza
probabilmente avrebbe perso per strada Verdini ma avrebbe guadagnato coerenza,
selezionando anche nel campo del No. Qui c’è forse il limite maggiore di Renzi.
Pensare che la politica sia di volta in volta forza, istinto, tecnica e
coraggio - ciò che certamente è -, ma non cultura. Il referendum è il risultato
finale di questa visione. Quasi che Renzi avesse rinunciato al tentativo più
ambizioso e necessario, l’egemonia culturale. Ma senza una base culturale la
politica non vive di vita propria, bensì di rappresentazione. Mima la realtà e
non l’impersona. Trasforma se stessa in performance, che si consuma mentre si
compie, senza lasciare traccia dopo lo spettacolo, quando si accendono le luci.
Coinvolge il cittadino, ma nel ruolo di spettatore seduto in platea, e non di
soggetto che pretende rappresentanza. Consente e autorizza un immiserimento
della contro-politica, che abbassa il livello del discorso fino agli stilemi
della “schiforma”, sostenuta dai “poteri marci”. Questa debolezza culturale e
politica si lega con la rinuncia di Renzi a impersonare e usare il Pd,
accontentandosi di comandarlo. Bisognava spendere tempo e impegno - la “grande
fatica della democrazia” - per far diventare la riforma una conquista
ragionevole di tutto il Pd, capace a quel punto di sostenerla a testa alta nel
Parlamento e nel Paese, come aveva fatto con la candidatura di Mattarella al
Quirinale.
La riforma avrebbe trovato così una base materiale, un’anima culturale e un’identità politica, diventando espressione matura e condivisa di una sinistra di governo, non di un singolo contro tutti. Naturalmente questo avrebbe dato un “colore” alla riforma, il colore del riformismo. Ma avrebbe anche dato un destino di leadership compiuta a Renzi e di responsabilità coerente alla sinistra interna, che oggi compie invece il gesto contronatura di chi applaude la caduta del proprio governo: ancora una volta, e senza sapere se e quando ce ne sarà mai un altro. Alla fine, dunque, Renzi cade su un problema di identità, inseguendo il tutto e rinunciando a impersonare la parte che gli si è affidata. È una mentalità eternamente minoritaria (titanica e minoritaria insieme), che abbiamo già visto in altri leader incapaci di rivestirsi della maestà di una storia comune, accontentandosi di controllarla. Pesa in questo la dannazione fratricida della sinistra, la sua vocazione cannibale con la delegittimazione permanente del leader da parte della minoranza interna. Ma pesa anche la convinzione che i partiti siano strumenti del Novecento, senza tradizioni e radici, quindi impersonabili a piacere dal leader del momento, come vestiti che si cambiano quando cambia la stagione. In questo disancoramento dalla storia e dalla cultura la politica vive di fiammate estemporanee, nascono gli innamoramenti per un leader subitanei ma senza radici, cresce all’improvviso il disamore, quando si gonfia l’onda delle promesse mancate, del risentimento sociale, della solitudine dei non rappresentati, della crisi più forte di ogni sovranità democratica. Al fondo c’è il grande errore della post-politica, la convinzione che destra e sinistra siano categorie superate che non servono più per leggere il mondo e per rappresentarlo. Come se Trump e i populismi di casa nostra non fossero destra reale - anzi, realizzata - nei linguaggi, nei disegni, nei programmi, nella cultura. Nell’età del trumpismo, di Salvini e di Grillo ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo moderna, occidentale, europea, finalmente risolta invece di inseguire l’indistinto, che è un campo vasto, ma non ha un’anima. E la politica, come un buon diavolo, fa commercio di anime: senza le quali, come dimostra il referendum, va a fondo.
La riforma avrebbe trovato così una base materiale, un’anima culturale e un’identità politica, diventando espressione matura e condivisa di una sinistra di governo, non di un singolo contro tutti. Naturalmente questo avrebbe dato un “colore” alla riforma, il colore del riformismo. Ma avrebbe anche dato un destino di leadership compiuta a Renzi e di responsabilità coerente alla sinistra interna, che oggi compie invece il gesto contronatura di chi applaude la caduta del proprio governo: ancora una volta, e senza sapere se e quando ce ne sarà mai un altro. Alla fine, dunque, Renzi cade su un problema di identità, inseguendo il tutto e rinunciando a impersonare la parte che gli si è affidata. È una mentalità eternamente minoritaria (titanica e minoritaria insieme), che abbiamo già visto in altri leader incapaci di rivestirsi della maestà di una storia comune, accontentandosi di controllarla. Pesa in questo la dannazione fratricida della sinistra, la sua vocazione cannibale con la delegittimazione permanente del leader da parte della minoranza interna. Ma pesa anche la convinzione che i partiti siano strumenti del Novecento, senza tradizioni e radici, quindi impersonabili a piacere dal leader del momento, come vestiti che si cambiano quando cambia la stagione. In questo disancoramento dalla storia e dalla cultura la politica vive di fiammate estemporanee, nascono gli innamoramenti per un leader subitanei ma senza radici, cresce all’improvviso il disamore, quando si gonfia l’onda delle promesse mancate, del risentimento sociale, della solitudine dei non rappresentati, della crisi più forte di ogni sovranità democratica. Al fondo c’è il grande errore della post-politica, la convinzione che destra e sinistra siano categorie superate che non servono più per leggere il mondo e per rappresentarlo. Come se Trump e i populismi di casa nostra non fossero destra reale - anzi, realizzata - nei linguaggi, nei disegni, nei programmi, nella cultura. Nell’età del trumpismo, di Salvini e di Grillo ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo moderna, occidentale, europea, finalmente risolta invece di inseguire l’indistinto, che è un campo vasto, ma non ha un’anima. E la politica, come un buon diavolo, fa commercio di anime: senza le quali, come dimostra il referendum, va a fondo.
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