Da “L’etica
perduta della politica” di Stefano Rodotà, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 17 di dicembre dell’anno 2016: Tra una politica che fatica a presentarsi in
forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi,
bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura
costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità. Mai
nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la
Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico
e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano
sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le
occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato
utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto. Dobbiamo
ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole
“disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui
sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto
che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si
affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un
ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”.
Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo
memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano,
anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e
amministrazione denunciato da Silvio Spaventa. Così la questione “morale” si
presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in
evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere,
ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di
fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica
pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una
sua legittimazione sociale. In questi anni il degrado politico e civile è
aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione
ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi
soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa
attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta
del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di
sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si
allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti
comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non
ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la
magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo
non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere
equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti
istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati. È stata dunque la
politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in
questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità
propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come
restituire alla politica l’etica perduta?
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