Da “Frammenti”
di Umberto Eco, riportato in “Diario minimo” – pagg. 17/25, edizione Oscar
Mondadori (1988) -: IV Congresso Intergalattico di Studi Archeologici — Sirio, 4° Sezione
del 121° Anno Matematico. Relazione del Ch. Prof. Anouk Ooma del Centro
Universitario Archeologico della Terra del Principe Giuseppe — Artide-Terra.
Chiarissimi colleghi, non vi è ignoto che da
gran tempo gli studiosi artici conducono appassionate ricerche per trarre alla
luce le vestigia di quella antichissima civiltà che fiorì nelle zone temperate
e tropicali del nostro pianeta prima che la catastrofe avvenuta nel cosiddetto
anno 1980 dell'era antica, anno Uno dell'Esplosione, vi cancellasse ogni
traccia di vita, in quelle zone che per millenni rimasero a tal punto
contaminate dalla radioattività che solo da pochi decenni le nostre spedizioni
possono avventurarvisi senza soverchio pericolo per cercare di rivelare alla
Galassia intera il grado di civiltà raggiunto dai nostri antenati. Rimarrà
sempre un mistero come degli esseri umani potessero abitare plaghe così
insopportabilmente torride e come quelle genti si siano potute adattare al
pazzesco sistema di vita imposto dal vertiginoso alternarsi di brevissimi periodi
di luce a brevissimi periodi di oscurità; eppure sappiamo che gli antichi
terrestri, in questo abbacinante carosello d'ombre e di luci, seppero trovare
ritmi di vita ed edificare una civiltà ricca e articolata. Quando, circa 70
anni fa (era l'anno 1745 dell'Esplosione), dalla base avanzata di Reykjavik –
il leggendario Avamposto Sud della civiltà terrestre – la spedizione del Prof.
Amaa A. Kroak si spinse sino alla landa detta di France, il mai dimenticato
studioso stabilì inequivocabilmente come l'azione combinata della radioattività
e del tempo avesse distrutto ogni traccia fossile. Già si disperava dunque di
conoscere qualcosa circa i nostri lontani progenitori quando nel 1710 d. E. la
spedizione del Prof. Ulak Amjacoa, avvalendosi dei ricchissimi mezzi messi a
disposizione dalla Alpha Centauri Foundation, facendo dei sondaggi nelle acque
radioattive del lago di Lochness, reperiva quella che viene oggi comunemente
indicata come la prima "criptobiblioteca" degli antichi terrestri.
Murata in un enorme blocco di cemento stava una cassa di zinco recante incisa
la scritta: "Bertrandus Russel submersit anno hominis McMLI". La
cassa, come voi ben sapete, conteneva i volumi dell'Enciclopedia Britannica, e
ci fornì finalmente quella enorme mole di notizie sulla cultura scomparsa, su
cui basiamo oggi gran parte delle nostre conoscenze storiche. Ben presto altre
criptobiblioteche venivano ritrovate in altri paesi (celebre quella trovata in
Terra di Deutschland, in una cassa murata che recava l'iscrizione "Tenebra
appropinquante"), in modo che ci si rese ben presto conto di come gli
uomini di cultura fossero stati gli unici, tra gli antichi terrestri, ad
intuire l'approssimarsi della tragedia, e gli unici a porvi rimedio nell'unico
modo che fosse loro consentito, salvando cioè per i posteri (e quale atto di
fede fu quello di prevedere, malgrado tutto, una posterità!) i tesori della
loro cultura. Grazie a queste pagine, che non possiamo sfogliare senza un
fremito di commozione, noi oggi, illustri colleghi, siamo in grado di sapere
cosa quel mondo pensasse, cosa facesse, come sia giunto al dramma finale. Oh,
ben so che la parola scritta è sempre insufficiente testimone del mondo che la
espresse, ma come rimaniamo sconcertati quando ci manca anche questo
preziosissimo aiuto! Tipico è il caso del "problema italiano", di
questo enigma che ha appassionato archeologi e storici, nessuno dei quali ha saputo
sinora rispondere alla ben nota domanda: come avvenne che in questo paese, che
pure sappiamo di antica civiltà – come ci è testimoniato dai libri ritrovati in
altre terre – come avvenne, dicevo, che non fu possibile reperire alcuna
criptobiblioteca? Voi sapete che le ipotesi in proposito sono tanto numerose
quanto insoddisfacenti, e ve le ricordo a puro titolo di preterizione: 1.
Ipotesi Aakon-Sturg (così dottamente illustrata nel libro La Esplosione nel
bacino mediterraneo, Baffing, 1750 d. E.): per un concorso di fenomeni
termonucleari la criptobiblioteca italiana è stata distrutta; ipotesi sostenuta
da solidi argomenti, perché sappiamo che la penisola italica fu la più battuta
dalle esplosioni in quanto dalle coste adriatiche partirono i primi missili a
testata atomica dando appunto inizio al conflitto totale. 2. Ipotesi Ugum-Noa
Noa, esposta nel notissimo Esistette l'Italia? (Barents City, 1712 d. E.) dove,
sulla base di attente consultazioni dei verbali delle conferenze politiche ad
alto livello intercorse prima del conflitto totale, si perviene alla
conclusione che l'Italia non sia affatto esistita; ipotesi che risolve il pro6 blema
della criptobiblioteca, ma urta contro una serie di testimonianze che le opere
in lingua inglese e tedesca ci danno sulla cultura di quel popolo (mentre
quelle in lingua francese, come è noto, paiono ignorare l'argomento,
suffragando parzialmente la tesi Ugum-Noa Noa). 3. Ipotesi del Prof. Ixptt
Adonis (cfr. Italia, Altair, 22' sezione del 120° Anno Matematico), la più brillante
senz'altro, ma la più debole, secondo la quale al tempo dell'esplosione la
Biblioteca Nazionale Italiana era, per circostanze imprecisate, in uno stato di
estrema decadenza, e gli scienziati italiani, ancorché intesi a fondare
biblioteche pel futuro, erano seriamente preoccupati per quelle del presente e
dovevano ingegnarsi ad impedir lo sfacelo dello stesso edificio contenente i
volumi. Ora l'ipotesi rivela l'ingenuità di un osservatore non terrestre,
disposto ad avvolgere di un alone di leggenda quanto concerne il nostro pianeta
ed uso pensare i terrestri come un popolo che vive beatamente mangiando
pasticcio di foca e suonando arpe di corna di renna: lo stato di avanzata
civiltà cui erano pervenuti gli antichi terrestri prima dell'Esplosione, fa sì
invece che sia impensabile una tale incuria, quando il panorama offertoci dagli
altri paesi cisequatoriali rivela l'esistenza di avanzate tecniche di
conservazione dei libri. Col che si è al punto di partenza, e il più fitto
mistero ha sempre avvolto la .cultura italiana precedente l'esplosione, anche
se per quella dei secoli anteriori esistono sufficienti documentazioni nelle cripto
biblioteche di altri paesi.
Si sono trovati – è vero – nel corso di scavi
accuratissimi, esili e incerti documenti. Ricorderò la striscia di carta
portata alla luce dal Kosamba, che contiene quello che egli ragionevolmente ritiene
il primo verso di un lunghissimo poema: "M'illumino d'immenso..."; la
copertina di quello che doveva essere un trattato di psicotecnica o di sociologia
del lavoro ("Lavorare stanca", di un certo Paves, o Pavesa, come
sostiene lo Sturg, questione peraltro controversa dato che la parte superiore
del cimelio è molto consunta). E ricorderemo come la scienza italiana
dell'epoca fosse indubbiamente progredita negli studi di genetica, anche se
quelle conoscenze erano probabilmente usate ai fini di una eugenetica razzista,
come è suggerito dal coperchio di una scatola che doveva contenere un farmaco
per il miglioramento della razza, e che reca la scritta "Omo (alterazione
del latino Homo e contrazione argotica dell'italico Uomo) più bianco del
bianco". Ma è chiaro che nonostante tutti questi documenti nessuno avrebbe
mai potuto esattamente puntualizzare la situazione spirituale di quel popolo,
situazione che, mi sia consentito di dirlo, chiarissimi colleghi, è palesata
appieno solo dalla parola poetica, dalla poesia quale coscienza fantastica di
un mondo e di una situazione storica. E se vi ho tediato con questi lunghi
preliminari è per comunicarvi, ora, col cuore commosso, come io ed il mio
valoroso collega Baaka B.B. Baaka A.S.P.Z., del Reale Istituto di Letteratura
di Isola degli Orsi, abbiamo ritrovato in una zona impervia della penisola
italiana, a tremila metri di profondità, racchiuso fortunosamente in una colata
di lava provvidamente inabissatasi in seno alla terra nel rivolgimento
spaventevole dell'Esplosione, consunto e slabbrato, mutilo in innumerevoli
punti, quasi illeggibile ma ancora ricco di folgoranti rivelazioni, un libretto
di di-messa apparenza e proporzioni, che reca sul frontespizio il titolo Ritmi
e Canzoni d'oggi (e che noi, dal luogo del ritrovamento, abbiamo chiamato
Quaternulus Pompeianus). Ben sappiamo, illustri colleghi, che canzone o canzona
fu voce arcaica impiegata ad indicare componimenti poetici trecenteschi, come
ci ricorda l'Enciclopedia Britannica; e sappiamo pure che ritmo, nozione comune
alla musica e al-le scienze matematiche, ebbe anche presso vari popoli_ un impiego
filosofico e valse ad indicare una peculiare qualità delle strutture artistiche
(cfr., della Criptobiblioteca Nazionale di Parigi, M. Ghyka, Essai sur le
rythme, N.R.F. 1938): ciò induce a riconoscere dunque nel nostro quaternulus
una squisita antologia dei componimenti poetici più validi di quella età, una
antologia di liriche e canti che ci aprono gli occhi della mente su di un
incomparabile panorama di bellezza e spiritualità. La poesia italiana del xx
secolo dell'era antica, fu poesia della crisi, virilmente conscia del destino
incombente; e fu insieme poesia della fede, della purezza e della grazia.
Poesia della fede: abbiamo qui un verso, ahimè l'unico leggibile, di quello che
doveva essere un canto di lode dello Spirito Santo: "Vola, colomba bianca
vola..."; mentre subito dopo ci colpiscono questi versi di un canto di
giovinette: "Giovinezza, Giovinezza – primavera di bellezza...", le
cui dolcissime parole ci evocano l'immagine di fanciulle avvolte in bianchi
veli, danzanti nel plenilunio di qualche magico pervigilium. Altrove, troviamo
invece senso di disperazione, di lucida coscienza della crisi, come in questa
spietata rappresentazione della solitudine e della incomunicabilità che forse,
se dobbiamo credere a quanto l'Enciclopedia Britannica dice di questo autore,
dobbiamo ascrivere al drammaturgo Luigi Pirandello: "Ma Pippo Pippo non lo
sa - che quando passa ride tutta la città..." (e non trova forse questa
immagine un suo non indegno corrispettivo in una poesia inglese della stessa
epoca, il canto di James Prufrock del poeta inglese Thomas Stearns? ). Furono
forse questi fremiti di angoscia che spinsero la poesia italiana a rifugiarsi
nel divertimento georgico e didascalico: ascoltate la pura bellezza di questi
versi: "Lo sai che i papaveri - son alti alti alti..." (dove avete
l'esitare timido dell'interrogativo, e poi la presenza maestosa e sublime di
questi fiori tropicali, carnosi e svettanti, e questo senso dell'umana
fragilità di fronte al mistero della natura) e ammirate l'ardita personificazione
di questa terzina ("È primavera — svegliatevi bambine - dalle cascine
messer Aprile fa il rubacuor...") in cui è chiara la derivazione dai riti
di vegetazione - lo spirito della primavera e il sacrificio umano, forse un
cuore di fanciulla, offerto alla divinità fecondatrice - riti a suo tempo
analizzati in Terra di England nel volume di incerta attribuzione, The Golden
Bough, che altri vorrebbero, The Golden Bowl (v. lo studio, non ancora
tradotto, di Axbzz Eowrrsc, "Golden Bough" orx "Golden Bowl"
- xpt agrschh clwoomai, Arturo, Sez., 1200 Anno Matematico). Agli stessi riti
di vegetazione, e più propriamente al rito frigio della morte di Attis, fummo
tentati dapprima di riportare un altro bel carme che iniziava così: "È
morto un bischero..." - carme trovato manoscuttoin margine al libretto. Ma
a parte l'incomprensibilità del sostantivo, ci colpirono i versi seguenti:
"All'ospedale - senza le bale - senza cojon", la cui apparente
oscurità ci fu chiarito dallo strano impiego della consonante "J",
solitamente assente dal lessico italiano. Per una felice intuizione
riconoscemmo in essa la "jota" spagnola e comprendemmo di avere tra
le mani la traduzione ancora incompleta di una poesia iberica. Sappiamo come
nessun testo spagnolo si sia mai salvato, poiché, come riferisce l'Enciclopedia
Britannica, un ventennio prima dell'Esplosione le autorità religiose di quel
paese avevano ordinato il rogo per tutte le opere prive di un particolare nulla
osta. Ma attraverso le brevi citazioni reperite in libri stranieri si era da
tempo delineata con sufficiente chiarezza la figura del mitico bardo catalano
del xix o del xx secolo, Federico Garcia, o, come vogliono alcuni, Federico
Lorca, barbaramente ucciso, narra una leggenda, da venticinque donne che egli
brutalmente sedusse. Le pagine critiche di uno scrittore tedesco del 1966 (C.
K. Dyroff, Lorca: Ein Beitrag zum Duendegeschichte als Flamencowissenschaft) ,
ci parlano della poesia di Lorca come di un
"essere-per-la-morte-radicato-come-amore, in cui lo spirito del tempo si nomina
disvelando sé a sé per cadenze funebri danzate sotto un cielo andaluso".
Queste parole si adattano singolarmente al testo citato e ci permettono anche
di attribuire allo stesso autore altri splendidi versi, caldi di violenza
iberica, stampati nel quaternulus: "Caramba yo songo espagnolo - yo tiengo
lo sangue calliente - Son quell'espada che nella contrada vien chiamato Beppe
Balzac...". Mi sia consentito di dire, illustri colleghi, che oggi, quando
gli spaziovisori riversano si! di noi quotidianamente una tormenta di torbida
musica orridamente scimmiesca, oggi, quando irresponsabili schiamazzatori di
insulsaggini apprendono ai nostri figli canzoni dai versi assurdi - e notava
acutamente il Zoal Zoal nel suo saggio Eclissi dell'uomo artico come un ignoto
bandista sia giunto a mettere in musica uno sconcio canto caratteristico dei
marinai ubbriachi ("No, non voglio vederlo - il sangue di Ignazio sulla
sabbia"), ultima tappa del nonsenso industriale - mi sia dunque consentito
di dire che queste parole immortali che ci giungono dalla notte dei tempi
testimoniano della grandezza morale e intellettuale dell'uomo terrestre di
duemila anni fa. Abbiamo sotto gli occhi una poesia che, anziché fondarsi sulla
fumosa ricerca labirintica di un intelletto gonfio di cultura, si risolve in
ritmi spontanei ed elementari, in purissima grazia fanciullesca; ed è il momento
in cui si è portati a pensare che un Dio - non il travaglio creatore - presieda
a tanto miracolo. La grande poesia si riconosce ovunque, signori: i suoi
stilemi sono inconfondibili; si danno cadenze che rivelano la loro fratellanza
anche se suonano dai poli opposti del cosmo. Ed è con gioia commossa che ho potuto
infine procedere ad una dotta collazione, chiarissimi colleghi, inserendo
alfine tre versi sparsi, rinvenuti su di un brandello di carta due anni fa tra
le rovine di una città del nord Italia, nel contesto di un più disteso carme i
cui elementi completi ritengo di aver trovato su due distinte pagine del
quaternulus. Composizione squisita, ricca di letteratissime assonanze, gioiello
dal sapore alessandrino, perfetto in ogni sua voluta:
Grazie dei fiori.
Tra tutti gli altri li ho riconosciuti:
m'han fatto male eppure li ho graditi,
son rose rosse e parlano d'amore.
Fresche le mie parole nella sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso nella man di chi le coglie...
Villa triste,
tra le mammole nascoste e il cespuglio di
ametiste
quante cose son rimaste...
Ma il limite concessomi per questa
comunicazione, illustri colleghi, è scaduto. Altre cose vorrei leggervi, ma è
certo che avrò modo di pubblicare e tradurre, una volta chiariti alcuni
delicati problemi filologici, il frutto della mia preziosa scoperta. Vorrei
oggi lasciarvi con l'immagine di questa civiltà ormai perduta che con occhio
asciutto cantò la dissoluzione dei valori, con ilare castità disse parole di
diamante fissando un mondo di grazia e di bellezza. E quando vi fu
presentimento della fine, esso non fu disgiunto da profetica sensibilità; e
dall'abisso insondabile e misterioso del passato, dalle pagine rose e consunte
del quaternulus pompeianus, in un verso isolato su un foglio reso oscuro dalla
rabbia delle radiazioni, noi ritroviamo come un presagio di ciò che sarebbe
accaduto. Alla vigilia dell'Esplosione il poeta "vide" il destino della
popolazione terrestre che avrebbe edificato una nuova e più matura civiltà
sulla calotta polare e avrebbe trovato nel ceppo eschimese la razza superiore
di un pianeta rinnovato e felice: vide che le vie del futuro avrebbero risolto
in bene e progresso gli orrori dell'Esplosione; e non poté più provare paura o
rimorso, sì che il suo canto si effuse in questo verso disteso come un salmo:
"Cosa mi importa se il mondo mi rese glacial...".Un solo verso; ma a
noi, figli dell'Artide prospera e progressiva, giunge come un messaggio di
fiducia e solidarietà, dall'abisso di dolore, bellezza, morte e rinascita nel
quale intravvedemmo il volto vago ed amato dei nostri padri. (1959)
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