Nella ricorrenza del referendum del 4 di dicembre
dell’anno 2016 si propone la ri-lettura del testo “Non umiliate il Parlamento” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” dell’8 di settembre dell’anno 2015: Il funzionamento della democrazia
è cosa difficile, stretto tra l’inconcludenza e la forza. Chi crede che si
tratti di una battaglia che si combatte una volta ogni cinque anni in occasione
delle elezioni politiche e che, nell’intervallo, tutto ti è concesso perché sei
il “Vincitore”, si sbaglia di grosso ed è destinato a essere travolto, prima o
poi, dal suo orgoglio, o dalla sua ingenuità, mal posti. La prima vittima
dell’illusione trionfalistica è il Parlamento. Se pensiamo che si tratti
soltanto di garantire l’azione di chi “ha vinto le elezioni”, il Parlamento
deve essere il supporto ubbidiente di costui o di costoro: deve essere un
organo esecutore della volontà del governo. Altrimenti, è non solo inutile, ma
anche controproducente. Le riforme in campo, infatti, sono tutte orientate
all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione
rappresentativa. Che cosa significano le leggi elettorali, che prevedono la
scelta dei candidati attraverso le “liste bloccate” stilate direttamente dai
capi dei partiti o attraverso la farsa delle cosiddette “primarie”, se non
l’umiliazione di quella funzione nazionale: trionfo dello spirito gregario o
del mercato dei voti. Il prodotto degradato, se non avariato, è davanti agli
occhi di tutti. Così, mentre dalle istituzioni ci si aspetterebbe ch’esse
tirassero fuori da chi le occupa il meglio di loro stessi, o almeno non il
peggio, di fatto avviene il contrario. Queste istituzioni inducono alla
piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei
confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o
all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di
riferimento. Per essere eletti, queste sono le doti funzionali al partito nel
quale ti arruoli. Non devi pensare di poter “fare politica”. Non è più il
tempo: il tempo è esecutivo! Una prova evidente, e umiliante, dell’inanità
parlamentare è la vicenda che ha agitato la vita politica negli ultimi due
anni: la degradazione del Senato in Camera secondaria che dovrebbe avvenire col
consenso dei Senatori. Si dice loro: siete un costo, cui non corrisponde nessun
beneficio; siete un appesantimento dei processi decisionali, cui corrisponde
non il miglioramento, ma il peggioramento della qualità della legislazione. Sì,
risponde il Senato: è così. Finora siamo stati dei parassiti inutili e dannosi
e siamo grati a chi ce ne ha resi consapevoli! Sopprimeteci! Vediamo più da
vicino questo caso da manuale di morte pietosa o suicidio assistito nella vita
costituzionale. A un osservatore non superficiale che non si fermi alla
retorica esecutiva e “governabilitativa”, cioè ai costi (“Senato gratis”, è
stato detto) e alla velocità (una deliberazione per ogni legge, invece di due),
l’esistenza di una “seconda Camera” risulta bene fondata su “ragioni
conservative”. Non conservative rispetto al passato, come fu al tempo delle
Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle
tendenze anarcoidi e dissipatrici della Camera elettiva, propensa a causa della
sua stessa natura a sperperare denaro e tradizioni per accattivarsi gli
elettori. Allora ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato.
Oggi, di fronte alla catastrofe della società dello spreco, si tratterebbe
dell’opposto, cioè di ragioni conservative di risorse e opportunità per il
futuro, a garanzia delle generazioni a venire. Il Senato come concepito nella
riforma moltiplica la dissipazione. Se ne vuole fare un’incongrua proiezione
amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di
risorse pubbliche. A questa prospettiva “amministrativistica” se ne sarebbe
potuta opporre una “costituzionalistica”. Nei Senati storici, le ragioni
conservative corrispondevano alla nomina regia e alla durata vitalizia della
carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente
sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella
ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non
rieleggibilità, come garanzia d’indipendenza da interessi particolari
contingenti. A ciò si sarebbero potuti accompagnare requisiti d’esperienza,
competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenuti in regole di
incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei
compiti assegnati agli eletti. Fantasie. I riformatori costituzionali pensano
ad altro: a eliminare un contrappeso politico, ad accelerare i tempi. Non
riuscendo a eliminare, puramente e semplicemente, un organo, che così come è si
ritiene inutile, anzi dannoso, si sono persi in un marchingegno la cui assurda
complicazione strutturale – le modalità di estrazione dei nuovi “senatori”
dalle assemblee locali – e procedimentale – i rapporti con l’altra Camera –
verrà alla luce quando se ne dovesse sperimentare il funzionamento.
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