“Cahier de doleance” di fine anno tratto da “Perché la malinconia avvolge l’Europa”
di Bernardo Valli, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 31 di dicembre
dell’anno 2016: Nel prossimo novembre Jean Starobinski avrà novantasette anni. Nella
sua ricca vita, oltre che critico (ermeneuta) letterario è stato psichiatra e
storico della medicina. Ha coniugato esperienze e saperi come un intellettuale
del Rinascimento.(…). La passione e la simpatia per Baudelaire hanno condotto
Starobinski ad associare il poeta alla malinconia. Non ne ha fatto un caso
clinico ideale. Non ha definito il poeta dello spleen un malinconico, l’ha
descritto come un ammirevole mimo, con quella che chiama la sua “isteria”,
degli atteggiamenti e dei meccanismi profondi della malinconia. Baudelaire ne
esprime la sofferenza e la riflessività in una forma inedita, si potrebbe dire
gloriosa. In lui si riassumono la concezione antica dell’atrabile, la bile
nera, nera come l’inchiostro e l’inferno, e la declinazione contemporanea dei
sintomi della malinconia. Anche di questo si parla nell’antologia (“La Beauté
du monde”) dedicata a Starobinski, in cui sono raccolti scritti dal 1946 al
2010, curata da Martin Rueff, (…) pubblicata da Gallimard. Nel saggio
“Malinconia di sinistra”, pubblicato da Feltrinelli, lo storico Enzo Traverso
usa la stessa espressione ma riferendosi a un elemento che sembra di altra
natura. Dalla malinconia individuale, intima, si passa alla malinconia
collettiva. In Traverso siamo lontani dallo sguardo malinconico, immobile,
nella Parigi che si trasforma, di cui parla Baudelaire nelle “Fleurs du mal”.
Nella sinistra la malinconia è una tradizione (nascosta), in cui è annidato il
dubbio dell’intelligenza, ed anche l’invincibile, dinamica convinzione che le
macerie delle battaglie perdute siano il cuore da cui nascono nuove idee e
nuovi progetti. La malinconia affligge la nostra Europa. L’avvolge come un
velo. (…). È una malinconia collettiva, simile dunque a quella descritta dallo
storico italiano, ma la sua natura è intima e ricorda quella raccontata nella
monumentale opera del critico e psichiatra ginevrino. In apparenza non c’è
proprio nulla di dinamico nella malinconia europea, dovuta alla frustrante,
spesso inconscia idea del declino. Un’idea che può essere legata alla figura
allegorica del pozzo, dove precipita il malinconico, usata da Starobinski. Il
pozzo non è tuttavia soltanto la profondità quindi la tenebra, è anche dove
zampillano le sorgenti, dunque la speranza. L’arte, la poesia, il romanzo sono
spesso il frutto della difficoltà di vivere. Non siamo tutti artisti, poeti,
romanzieri, ma la malinconia è un pessimismo, uno sconforto da cui possiamo far
scaturire un flusso di energia. La malinconia avvolge l’Europa dopo
settant’anni di pace interna che hanno fatto perdere il senso delle
proporzioni. La sua componente nostalgica porta a rimpiangere quel lungo
periodo alle nostre spalle benché fosse tormentato dalla corsa alle armi
atomiche. I pericoli d’oggi sono più vicini, meno apocalittici. L’europeo
malinconico è inseguito dai lutti provocati dal terrorismo, dall’arrivo in
massa dei migranti, dalla crisi economica. È impigliato nella nevrosi
dell’insicurezza. La parola “guerra” risuona spesso, ma un pensiero al passato
dovrebbe rammentare all’europeo malinconico che le guerre sono dei massacri
(milioni di morti nei due conflitti mondiali del “secolo breve”), sono dei
bombardamenti aerei, anche nucleari, sono delle invasioni, delle occupazioni.
C’è un conflitto caotico in Medio Oriente, in cui si scontrano fanatismi
religiosi ed etnici: è una mischia sanguinosa cristallizzata in quella vicina
regione: da noi arrivano i rigurgiti che fanno decine di morti. Ma le nostre
frontiere non sono minacciate, né ci sono forze in grado di imporci l’abiura
della nostra civiltà. La situazione è più che inquietante, richiede una polizia
esperta e governi con nervi saldi. Nei nostri paesi velati di malinconia non è
tuttavia in corso una terza guerra europea. Se chiamiamo guerra gli atti di
terrorismo diamo ai fanatici che li compiono una dignità che non hanno: quella
del soldato, dell’avversario, con il quale si può firmare un armistizio. E con
loro è impensabile.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 31 dicembre 2017
sabato 30 dicembre 2017
Primapagina. 59 “La lotta di classe è rinata: i ricchi la stravincono”.
“Cronache barbare” di fine anno tratte da “Borse, la lunga festa dell’America” di
Federico Rampini, pubblicato sul settimanale “A&F” del 4 di dicembre 2017: (…). Cominciamo
dall’America perché è il caso più eclatante. Sarà pure inseguito dagli
inquirenti sul Russiagate o dalle sconfitte in politica estera (la Corea del
Nord che lo beffa; Siria, Turchia, Egitto che ricompongono una sfera
d’influenza russa) ma c’è chi ha fiducia in Trump: gli investitori. I record di
Borsa si sono susseguiti di mese in mese al punto da non fare quasi più
notizia. La scorsa settimana ci siamo lasciati alle spalle anche la soglia dei
24.000 punti sull’indice Dow Jones. È l’altra faccia di questo 2017,
impossibile da ignorare. Da una parte un governo che sembra affondare negli
scandali, perde pezzi in continuazione, dà un’immagine caotica, con un
presidente che continua a coltivare un’immagine estremista. Dall’altra
l’euforìa delle Borse, che su di lui scommettono senza esitazioni dal giorno
della sua elezione. C’è una logica: dopo la deregulation, anche la riforma
fiscale che i repubblicani stanno cucinando al Congresso è un regalo alle
imprese come non lo si vedeva dai tempi di Reagan. Da ricordare poi che questo
boom trumpiano non riguarda solo la sfera della finanza, anche l’economia reale
ne beneficia visto che la velocità di crescita del Pil a +3,3% è in
accelerazione. Molte le spiegazioni, e parte del merito va ancora ad Obama: ma
questo boom dura abbastanza perché Trump lo faccia suo. Questo accentua
l’immagine schizofrenica di un’America che sembra perdere credibilità nel mondo
intero... salvo tra chi ha capitali da scommettere su di lei. È un tema sul
quale bisogna soffermarsi, con tutte le chiavi di lettura possibili. Da una
parte la crisi del 2008 ci ha insegnato che i mercati non sono infallibili,
anzi l’istinto del gregge può spingerli verso disastri tremendi, e potremmo
essere alla vigilia di uno di quelli. D’altra parte è possibile invece che i
mercati abbiano riscoperto un’antica verità che noi non vogliamo vedere: la
lotta di classe è rinata, e i ricchi la stravincono. Prima di tornare su questo
punto, conviene fare un giro del mondo delle possibili bolle speculative. (…). Schaeuble
ha unito la sua voce a un coro – minoritario ma consistente anche qui negli
Stati Uniti – di conservatori pessimisti. Sono quelli convinti che siamo in una
gigantesca e pericolosissima bolla creata dalle banche centrali, che con il
loro “quantitative easing” hanno completamente falsato il mercato. La
spiegazione ha una solida logica. Dal punto di vista macro, viviamo in un mondo
inondato di liquidità dopo anni di acquisti di bond. Dal punto di vista micro,
ogni singolo risparmiatore che dialoga con un consulente finanziario si sente
proporre la stessa alternativa in base alla quale si muovono grandi flussi di
capitali: se la sicurezza dei buoni del Tesoro significa accettare rendimenti
microscopici, perché non salire sulla locomotiva delle Borse in cerca di affari
migliori? È un clima nel quale la percezione del rischio può essere obnubilata,
e molti forse hanno abbassato la guardia in modo allarmante. Dal Sole- 24 Ore
prendo la segnalazione che in preda all’euforia da mercati nessuno si protegge
con Credit default Swap. Il Sole fa l’esempio di un’emissione obbligazionaria
nigeriana andata a ruba, mentre i terroristi di Boko Haram facevano strage di
militari, segno di una ingordigia crescente. Potrei aggiungere tra i segnali di
follia la corsa ai Bitcoin, pur sapendo che questo riempirà d’insulti la mia
casella di e-mail… Mi sposto verso un’area molto più centrale nei destini
dell’economia globale: la Cina. È lì che abbiamo visto l’epicentro dell’ultima
“potenziale” crisi finanziaria.
mercoledì 27 dicembre 2017
Sfogliature. 89 “La dittatura degli eventi”.
La “sfogliatura” che si
propone risale ad un giovedì, il 24 di febbraio dell’anno 2011. Difficile non
cogliere, anche al più disattento osservatore d’oggi della vita sociale nel bel
paese, come a distanza di ben sei anni pieni quella “dittatura degli eventi” permanga spietata sempre di più e le
cose, nel mondo della comunicazione, siano rimaste, se non peggiorate, a quella
condizione ben illustrata dall’Autore in essa – la “sfogliatura” intendo dire –
riportato. Scrivevo allora: Difficile non
concordare con quanto ha scritto Marc Augè nel Suo articolo “Nella società degli eventi non succede mai
niente”, articolo pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del dicembre 2010, che di seguito trascrivo nella
sua interezza. Scrive infatti l’illustre etnologo ed antropologo francese: “Nella società dei consumi sono sempre di
più coloro che, non potendo consumare per ragioni economiche, si sentono
esclusi da un sistema di cui vorrebbero far parte. Il bisogno di consumo viene
allora soddisfatto almeno in parte dall'illusione prodotta dagli eventi
collettivi, che in questo diventano un surrogato.” Concordo. È che, nella
società dei consumi, nella quale siamo chiamati a vivere, due aspetti, o categorie
dello spirito, si sovrappongono combinandosi in forme caotiche ed indistinte
e/o si contrastano con un mutuo rinforzarsi negli aspetti più negativi, con
alterne fortune, con caratteristiche invero allarmanti; da un lato la “disumanizzazione” dei rapporti umani,
laddove gli ultimi ritrovati tecnologici consentono di dialogare dall’infinito
lontano ed irreale con un “prossimo”
che non ha o ha perso la “corporalità”
necessaria per ogni rapporto che sia considerato umano pienamente; secondo, il
richiamo veramente irresistibile, che come d’incanto si manifesta in tutti gli
agglomerati umani, con il confluire degli umani, come un enorme sciame che
segua i tenui effluvi dei “feromoni” degli
sciami, di qualsivoglia sciame, verso i luoghi di quelle “ammucchiate” oceaniche che hanno lo scopo ultimo ed inconfessato di
riempire il vuoto di un vivere altamente alienato. Un vivere senza la piena
consapevolezza di un sé, di un io. Non trova spazio, nella contemporanea società
dei consumi, la realtà dell’altro che sia anche la realtà fisica del proprio “prossimo”, se non nelle forme di
mercificazione dei corpi femminili o maschili, così come non trova spazio la
conoscenza e la frequentazione della dimensione solitaria dell’io, di ciascuno,
stretti come si è a dialogare freneticamente e senza orizzonti, attraverso
contatti resi impersonali, a consumare eventi mediatici marginali imposti e
propagandati sapientemente come eventi epocali, ignorando in pari l’ascolto vero
e profondo dell’altro ma soprattutto l’ascolto del sé, dell’io deliberatamente
accantonato. È di conseguenza una perdita della ragione del sé, dell’io reso
impersonale nello sciame che accorre al richiamo dei “feromoni” dei media, con il confondersi e l’annullarsi nello
sciame del sé senza ragione alcuna che non sia sfuggire all’ascolto di un io reso
oramai senza voce; ne consegue una perdita collettiva della memoria, con gli sciami
umani resi collettivamente anonimi ed irresponsabili. Nello sciame umano si
eclissa il sé, l’io; nello sciame si eclissa la dignità dell’umano. Mi
sovvengono, a conclusione di queste brevi considerazioni, due ultimi fatti di
cronaca a dimostrazione dell’eclissarsi dell’umano in larghissimi strati della
popolazione, nel ruinare quotidiano degli eventi che sono divenuti un ripetersi
del già troppe volte vissuto; la mancata collettiva risposta d’indignazione a
seguito dell’atroce vicenda dei bimbi rom morti carbonizzati nella città
eterna; ed ultima, macabra, disgustevole oltre ogni limite dell’umano, vista
sulla rete, l’offerta per i bimbi della nuova mascherina per il prossimo
carnascialesco divertimento collettivo, mascherina che rappresenta “zio Michele Misseri”, con tanto di
corda a cappio per la soppressione finale dell’incolpevole nipote. Cercare in
rete per vedere con occhi propri. Ed il Marc Augè ancora:
venerdì 22 dicembre 2017
Terzapagina. 9 “Esistette l’Italia?”.
Da “Frammenti”
di Umberto Eco, riportato in “Diario minimo” – pagg. 17/25, edizione Oscar
Mondadori (1988) -: IV Congresso Intergalattico di Studi Archeologici — Sirio, 4° Sezione
del 121° Anno Matematico. Relazione del Ch. Prof. Anouk Ooma del Centro
Universitario Archeologico della Terra del Principe Giuseppe — Artide-Terra.
Chiarissimi colleghi, non vi è ignoto che da
gran tempo gli studiosi artici conducono appassionate ricerche per trarre alla
luce le vestigia di quella antichissima civiltà che fiorì nelle zone temperate
e tropicali del nostro pianeta prima che la catastrofe avvenuta nel cosiddetto
anno 1980 dell'era antica, anno Uno dell'Esplosione, vi cancellasse ogni
traccia di vita, in quelle zone che per millenni rimasero a tal punto
contaminate dalla radioattività che solo da pochi decenni le nostre spedizioni
possono avventurarvisi senza soverchio pericolo per cercare di rivelare alla
Galassia intera il grado di civiltà raggiunto dai nostri antenati. Rimarrà
sempre un mistero come degli esseri umani potessero abitare plaghe così
insopportabilmente torride e come quelle genti si siano potute adattare al
pazzesco sistema di vita imposto dal vertiginoso alternarsi di brevissimi periodi
di luce a brevissimi periodi di oscurità; eppure sappiamo che gli antichi
terrestri, in questo abbacinante carosello d'ombre e di luci, seppero trovare
ritmi di vita ed edificare una civiltà ricca e articolata. Quando, circa 70
anni fa (era l'anno 1745 dell'Esplosione), dalla base avanzata di Reykjavik –
il leggendario Avamposto Sud della civiltà terrestre – la spedizione del Prof.
Amaa A. Kroak si spinse sino alla landa detta di France, il mai dimenticato
studioso stabilì inequivocabilmente come l'azione combinata della radioattività
e del tempo avesse distrutto ogni traccia fossile. Già si disperava dunque di
conoscere qualcosa circa i nostri lontani progenitori quando nel 1710 d. E. la
spedizione del Prof. Ulak Amjacoa, avvalendosi dei ricchissimi mezzi messi a
disposizione dalla Alpha Centauri Foundation, facendo dei sondaggi nelle acque
radioattive del lago di Lochness, reperiva quella che viene oggi comunemente
indicata come la prima "criptobiblioteca" degli antichi terrestri.
Murata in un enorme blocco di cemento stava una cassa di zinco recante incisa
la scritta: "Bertrandus Russel submersit anno hominis McMLI". La
cassa, come voi ben sapete, conteneva i volumi dell'Enciclopedia Britannica, e
ci fornì finalmente quella enorme mole di notizie sulla cultura scomparsa, su
cui basiamo oggi gran parte delle nostre conoscenze storiche. Ben presto altre
criptobiblioteche venivano ritrovate in altri paesi (celebre quella trovata in
Terra di Deutschland, in una cassa murata che recava l'iscrizione "Tenebra
appropinquante"), in modo che ci si rese ben presto conto di come gli
uomini di cultura fossero stati gli unici, tra gli antichi terrestri, ad
intuire l'approssimarsi della tragedia, e gli unici a porvi rimedio nell'unico
modo che fosse loro consentito, salvando cioè per i posteri (e quale atto di
fede fu quello di prevedere, malgrado tutto, una posterità!) i tesori della
loro cultura. Grazie a queste pagine, che non possiamo sfogliare senza un
fremito di commozione, noi oggi, illustri colleghi, siamo in grado di sapere
cosa quel mondo pensasse, cosa facesse, come sia giunto al dramma finale. Oh,
ben so che la parola scritta è sempre insufficiente testimone del mondo che la
espresse, ma come rimaniamo sconcertati quando ci manca anche questo
preziosissimo aiuto! Tipico è il caso del "problema italiano", di
questo enigma che ha appassionato archeologi e storici, nessuno dei quali ha saputo
sinora rispondere alla ben nota domanda: come avvenne che in questo paese, che
pure sappiamo di antica civiltà – come ci è testimoniato dai libri ritrovati in
altre terre – come avvenne, dicevo, che non fu possibile reperire alcuna
criptobiblioteca? Voi sapete che le ipotesi in proposito sono tanto numerose
quanto insoddisfacenti, e ve le ricordo a puro titolo di preterizione: 1.
Ipotesi Aakon-Sturg (così dottamente illustrata nel libro La Esplosione nel
bacino mediterraneo, Baffing, 1750 d. E.): per un concorso di fenomeni
termonucleari la criptobiblioteca italiana è stata distrutta; ipotesi sostenuta
da solidi argomenti, perché sappiamo che la penisola italica fu la più battuta
dalle esplosioni in quanto dalle coste adriatiche partirono i primi missili a
testata atomica dando appunto inizio al conflitto totale. 2. Ipotesi Ugum-Noa
Noa, esposta nel notissimo Esistette l'Italia? (Barents City, 1712 d. E.) dove,
sulla base di attente consultazioni dei verbali delle conferenze politiche ad
alto livello intercorse prima del conflitto totale, si perviene alla
conclusione che l'Italia non sia affatto esistita; ipotesi che risolve il pro6 blema
della criptobiblioteca, ma urta contro una serie di testimonianze che le opere
in lingua inglese e tedesca ci danno sulla cultura di quel popolo (mentre
quelle in lingua francese, come è noto, paiono ignorare l'argomento,
suffragando parzialmente la tesi Ugum-Noa Noa). 3. Ipotesi del Prof. Ixptt
Adonis (cfr. Italia, Altair, 22' sezione del 120° Anno Matematico), la più brillante
senz'altro, ma la più debole, secondo la quale al tempo dell'esplosione la
Biblioteca Nazionale Italiana era, per circostanze imprecisate, in uno stato di
estrema decadenza, e gli scienziati italiani, ancorché intesi a fondare
biblioteche pel futuro, erano seriamente preoccupati per quelle del presente e
dovevano ingegnarsi ad impedir lo sfacelo dello stesso edificio contenente i
volumi. Ora l'ipotesi rivela l'ingenuità di un osservatore non terrestre,
disposto ad avvolgere di un alone di leggenda quanto concerne il nostro pianeta
ed uso pensare i terrestri come un popolo che vive beatamente mangiando
pasticcio di foca e suonando arpe di corna di renna: lo stato di avanzata
civiltà cui erano pervenuti gli antichi terrestri prima dell'Esplosione, fa sì
invece che sia impensabile una tale incuria, quando il panorama offertoci dagli
altri paesi cisequatoriali rivela l'esistenza di avanzate tecniche di
conservazione dei libri. Col che si è al punto di partenza, e il più fitto
mistero ha sempre avvolto la .cultura italiana precedente l'esplosione, anche
se per quella dei secoli anteriori esistono sufficienti documentazioni nelle cripto
biblioteche di altri paesi.
giovedì 21 dicembre 2017
Lalinguabatte. 45 “Chi ha rubato il Natale?”.
“(…). Da un quarto di secolo il
giorno di Natale non ricorda più la nascita di Gesù, la civiltà dei consumi ne
ha fatto il giorno in cui ognuno ricorda la nascita dei propri cari: il
borghese ha fatto del Natale una festa endo-famigliare. (…)”. Così
scriveva Ferdinando Camon in una Sua riflessione – “Chi ha rubato il Natale?”, pubblicata sul quotidiano “l’Unità” del
27 di novembre dell’anno 2005, anno non ancora toccato da quella “grande crisi”
che tuttora affligge il mondo già opulento dell’Occidente-; è che il popolo del
bel paese, cattolico sin nelle viscere a
sentire le alte gerarchie ecclesiastiche, non ha solo trasformato il giorno di
natale nel più spregiudicato dei giorni di consumismo duro e puro, ma tutte le domeniche
e le feste che la chiesa annovera e raccomanda, tanto basta andarsene in giro
ed osservare gli immensi parcheggi delle nuove cattedrali, ovvero dei
supermercati e dei centri commerciali, che come ife fungine sorgono ovunque,
maestosi ed accattivanti per le masse dei credenti e dei non credenti,
spingendo alla estinzione il caro negozio di quartiere e di famiglia,
spersonalizzando ancor più la vita degli abitatori del bel paese inurbati. “Chi
ha rubato il natale?”, si chiedeva l’illustre pensatore e scrittore
cattolicissimo, ed una risposta breve breve l’hanno data Giuseppe Oddo e
Giovanni Pons nel loro lavoro “L’intrigo,
banche e risparmiatori nell’era Fazio” – Feltrinelli (2005) -: “(…).
Fiorani (inquisito assieme al governatore Antonio Fazio della Banca d’Italia
n.d.r.) raggiunge l’apice della munificenza nel 2003 indirizzando al
governatore (della Banca d’Italia n.d.r.) una stilografica Cartier e un
apparecchio tv Sony; alla signora Maria Cristina un orologio Baume&Mercier;
al figlio Giovanni un orologio d’oro Cartier; alle figlie Anna Maria, Valeria e
Chiara tre collane d’oro con ciondoli e un braccialetto d’oro all’immancabile
Eugenia. (…).”. Sempre a difesa del risparmiatore e servendo
dovutamente il bel paese, al fine di favorirne il rilancio economico e per … - ah,
ah, ah, ah, ovvero una cosmica risata -. Scriveva oltre Ferdinando Camon:
martedì 19 dicembre 2017
Quodlibet. 45 “E un vecchio sacerdote disse: parlaci della religione”.
Scriveva Kahlil Gibran - 6 gennaio 1883/10 aprile
1931, poeta, pittore e aforista libanese di religione cristiano/maronita - ne’ “Il Profeta”: “E un vecchio sacerdote disse:
parlaci della religione. Ed egli rispose: (…). Religione non è forse ogni atto
e ogni riflessione, e ciò che non è né atto, né riflessione, ma una continua
meraviglia e sorpresa che scaturisce nell’anima, persino quando le mani
spaccano la pietra o tendono il telaio? Chi può mai separare la sua fede dalle
azioni, o il suo credo dalle sue occupazioni? Chi può mai distribuire le ore
davanti a sé e dire : “Questa per Dio e questa per me; questa per la mia anima,
e quest’altra per il mio corpo?”. Tutte le vostre ore sono ali che palpitano
attraverso lo spazio da tutt’uno a tutt’uno. (…). È la vostra vita quotidiana
il vostro tempio e la vostra religione. Ogni qualvolta vi entrate portate con
voi il vostro tutto. Portate l’aratro e la fucina e il mazzuolo e il liuto, le
cose che avete fatto per necessità, o per diletto. Poiché nei vostri sogni a
occhi aperti non potrete andare al di là dei vostri conseguimenti, o al di
sotto dei vostri fallimenti. E con voi portate tutti gli uomini. Poiché
nell’adorazione non potrete volare più in alto delle loro speranze, né
avvilirvi oltre la loro disperazione. E se volete conoscere Dio non siate
dunque solutori di enigmi. Piuttosto guardatevi intorno e lo vedrete giocare
coi vostri bambini. E guardate nello spazio; lo vedrete camminare dentro la
nuvola, protendere le braccia nel lampo e scendere con la pioggia. Lo vedrete
sorridere nei fiori, poi alzarsi per agitare le mani fra gli alberi”. Ché
lascia pensare ed immaginare - sol che lo si voglia o lo si possa fare - come
le “religioni” non abbiano bisogno di riti criptici appositamente creati per
obnubilare le menti, paludamenti e paramenti a volte bizzarri ma sempre lussuosi,
palazzi e templi maestosi e sontuosi per sbalordire e catturare l’immaginario
dei più, palazzi e templi ove si radicano prepotentemente poteri e ricchezze ove
la religione non si lascia trascinare nel vivere al di fuori da quei
luoghi che divengono nel tempo, invece, strumenti di partizione tra gli esseri
umani, di persecuzione dell’uno verso altro ché non è poi altro che il “prossimo
tuo” e di oppressione violenta di coloro i quali non aderissero integralmente
al “verbo” di parte proclamato. Titola “La
religione è molto più di un libro di immagini” Umberto Galimberti – o chi
per Lui – l’interessante Suo testo pubblicato sul settimanale “D” del 19 di
dicembre dell’anno 2015:
lunedì 18 dicembre 2017
Sfogliature. 88 “È l’algoritmo, stupido!”.
La “sfogliatura” che si
propone risale al lunedì 22 di agosto dell’anno 2011. Allora si aveva ancora un
bel dire di mercati, di finanza che, seppur incorporei, lasciavano sempre
intuire che dietro quelle sconosciute identità ci fossero sempre esseri umani –
pochi, pochissimi – autoproclamatisi incontrastati decisori del destino delle
moltitudini altre di esseri parimenti umani. A distanza da quelle cronache le
“cose” sembrano drasticamente cambiate. Non più mercati, non più “padroni delle
ferriere” come agli albori del capitalismo gli imprenditori venivano
denominati, e non più i “proletari” ovvero i prestatori di braccia. Nulla di
tutto ciò ad appena sei anni da quelle cronache. Non esiste più la storica
contrapposizione tra quelle figure, contrapposizione che ha scritto la Storia
del capitalismo e del genere umano tutto. Non più. Oggi la vita di milioni di
esseri umani prestatori d’opera è nelle mani di un imperscrutabile,
inafferrabile “algoritmo”. Il passo in avanti c’è stato, ma in quale
direzione? Ne ha scritto Alessandro Robecchi su “il Fatto Quotidiano” – “Le aziende non sono cattive: è l’algoritmo
che le disegna così” - del 6 di
dicembre 2017: (…). Il mondo del lavoro gira ormai su questo Moloch indecifrabile, dal
suono un po’ fantascientifico e futurista, l’algoritmo che tutto può e tutto
decide a vantaggio dell’azienda. Ora che le storie del lavoro degradato
italiano si diffondono, spuntano fuori ogni giorno, ci rivelano l’offensiva
inconsistenza di quel “fondata sul lavoro” che sta scritto nella prima riga
della Costituzione, monsieur l’Algoritmo fa la sua porca figura. Dietro quasi
ogni storia spunta l’algoritmo, cioè un sistema di pianificazione e controllo
accuratissimo. Fai l’assistente di volo e non vendi a bordo abbastanza gratta e
vinci, profumi, cosmetici? (Ryanair), ti cambiamo turno in senso punitivo. Un
consiglio dell’algoritmo. La signora con due figli (uno disabile) chiede
flessibilità e non riesce a rispettare certi turni? (Ikea). Spiacenti, i turni
li fa l’algoritmo. Tutto questo vale ogni giorno per migliaia di aziende, per
milioni di lavoratori. Quello che vi porta la pizza, quello che vi spedisce il
pacco, o che guida per consegnarvelo, quello che vi telefona per offrirvi un
servizio e migliaia di altri, lavorano sotto un controllo millimetrico, che
segnala i dati a un programma, che può calcolarne la produttività, costi
benefici. Scientifico, impersonale. Quando le cose si fanno particolarmente
scandalose (i casi citati, e ogni giorno se ne affaccia uno nuovo alle
cronache) compaiono solitamente, via comunicato stampa, gli addetti alle
relazioni esterne, che allargano le braccia e dicono: eh, è stato l’algoritmo.
A volte lo dicono come se il corpo dell’azienda ne fosse posseduto, tipo la ragazzina
de l’Esorcista che sputacchia e gira la testa di 360 gradi. Dal punto di vista
economico e sociale è il disastro che conosciamo: mini-lavori di faticoso
sostentamento, altissima ricattabilità del lavoratore, mansioni inesistenti
(quando hai finito alla cassa del supermarket devi lavare i cessi, e infinite
varianti), redditi sempre più bassi. Dal punto di vista culturale è forse
peggio: per il lavoratore c’è una progressiva perdita di dignità. E da parte
imprenditoriale c’è un’estrema spersonalizzazione, al punto quasi grottesco che
si cedono responsabilità e schifezze alle macchine. E’ stato il sistema. Non
sono cattivo, è l’algoritmo che mi disegna così. Il signore che prende i tempi
in officina alle spalle del sontuoso Gian Maria Volonté de La classe operaia va
in paradiso ora te lo spacciano per l’inflessibile, ma – ahimé – scientifico e
imparziale, algoritmo. Una cosa moderna e bella da dire, fa fico, che spesso
significa applicare oggi una parola novecentesca come “cottimo”. In tutto
questo – ed è la cosa più strabiliante – si alzano “ohhh” di stupore e
meraviglia perché il Censis (rapporto annuale) dice che aumenta il rancore
nella società. Ma va? Ma giura? Scemo io che pensavo che invece essere
licenziati, intermittenti, pagati due cipolle e un pomodoro, coi turni cambiati
all’improvviso, niente ferie e niente malattia, inducesse nella popolazione un
garrulo e soddisfatto buonumore. Ma sai proprio una gioia irrefrenabile? Invece
no, invece c’è rabbia e rancore, chi l’avrebbe mai detto! Aggiunge il Censis
questo rancore sarebbe una “rabbia repressa che non riesce più a sfogare
nemmeno lungo le linee del conflitto sociale tradizionale”. Esatto, perfetto.
Forse l’invenzione, la messa a punto, la taratura di un buon algoritmo
dell’incazzatura potrebbe servire: proletari di tutto il mondo, fatevi anche
voi un algoritmo. Così, quando la rabbia supererà certi limiti potrete
allargare le braccia e dire: “Oh, è stato l’algoritmo, mica è colpa mia!”. Annotavo
a quel tempo:
domenica 17 dicembre 2017
Quodlibet. 44 “L’etica perduta della politica”.
Da “L’etica
perduta della politica” di Stefano Rodotà, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 17 di dicembre dell’anno 2016: Tra una politica che fatica a presentarsi in
forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi,
bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura
costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità. Mai
nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la
Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico
e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano
sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le
occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato
utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto. Dobbiamo
ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole
“disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui
sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto
che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si
affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un
ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”.
Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo
memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano,
anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e
amministrazione denunciato da Silvio Spaventa. Così la questione “morale” si
presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in
evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere,
ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di
fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica
pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una
sua legittimazione sociale. In questi anni il degrado politico e civile è
aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione
ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi
soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa
attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta
del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di
sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si
allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti
comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non
ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la
magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo
non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere
equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti
istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati. È stata dunque la
politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in
questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità
propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come
restituire alla politica l’etica perduta?
venerdì 15 dicembre 2017
Sfogliature. 87 “Liberi di succhiare mentine”.
“(…). I poveri tirarono avanti,
ma poi vendettero anche il loro pudore, la loro vergogna, il loro dolore. (…).
Dopo qualche generazione i poveri s’erano venduti tutto. I poveri diventarono
così poveri che presero la loro povertà, la misero in bottiglia e andarono a
vendersela. Se la comprarono i ricchi che volevano essere così tanto ricchi da
possedere anche la miseria dei miseri. Quando i poveri restarono senza niente
si armarono. E non di coltello e forchetta, ma di pistole e fucili perché la
rivoluzione non è un pranzo di gala, la rivoluzione è un atto di violenza.
Marciarono verso il palazzo. Però quando arrivarono sotto il balcone del
podestà, si fermarono e rimasero zitti. Perché senza la rabbia e la fame, senza
l’orgoglio e il disgusto, senza cultura e coscienza di classe non si fa la
rivoluzione. Così il podestà scese in cantina, tornò con una bottiglia e la
riconsegnò al popolo. C’era imbottigliata la libertà che avevano conquistato i
loro nonni, ma che i padri s’erano già venduta da un pezzo. Potevano farci un
inno o un partito, un circolo o una bandiera. La stapparono ma non riuscirono a
farci niente. Perché la libertà da sola non serve. Allora il podestà si cercò
in tasca e trovò una scatola di caramelle alla menta. La consegnò al popolo. E
da quel momento i poveri furono liberi. Liberi di succhiare mentine”. Lo ricordate quello straordinario monologo
di Ascanio Celestini, che ho trascritto in parte, che il grande attore ha
recitato nel corso della trasmissione televisiva “Parla con me”? Pensate che il suo senso non potrebbe avere
attinenza con l’oggi tempestoso che stiamo collettivamente vivendo? Nell’attesa
inutile di un qualcosa che faccia invertire il corso della storia? Una storia
intrisa di ineguaglianze e di soprusi grandi? Ma quel corso non può essere
giammai invertito se non vengono a sostegno, a determinarne la fine, “la rabbia e la fame, senza l’orgoglio e il
disgusto”, poiché “senza cultura e
coscienza di classe non si fa la rivoluzione”. È la lezione semplice,
sociologicamente parlando, che ci ha impartito quello straordinario giullare. Con
la pancia piena non si fanno le rivoluzioni. Ce lo insegnano i fatti
straordinari di questi ultimi mesi: il fuoco divampato nel nord dell’Africa,
ove la fame è fame vera e “niura” – nera
- o come le finte rivoluzioni dei bamboccioni della perfida Albione che fanno
la rivoluzione a modo loro per la tv al plasma, per l’ultimo telefonino e per
altre corbellerie del genere. Da quale parte stanno i bamboccioni “de’ noantri”? Nella calura ultima
agostana, quando la “parlacìa” –
ovvero quel parlottare a volte concitato, con le voci che si accavallano per
divenire più convincenti –, quella “parlacìa”,
dicevo, da spiaggia, tra rivoli di sudore che imperlano la fronte ed il
viso tutto, e tra nugoli di zanzare che distraggono dalle cose dette o non
dette, mi portò a fare un’affermazione di quelle solenni, che avrebbe meritato,
in altro contesto, ben altra accoglienza, grande fu la mia sorpresa a seguito
di quella “parlacìa” nel riscontrare
una scarsa, scarsissima attenzione alla “cosa”
appena detta; ovvero, che le prime barricate da rivoluzione le avremmo dovute
erigere noi, nel bel paese, allorquando il peggior governo di tutti i tempi
della repubblica aveva sanzionato, senza appello alcuno ed a chiare lettere,
che la povertà nel bel paese veniva riconosciuta come stato sociale ufficiale, da
affrontare e lenire con la famigerata “social
card”. Quello è stato il punto più alto e politicamente più significativo di
non ritorno al passato; si sanciva, alla luce del sole, che le disuguaglianze
sociali, le povertà vecchie e nuove, avevano ottenuto il loro riconoscimento e
la loro istituzionalizzazione dalle più alte cariche dello stato e dal
parlamento del bel paese. Nell’indifferenza generale.
giovedì 14 dicembre 2017
Quodlibet. 43 “I ragazzi che leggono vivono tante vite”.
Da “I ragazzi che leggono vivono tante vite” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del 14 di dicembre dell’anno 2013: Gianfranco
Contini disse un giorno: «Solo chi legge tanti libri sa giocare la propria
esistenza su molte tastiere». Mi piace dar voce alle lettere che ricevo dagli
adolescenti, perché, a differenza degli adulti che si lamentano, recriminano o
accusano, spesso giustamente, gli adolescenti descrivono la loro condizione,
oppure lanciano progetti per il futuro. E ascoltarli nel loro fantasticare e
progettare il futuro non deve scatenare, come puntualmente accade nelle lettere
di commento che ricevo, la reazione degli adulti che li accusano di ingenuità.
Gli adulti conoscono il tempo che hanno vissuto, ma non conoscono, come gli
adolescenti, il tempo che verrà, e che comunque è loro. Così, ad esempio, ci
sono degli adolescenti che scrivono meglio dei loro professori. Come può
accadere questo? Hanno letto più libri di loro. Ci sono degli adolescenti che
conoscono i sentimenti in tutte le loro sfumature. Chi glieli ha insegnati? I
libri che hanno letto. Ci sono degli adolescenti che non si annoiano perché,
attraverso i libri, hanno scoperto quanti percorsi fantastici la vita può
offrire, e non hanno bisogno di droghe per fare un "viaggio" fuori
dalla quotidianità. Ci sono infine degli adolescenti che, grazie ai libri che
hanno letto, non drammatizzano le sofferenze che incontrano nella vita, non si
abbandonano agli amori con l'ingenuità di chi conosce solo la passione del
momento. Sanno quanto è vasta e articolata è la gamma dei sentimenti, quanto ampia
la costellazione delle idee per perdersi nella prima passione che li assale o
nella prima idea fissa che li tormenta. Non sono per questo immuni
dall'inquietudine dell'adolescenza e neppure sono divenuti adulti troppo
precocemente. Grazie ai libri, hanno semplicemente offerto alla loro mente e al
loro cuore tanti percorsi che, senza libri, non avrebbero conosciuto, e così
hanno evitato l'afasia del linguaggio, l'atrofia dei sentimenti, la povertà
della fantasia che, anche quando è appena abbozzata, contiene quasi sempre un
progetto di vita. Questi sono i doni della lettura, che diventa una compagna di
viaggio solo per chi comincia a frequentarla da bambino. (…). Perché
l'educazione della mente e del cuore non avviene con il superamento di un corso
di studi, ma con la frequentazione appassionata di tutti i sentieri che la vita
dischiude e che la buona letteratura sa indicare e descrivere.
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