La “sfogliatura” che si
propone risale al lunedì 22 di agosto dell’anno 2011. Allora si aveva ancora un
bel dire di mercati, di finanza che, seppur incorporei, lasciavano sempre
intuire che dietro quelle sconosciute identità ci fossero sempre esseri umani –
pochi, pochissimi – autoproclamatisi incontrastati decisori del destino delle
moltitudini altre di esseri parimenti umani. A distanza da quelle cronache le
“cose” sembrano drasticamente cambiate. Non più mercati, non più “padroni delle
ferriere” come agli albori del capitalismo gli imprenditori venivano
denominati, e non più i “proletari” ovvero i prestatori di braccia. Nulla di
tutto ciò ad appena sei anni da quelle cronache. Non esiste più la storica
contrapposizione tra quelle figure, contrapposizione che ha scritto la Storia
del capitalismo e del genere umano tutto. Non più. Oggi la vita di milioni di
esseri umani prestatori d’opera è nelle mani di un imperscrutabile,
inafferrabile “algoritmo”. Il passo in avanti c’è stato, ma in quale
direzione? Ne ha scritto Alessandro Robecchi su “il Fatto Quotidiano” – “Le aziende non sono cattive: è l’algoritmo
che le disegna così” - del 6 di
dicembre 2017: (…). Il mondo del lavoro gira ormai su questo Moloch indecifrabile, dal
suono un po’ fantascientifico e futurista, l’algoritmo che tutto può e tutto
decide a vantaggio dell’azienda. Ora che le storie del lavoro degradato
italiano si diffondono, spuntano fuori ogni giorno, ci rivelano l’offensiva
inconsistenza di quel “fondata sul lavoro” che sta scritto nella prima riga
della Costituzione, monsieur l’Algoritmo fa la sua porca figura. Dietro quasi
ogni storia spunta l’algoritmo, cioè un sistema di pianificazione e controllo
accuratissimo. Fai l’assistente di volo e non vendi a bordo abbastanza gratta e
vinci, profumi, cosmetici? (Ryanair), ti cambiamo turno in senso punitivo. Un
consiglio dell’algoritmo. La signora con due figli (uno disabile) chiede
flessibilità e non riesce a rispettare certi turni? (Ikea). Spiacenti, i turni
li fa l’algoritmo. Tutto questo vale ogni giorno per migliaia di aziende, per
milioni di lavoratori. Quello che vi porta la pizza, quello che vi spedisce il
pacco, o che guida per consegnarvelo, quello che vi telefona per offrirvi un
servizio e migliaia di altri, lavorano sotto un controllo millimetrico, che
segnala i dati a un programma, che può calcolarne la produttività, costi
benefici. Scientifico, impersonale. Quando le cose si fanno particolarmente
scandalose (i casi citati, e ogni giorno se ne affaccia uno nuovo alle
cronache) compaiono solitamente, via comunicato stampa, gli addetti alle
relazioni esterne, che allargano le braccia e dicono: eh, è stato l’algoritmo.
A volte lo dicono come se il corpo dell’azienda ne fosse posseduto, tipo la ragazzina
de l’Esorcista che sputacchia e gira la testa di 360 gradi. Dal punto di vista
economico e sociale è il disastro che conosciamo: mini-lavori di faticoso
sostentamento, altissima ricattabilità del lavoratore, mansioni inesistenti
(quando hai finito alla cassa del supermarket devi lavare i cessi, e infinite
varianti), redditi sempre più bassi. Dal punto di vista culturale è forse
peggio: per il lavoratore c’è una progressiva perdita di dignità. E da parte
imprenditoriale c’è un’estrema spersonalizzazione, al punto quasi grottesco che
si cedono responsabilità e schifezze alle macchine. E’ stato il sistema. Non
sono cattivo, è l’algoritmo che mi disegna così. Il signore che prende i tempi
in officina alle spalle del sontuoso Gian Maria Volonté de La classe operaia va
in paradiso ora te lo spacciano per l’inflessibile, ma – ahimé – scientifico e
imparziale, algoritmo. Una cosa moderna e bella da dire, fa fico, che spesso
significa applicare oggi una parola novecentesca come “cottimo”. In tutto
questo – ed è la cosa più strabiliante – si alzano “ohhh” di stupore e
meraviglia perché il Censis (rapporto annuale) dice che aumenta il rancore
nella società. Ma va? Ma giura? Scemo io che pensavo che invece essere
licenziati, intermittenti, pagati due cipolle e un pomodoro, coi turni cambiati
all’improvviso, niente ferie e niente malattia, inducesse nella popolazione un
garrulo e soddisfatto buonumore. Ma sai proprio una gioia irrefrenabile? Invece
no, invece c’è rabbia e rancore, chi l’avrebbe mai detto! Aggiunge il Censis
questo rancore sarebbe una “rabbia repressa che non riesce più a sfogare
nemmeno lungo le linee del conflitto sociale tradizionale”. Esatto, perfetto.
Forse l’invenzione, la messa a punto, la taratura di un buon algoritmo
dell’incazzatura potrebbe servire: proletari di tutto il mondo, fatevi anche
voi un algoritmo. Così, quando la rabbia supererà certi limiti potrete
allargare le braccia e dire: “Oh, è stato l’algoritmo, mica è colpa mia!”. Annotavo
a quel tempo:
Scriveva il grande “Moro”
di Treviri nel Suo celeberrimo Manifesto (1848) ove si parlava di un “fantasma” aggirantesi per la vetusta e
sfiancata Europa: “(…). Nelle crisi
scoppia un’epidemia sociale… La società si trova improvvisamente retrocessa in
una condizione di momentanea barbarie… Con quali mezzi la borghesia supera le
crisi? Da un lato con la distruzione forzata di una quantità di forze
produttive, dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento
più radicale degli antichi mercati. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi
più violente e generali e riducendo i mezzi per prevenirle. (…)”. Lo
scriveva quel grande chiamando in causa quella “borghesia” alla quale, lui il “Moro”, affidava volentieri, in quel
contesto ed in quel tempo della Storia, le leve di manovra del progresso
sociale e politico dell’Europa affinché si superassero definitivamente le “strutture” e le “sovrastrutture” proprie del feudalesimo ancora resistente, e che
solo in un secondo tempo sarebbe stata soppiantata, quella “borghesia” illuminata, nella conduzione della società da un
proletariato emancipato e trionfante. Una profezia la Sua che si rinnova e che si
invera in questa terribile stagione di assalto dei mercati finanziarizzati,
dediti alla speculazione più selvaggia e lontani assai da ogni dovere sociale
che sia. Troveranno essi, i mercati, come sempre, un equilibrio nuovo: ma su quali
basi? Il rischio paventato dagli analisti più attenti e seri è che sia la
qualità propria della democrazia a venire messa in discussione, a venire ad
essere riveduta e corretta al minimo denominatore. L’esercizio proprio delle
democrazie consiste soprattutto nel garantire le opportunità di ciascuno e di
tutti, consiste nel sorvegliare l’operato dei mercati stessi ponendosi essa, la
democrazia, quale fattore di equilibrio e di redistribuzione della ricchezza;
ebbene, quell’esercizio viene messo in crisi, anzi è stato messo in crisi da un
bel po’ di anni, accrescendo disparità sociali, economiche e di opportunità. Questi
allarmi, queste perplessità, sono emerse nelle analisi di tanti opinionisti di
valore che mi sono premurato di accogliere e di proporre alla lettura nei miei
post precedenti del 16 e del 13 di agosto, nei quali trascrivevo
rispettivamente le analisi attente ed allarmate di Nadia Urbinati e di Furio
Colombo. Oggi propongo di seguito la lettura della analisi, che trascrivo in
parte, di Aldo Schiavone pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” – il 21 di
agosto 2011 - col titolo “Se il crollo
dei mercati trasforma la democrazia”. Leggere per riflettere su scenari nuovi
e difficili prossimi venturi: “(…). A
volte, l´inconcludenza e la debolezza possono essere rivelatrici più della
determinazione e della forza. Nella vita delle persone, come in quella delle
nazioni. (…). È messo a rischio il principio di sovranità degli Stati, (…),
aprendo un fronte d´analisi su cui molti commentatori si sono esercitati in
questi giorni. E di sicuro qualcosa di profondo sta mutando nell´equilibrio dei
poteri che reggono l´Occidente, mentre l´impressione di un ritrarsi sconfitto
della politica – di ogni politica – innanzi all´invasività di un gioco
finanziario autoreferenziale, ingordo e tendenzialmente antidemocratico appare
sempre di più come un destino comune, e non soltanto italiano. (…). …la
rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie.
Questo avrebbero dovuto spiegarci gli economisti, se l´economia fosse ancora
una scienza sociale e non solo una modellistica matematica. Il tessuto
democratico classico aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci
materiali – sia dal lato operaio che da quello dell´impresa, dei mezzi di
produzione – e aveva come punto di riferimento un capitale industriale poco
mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e
sociale. Questo mondo è in via di estinzione. Il nuovo lavoro ad alta intensità
tecnica e conoscitiva – quello su cui si fonda sempre di più la cittadinanza
contemporanea (se vogliamo conservare un rapporto fra cittadinanza e creazione
di ricchezza), quello cui affidiamo il nostro futuro – ha bisogno, per
svilupparsi, di condizioni che solo capitali molto più duttili, reattivi e
versatili sono in grado di assicurare: in altri termini, di una rete di mercati
finanziari. Si stabilisce così una relazione strettissima fra innovazione
tecnologica e trasformazione finanziaria dell´economia; e dunque, di
conseguenza, fra lavoro e capitale finanziario: un nesso che si dimostra sempre
di più la base stessa delle società contemporanee, dove la finanziarizzazione
diventa parte integrante del quadro democratico. Senza lavoro non c´è
democrazia (una Repubblica fondata sul lavoro, come dice la Costituzione). Ma
oggi non c´è lavoro senza innovazione tecnologica e intensità di conoscenze. E
queste a loro volta non si creano senza capitale e mercati finanziari. Il problema
non sta dunque nella separazione – nel presunto abisso – fra politica ed
economia, che se ne andrebbero ciascuna per le sue, l´una sempre più armata,
l´altra più impotente, ma al contrario si trova nelle modalità del loro
intreccio. La verità è che siamo entrati in una nuova epoca, segnata non dalle
dicotomie ma dalle integrazioni: l´età della democrazia complessa. (…). …elemento,
strettamente connesso al precedente, riguarda l´immodificabilità delle
strutture economiche da parte della politica. La vulgata ideologica che ci ha
sommerso per oltre un ventennio (altro che fine delle ideologie!) pretendeva
che l´anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi
decenni fosse l´unica risposta possibile, e che l´assoluta anomia dei mercati
coincidesse con il miglior mercato pensabile. Come se la globalizzazione
dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una
totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo
che contasse per dare una forma alle nostre vite. C´è voluta una crisi mondiale
per capire che non era così; che tanto selvaggio anarchismo era solo l´esito
storico, del tutto provvisorio, della fase d´avvio della rivoluzione
tecnologica – esattamente come era accaduto, due secoli fa, con la rivoluzione
industriale – e che molte strade, anche assai diverse fra loro, ci si aprono
davanti. Esattamente come è già successo di fronte alla rivoluzione
industriale, sta alla politica disegnare lo scenario che ci aspetta: aprire una
grande stagione di riequilibrio e di assestamento globale, di crescita
sostenibile e di riduzione delle diseguaglianze – come è realistico e del tutto
alla nostra portata – o rimettersi ostinatamente, come se nulla fosse, sulla
via della rottura e della lacerazione. Il modo di produzione capitalistico ha
questo che lo rende unico nella storia, e, per ora, insostituibile: di avere
confini (empiricamente e concettualmente) inesplorati, dove è possibile
coniugare in molti modi, anche inediti, profitto ed equità. Certo, si è creata
una dissimmetria fra la pesante localizzazione nazionale del comando politico,
e la leggerezza globalizzata della nuova economia. C´è chi ha cercato di
incunearsi in questo vuoto. Colmarlo non è impossibile: una nuova sfida per una
politica all´altezza dei tempi, e non un ostacolo da trasformare in un alibi. (…).
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