Ha scritto
Riccardo Q. nel suo componimento “Ritorno
a scuola” – pubblicato sul sito 98zero.it -: (…). Quando arrivai a scuola il
mio cuore scoppiò per tutte le emozioni che provavo. Ci voleva un mezzo pesante
per contenerle tutte. Entrai e pensai di essere come un piccolo principe che
rientra nel suo castello sperduto. I miei compagni dalla gioia di entrare
nuovamente nella piccola, vecchia aula, dove avevamo lasciato le nostre ferite,
i nostri pianti per i testi e i voti non soddisfacenti, si misero a ballare e
cantare senza accorgersi che il pavimento stava per cedere dai passi furiosi. (…).
Uscimmo per fare la lezione di motoria ed ecco un colpo di spada mi ferì nel
cuore, la natura morta del cortile era stata abbandonata lì imprudentemente
dagli operai che avevano svolto i lavori. I mattoni erano stati buttati,
incustoditi, tra fusti taglienti, più che un giardino scolastico sembrava il
buco nero della sporcizia. Io sono rimasto scioccato, quasi paralizzato da un demone,
tutti quegli attimi passati con madre natura negli anni della mia crescita
erano stati ignorati, calpestati, bistrattati da tutta quella immondizia. (…). Spero
di riuscire a godermi gli ultimi mesi che mi restano in questa scuola e depongo
le mie speranze tra le sue care mura. Saprà la scuola di Riccardo Q.
dare le risposte che attendono Riccardo ed i suoi compagni di classe? Saprà
essere, quella scuola, “scuola” di umanizzazione per quelle giovanissime vite?
Una pagina bella ed appassionata di scuola di umanizzazione l’ha scritta Giovanni
Mosca (1908-1983) nel Suo celeberrimo “Ricordi
di scuola” – Rizzoli (1983) -, pagina bella ed appassionata di come,
nell’arte dell’educare, vadano colte al volo anche le occasioni all’apparenza
le più inidonee, per stabilire quel contatto con i giovani senza il quale
quella nobile arte traligna in ben altro, ma che nulla possiede della sublime,
solitaria arte dell’educare, che è un condurre per mano le giovani vite che il
caso affida ora a questo ora a quello dei maestri di scuola:
(…). "È
qui che dovete entrare", disse il Direttore fermandosi dinanzi alla porta
della V C dalla quale sarebbe poco dire che veniva chiasso: si udivano grida,
crepitii di pallini di piombo sulla lavagna, spari di pistole a cento colpi,
canti, rumore di banchi smossi e trascinati. "Credo che costruiscano
barricate", disse il Direttore. Mi strinse forte un braccio, se n'andò per
non vedere, e mi lasciò solo davanti alla porta della V C. (…). …aprii quella
porta ed entrai. Improvvisamente,
silenzio. Ne approfittai per richiudere la porta e salire sulla cattedra.
Seduti sui banchi, forse sorpresi dal mio aspetto giovanile, non sapendo ancora
bene se fossi un ragazzo o un maestro, quaranta ragazzi mi fissavano
minacciosamente. Era il silenzio che precede le battaglie. Di fuori era primavera; gli alberi del
giardino avevano messo le prime foglioline verdi, e i rami, mossi dal vento,
carezzavano i vetri delle finestre. Strinsi
i pugni, feci forza a me stesso per non dire niente: una parola sola avrebbe
rotto l'incanto, e io dovevo aspettare, non precipitare gli avvenimenti. I
ragazzi mi fissavano, io li fissavo a mia volta come il domatore fissa i leoni,
e immediatamente compresi che il capo, quel Guerreschi, di cui m'aveva parlato
il Direttore, era il ragazzo di prima fila, - piccolissimo, testa rapata, due
denti di meno, occhietti piccoli e feroci - che palleggiava da una mano
all'altra un'arancia e mi guardava la fronte. Si capiva benissimo che nei
riguardi del saporito frutto egli non aveva intenzioni mangerecce. Il momento
era venuto. Guerreschi mandò un grido, strinse l'arancia nella destra, tirò
indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l'arancia
s'infranse alle mie spalle, contro la parete. Primo scacco: forse era , la
prima volta che Guerreschi sbagliava un tiro con le arance, e io non m'ero
spaventato, non m'ero chinato: avevo appena appena scansato il capo, di quel
poco ch'era necessario. Ma non era finita. Inferocito, Guerreschi si drizzò in piedi e mi
puntò contro caricata a palline di carta inzuppate con saliva la sua fionda di
elastico rosso. Era il segnale: quasi contemporaneamente gli altri trentanove
si drizzarono in piedi puntando a loro volta le fionde, ma d'elastico comune,
non rosso, perché quello era il colore del capo. Mi sembrò d'essere un fratello
Bandiera. Il silenzio s'era fatto più forte, intenso. I rami carezzavano sempre
i vetri delle finestre, dolcemente. Si udì d'improvviso, ingigantito dal
silenzio, un ronzio: un moscone era entrato nella classe, e quel moscone fu la
mia salvezza. Vidi Guerreschi con un
occhio guardare sempre me, ma con l'altro cercare il moscone, e gli altri
fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta che si
combatteva in quei cuori: il maestro o l'insetto? Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi
delle scuole elementari. Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto; ero
fresco di studi e neanch'io riuscivo ancora a rimanere completamente
insensibile alla vista di un moscone. Improvvisamente dissi: "Guerreschi, (il
ragazzo sobbalzò, meravigliato che io conoscessi il suo cognome), ti sentiresti
capace con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?". "È il mio
mestiere", rispose Guerreschi, con un sorriso. Un mormorio corse tra i
compagni. Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi
furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo
seguì, la pallina di carta fece: den! contro una lampadina, e il moscone,
tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano. "A me la fionda!",
dissi. Masticai a lungo un pezzo di carta, ne feci una palla e, con la fionda
di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone. La mia salvezza, il mio
futuro prestigio erano completamente affidati a quel colpo. Indugiai a lungo,
prima di tirare: "Ricordati", dissi a me stesso, "di quando eri
scolaro e nessuno ti superava nell'arte di colpire i mosconi". Poi, con
mano ferma, lasciai andare l'elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone
cadde morto ai miei piedi. "La fionda di Guerreschi", dissi, tornando
immediatamente sulla cattedra e mostrando l'elastico rosso, "è qui, nelle
mie mani, Ora aspetto le altre". Si levò un mormorio, ma più d'ammirazione
che d'ostilità: e uno per uno, a capo chino, senza il coraggio di sostenere il
mio sguardo, i ragazzi sfilarono davanti alla cattedra, sulla quale in breve
quaranta fionde si trovarono ammonticchiate. Non commisi la debolezza di far
vedere che assaporavo il trionfo. Calmo calmo, come se nulla fosse avvenuto: "Cominciamo
coi verbi, dissi. Guerreschi, alla lavagna". Gli detti il gesso. "Io
sono”, cominciai a dettare, "tu sei, egli è... ". E così: fino al
participio passato, mentre gli altri, buoni buoni, ricopiavano sui quaderni, in
bella calligrafia, quanto Guerreschi, capo vinto e debellato, andava scrivendo
sulla lavagna. E il Direttore? Temendo forse, dall'insolito silenzio, ch'io
fossi stato fatto prigioniero e imbavagliato dai quaranta demoni, entrò, a un
certo punto, in classe, e fu un miracolo se riuscì a soffocare un grido di
meraviglia. Più tardi, usciti i ragazzi, mi domandò come avessi fatto, ma si
dovette contentare di una risposta vaga: “Sono entrato nelle loro simpatie”,
signor Direttore . Non gli potevo dire che avevo ucciso un moscone con un colpo
di fionda: ciò non rientrava nei metodi scolastici previsti dalle teorie e dai
regolamenti: né il Lambruschini, né l'Aporti, né il Lombardo-Radice accennano,
nei loro volumi all'uccisione di mosconi da parte degli insegnanti. L'anno
scolastico passò liscio come un olio e Guerreschi, l'ex capo, divenuto mio
adoratore fu promosso con ottimi voti alle scuole secondarie. Lo rividi
l'altr'anno, che usciva dal liceo, in mezzo a un gruppo di compagni. "Il
signor maestro!", disse, e mi venne incontro. Ma era cambiato, non
m'adorava più. Faceva il liceo, oramai, gli mancavano solo pochi mesi agli
esami di maturità, era diventato un giovanotto, alto il doppio di me, ed io non
ero che il piccolo maestro di un tempo, che sapeva tirare bene ai mosconi, sì,
ma nient'altro. "Come state, signor maestro?". I compagni erano
rimasti un po' indietro, e mi guardavano, ridacchiando. Gli scolari del liceo,
pieni di speranze e d'avvenire, orgogliosi dei loro studi classici, ridono
quando vedono un maestro elementare, che non ha speranze, rimarrà sempre un
maestro elementare. "Come state, signor maestro?". Era lui, oramai,
che chiedeva, m'interrogava. e fu sul punto, forse, di battermi una mano sulla
spalla per far bella figura coi compagni. "Sempre alla Dante Alighieri?
Sempre coi ragazzi? Avete ancora una quinta? Vi fanno arrabbiare?". Stavo
per dirgli che avevo cambiato professione, che dirigevo un giornale di cui lui,
proprio lui (lo aveva nelle mani) era forse lettore assiduo: e dicendoglielo,
l'avrei fatto diventare nuovamente mio adoratore: ma stetti zitto, mi piaceva godermi
quella sua superiorità, e quella dei compagni che ridacchiavano. Sono sempre
lì, dopo quella quinta ho avuto tante altre quinte, ma sempre i ragazzi hanno
finito col volermi bene. Ero, benché ancor giovanissimo, il vecchio maestro di
fronte all'antico alunno. Ci sono solo i maestri elementari che a trent'anni,
solo per un momento, magari, si possano sentire già vecchi. "Tirate sempre
con la fionda ai mosconi?". "Sempre", risposi. "La mano è
ancora buona, e", aggiunsi guardandomi intorno e fingendo di cercare nella
tasca una fionda, “se ci fosse qui un moscone, quasi quasi...”. "Signor maestro!",
esclamò, diventando rosso. "Qui, in mezzo alla strada?". Povero
Guerreschi: a diciott'anni era già un uomo e si vergognava di queste cose... Io
invece, grazie a Dio, no. Ci sono solo i maestri elementari che a trent'anni,
solo per un momento, magari, si possano sentire ancora bambini. "Vi
vergognereste? ", domandai. Ad arte gli avevo dato del voi, e non del tu,
e ciò un po' lo riempì di boria, un po' lo disorientò: mi guardò negli occhi e
ci vide un risolino, arrossì. Mi salutò, e io rimasi a guardarlo che si
allontanava con i compagni, e non ridacchiavano più, ma se ne andavano svelti
svelti, senza voltarsi.(…).
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