Ingegnere, anche lei, come Scalfari, tra
Berlusconi e Di Maio voterebbe Berlusconi? «Ovviamente mi asterrei».
Non vale. Bisogna scegliere. «È una
questione improponibile. Si può restare a casa, o votare scheda bianca.
Berlusconi fa venire in mente quando, rovistando tra le cose vecchie, si trova
un abito in disuso; e infilando una mano nella tasca spunta un vecchio
biglietto del tram già obliterato».
Allora perché Scalfari lo voterebbe?
«Scalfari è stato talmente un grande nell’inventare Repubblica e uno stile di
giornale che farebbe meglio a preservare il suo passato».
Sta dicendo che ha avuto un lapsus? «Penso
l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello
stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso. Berlusconi è un
condannato in via definitiva per evasione fiscale e corruzione della giustizia.
Se non fosse per l’età, sarebbe un endorsement sorprendente per uno come
Scalfari che ha predicato, sia pure in modo politicamente assai cangiante, la
morale».
C’è stata una frattura personale tra lei e
il fondatore? «Penso che la risposta di Scalfari abbia gravemente nuociuto al
giornale».
(…). Berlusconi prenderà un sacco di voti.
Come se lo spiega? «È un grande campaigner: non si vergogna a ripetere le cose
che diceva 23 anni or sono, e lo fa con la stessa impudenza. Non è colpa sua se
c’è gente che ancora ci crede. Ma esiste una biologia della durata di un
politico; e questo rende la ricomparsa di Berlusconi grottesca. (…).».
(…). Lei voterà Pd? «Non è detto. Potrei
votare scheda bianca».
Come mai? «La sinistra avrebbe davanti una
grande occasione. Alla fine della crisi dei dieci anni, il capitale ha vinto
(basti pensare alle Borse) e il lavoro ha perso. La sinistra dovrebbe
riscattare questa sconfitta. Ma per farlo ha la necessità di affrontare in modo
nuovo le due grandi questioni del nostro tempo: le disuguaglianze e
l’immigrazione. Nel mondo ci sono due miliardi di millennial: la politica deve
dare loro una speranza. Ma non vedo una riflessione seria su questo, tanto meno
in Italia. Vedo la ricerca di una scorciatoia, sia da parte del populismo
becero di Salvini, sia da parte del populismo intelligente di Renzi». (…). Da
“De Benedetti: «Renzi delude, bene
Gentiloni. Potrei votare scheda bianca»” di Aldo Cazzullo, intervista a
Carlo De Benedetti pubblicata sul quotidiano “Corriere della Sera” del 2 di
dicembre 2017.
Da “Mackie
Messer ha il coltello ma vedere non lo fa vedere” di Eugenio Scalfari,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 13 di gennaio dell’anno 1990: Domani
saranno quattordici anni da quando, il 14 gennaio del 1976, Repubblica comparve
per la prima volta nelle edicole. (…). Le condizioni del paese in mezzo alle
quali è nata quest' impresa, i fatti che si sono via via succeduti in questo
arco di tempo, la richiesta che ci veniva dalla gente e alla quale come
potevamo abbiamo cercato di corrispondere, hanno fatto sì che questo giornale
divenisse, in un breve volgere di anni, il più diffuso e il più rappresentativo
dell'opinione pubblica nazionale, senza distinzioni di territorio né di classi
sociali né di sesso né di età. Questo piccolo grande miracolo ha molte cause.
La prima e più importante di tutte è stata l'indipendenza di cui il giornale ha
finora goduto. (…). È stato un privilegio inestimabile, questo
dell'indipendenza, dovuto al fatto che il direttore di questo giornale era,
allo stesso tempo, imprenditore di se stesso e comproprietario della testata.
Questa è stata l'anomalia felice di Repubblica, senza la quale probabilmente
non sarebbe nata e sicuramente non avrebbe ottenuto il successo che ha
raggiunto. Qualcuno (??? n.d.r.), cui la speciale indipendenza di Repubblica
non piace perché mette in discussione interessi consolidati, rivela prepotenze
e svela corruzioni, ha ritenuto che l'anomalia sopra ricordata non fosse felice
ma nefasta. Ed ha coniato una definizione mitologica per il suo direttore, che
sarebbe un ircocervo: animale per metà uomo e per metà ariete, o caprone che
dir si voglia. Un soggetto, cioè, che non può e non deve esistere in natura,
una figura dimezzata o trimezzata, nella quale confluiscono appunto i requisiti
del giornalista, dell'imprenditore, dell' uomo politico. Mi rendo ben conto che
la cosa possa non piacere. Ma che sia la prima volta che accade è un falso
storico perfino in Italia (in altri paesi più avanti di noi si tratta infatti
d' una situazione del tutto normale).
Il direttore trimezzato di Repubblica si
trova infatti in ottima compagnia perché altrettanto trimezzati o ircocervi per
restare nel mitologico, furono Alfredo Frassati alla Stampa, Alberto Bergamini
al Giornale d' Italia e, soprattutto, Luigi Albertini al Corriere della Sera: giornalisti,
imprenditori dell'opera loro e uomini politici. Nessuno dei tre fu mai molto
amato né dalla corporazione dei giornalisti né da quella degli imprenditori e
meno che mai da quella dei politici; ma crearono una scuola, dettero voce alla
gente, controllarono per conto della gente il Potere e le istituzioni; e insomma
contribuirono, per quanto stava in loro, alla crescita del paese e al
rafforzamento della democrazia. Furono tolti di mezzo quando la democrazia
cedette al regime: tolti di mezzo brutalmente, insieme alla libertà di stampa e
a tante altre libertà. Per fortuna non c'è un regime in Italia, anche se
parecchi si adoperano variamente per costruirne uno che sia, naturalmente, al
passo coi tempi. Ma c'è una serrata guerra di bande, che intreccia gli affari
con la politica, gli appetiti degli uni con l'avidità degli altri, e l'arroganza
brutale di entrambi di operare senza regole o sopra le regole, usando come
metodo la sopraffazione condita con l'intimidazione e con le lusinghe. Sicché
non c'è da stupirsi se, in questo contesto, la Repubblica sia diventata una
posizione da espugnare e il suo trimezzato direttore un personaggio da toglier
di mezzo, in modi diversi ma con risultati analoghi a quelli che furono
sperimentati con Bergamini, Frassati e Albertini. La storia non produce
duplicati, ma analogie sì. E questa è certamente un'analogia degna di
attenzione. Una caratteristica della vita italiana di questi anni è la presenza
a vari livelli di personaggi potenti e incensurati che si trovano al centro di
vaste reti di potere, le hanno tenacemente costruite con sapienti alleanze, le
alimentano con reciproci favori. Queste reti di potere travalicano talvolta nel
malaffare, ma chi sta al centro di esse riesce di solito a non lasciar tracce
del suo passaggio e della sua presenza. Passa attraverso il fuoco come la salamandra,
senza bruciarsi e senza conservarne segno alcuno. Ci sono indizi,
vociferazioni, congetture; ma prove certe mai. Quando ci sono, vengon fatte
sparire in tempo. La gente sospetta, poi si scorda e pensa ad altro. È umano,
non è vero? Spesso i personaggi in questione sono addirittura simpatici alla
gente. Spesso sono molto popolari. Talvolta sono filantropi, d'una filantropia
mirata e ben calcolata. Finanziano ospizi. O premi letterari. O squadre di
calcio. Un tempo i signori lanciavano zecchini d'oro alla plebaglia che se li
disputava sotto i loro occhi divertiti. Oggi i costumi sono diversi, il
risultato è il medesimo. Ripassando nella memoria alcuni episodi del passato
prossimo e del passato remoto e anche alcuni fatti degli ultimi giorni, m'era
venuta in mente la celebre ballata con cui si apre l'Opera da tre soldi, quella
cantata da Jenny delle Spelonche alla fiera del quartiere di Soho. Ho voluto
riascoltarla. Descrive Mackie Messer, il gangster, il furbissimo e simpatico a
modo suo personaggio centrale dell' Opera. Ricordate i versi di Brecht e la
musica di Kurt Weill? Tanti denti ha il pescecane e a ciascun li fa veder,
Mackie Messer ha il coltello ma chi mai lo può saper? Sbrana un uomo il
pescecane ed il sangue si vedrà. Mackie ha un guanto sulla mano nessun segno
resterà. La veridica storia di Mackie Messer ricorda molte storie e molti
personaggi dei giorni nostri. Sul Tamigi verde e fondo molti a un tratto cascan
giù. Non è peste né colera, Mackie Messer va su e giù. E Schmul Maier un dì sparisce
e tanti altri ricchi al par. Mackie ha in tasca i lor danari nessun può
testimoniar.... Naturalmente i personaggi dei tempi nostri non sono così
truculenti come il gangster di Bertold Brecht. Sono molto più felpati, più
soffici, più ironici. I loro supporters non sono i pezzenti di Soho ma la
crema, il fior fiore dell'establishment. La grande finanza è a loro
disposizione. Il Parlamento anche, quando serve. Il governo quasi sempre.
Stuoli di avvocati ne guidano le mosse. I servizi segreti alla bisogna gli
danno una mano. Le Logge, più o meno massoniche, li accolgono fraternamente.
Jenny Tawler l'han trovata un coltel ficcato in cuor. Mackie Messer va a
passeggio e per caso è giunto lì. Via, non siamo certo a questo. Questa è
soltanto la raffigurazione artistica di quell'esaltato di Bertold Brecht, che
del resto, ormai, è decisamente fuori moda. Ma la canzone è bella e, per lo
meno nella mia edizione, assai ben cantata. Ci sono tanti Mackie Messer nella
storia italiana di questi anni. Alcuni di loro giocano grosso. Nessuno di loro
possiamo starne certi finirà impiccato come il protagonista dell'Opera. È più
ragionevole pensare che sarà piuttosto gente come noi a farne le spese. Questo
non è più direbbe il principe di Salina il tempo dei gattopardi, ma delle iene
e degli sciacalli. Non è più nemmeno, temo io, il tempo degli ircocervi. I
quali tuttavia, come tutti gli animali mitologici, hanno una stranissima
proprietà: ogni volta che gli tagliano la testa, quella testa rinasce di nuovo.
Chissà come andrà questa volta.
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