Da “La fine
del secolo americano” di Pankaj Mishra, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 16 di maggio 2017: (…). La storia globale degli ideali
americani post-1945 non è stata ancora scritta, né esiste un’analisi
sociologica esauriente che abbia per oggetto gli intellettuali americani e
americanofili. Stiamo solo emergendo, storditi, dai decenni frenetici
post-guerra fredda in cui, come scrive Don DeLillo, «la spettacolare ascesa del
Dow Jones e la velocità di internet sono stati di invito per tutti a vivere
permanentemente nel futuro, nello splendore utopico del capitale cibernetico ».
È chiaro da tempo però che l’americanizzazione del mondo, iniziata negli anni
Quaranta con progetti di modernizzazione nazionale e accelerata nella nostra
epoca puntando a livello globale sui mercati non regolati, ha rappresentato
l’esperimento ideologico più ambizioso mai intrapreso nell’era moderna. Si
fondava sul presupposto che la popolazione del resto del mondo dovesse adottare
la ricetta di progresso apparentemente valida in America, qualunque essa fosse
(la libera impresa, il liberalismo del New Deal, il consumismo, la
finanziarizzazione, l’individualismo neoliberale); e veniva accolta con ampio e
fervido entusiasmo da non americani, come i consiglieri dello Scià di Persia,
gli esperti favorevoli al libero mercato in India e i componenti della
redazione dell’Economist. Gli adepti, alleati e facilitatori
dell’americanizzazione, dalla Grecia all’Indonesia, erano anche di gran lunga
più influenti dei loro rivali socialisti e comunisti. I linguaggi americani
della modernità finirono per corrispondere al senso comune della vita
intellettuale pubblica in tutti i continenti, alterando radicalmente la
concezione che gran parte della popolazione mondiale nutriva della società,
dell’economia, della nazione, del tempo e dell’identità individuale e
collettiva. (…). I giardini d’Europa sembravano prossimi alla chiusura e le
élite americane si consideravano le vere eredi dei valori apparentemente
occidentali della ragione, della libertà e della democrazia, che le nazioni
europee, rovinate dal massacrarsi a vicenda in patria ed esercitando con
brutalità il potere imperiale all’estero, non potevano più credibilmente
rivendicare. (…).
La superiorità della società e della cultura americana a fronte della devastazione in Europa e in Asia era palese. Walt Rostow, autore nel 1960 di The Stages of Economic Growth: A non- communist manifesto ( Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi 1962, ndt) e divenuto in seguito tristemente famoso come uno dei più brillanti fautori del fallimentare intervento americano in Vietnam, era convinto che gli Usa, «figli dell’illuminismo... devono ora affrontare la maturità attivandosi da oggi in poi per far sì che i valori dell’illuminismo o i loro equivalenti nelle culture non occidentali sopravvivano e dominino il Ventunesimo secolo». L’aura di intellettualismo non era solo questione di immagine; gli scenari e le strategie erano inserite in uno schema teorico vero e proprio, la teoria della modernizzazione. Nils Gilman nel suo superbo saggio Mandarins of the Future (2003) lo ha definito «il progetto più esplicito e sistematico mai inventato dagli americani per riorganizzare le società straniere». Basandosi sul netto contrasto tra una tradizione opprimente e una modernità affrancatrice, la teoria della modernizzazione postulava che le nazioni postcoloniali dovessero fuggire dal passato scegliendo la via dello “sviluppo”. Il punto di arrivo di questo percorso arduo e complesso erano gli Usa, come campioni della modernità liberale. Decenni prima che Francis Fukuyama proclamasse la “fine della storia” i teorici della modernizzazione sostenevano che il mondo capitalista assimilato ai criteri americani fosse sia auspicabile che inevitabile. Molti nell’ambiente intellettuale- industriale statunitense all’inizio degli anni Sessanta giunsero alla conclusione che la stabilità era più importante della democrazia. Il saggio del 1968 Ordine politico e cambiamento sociale di Samuel Huntington esprimeva efficacemente il crescente timore nutrito dalle élite liberali razionali nei confronti delle masse irrazionali. Quando la Guerra Fredda esplose in una serie di guerre calde, la ricerca di un alleato affidabile e sicuro contro il comunismo portò i modernizzatori ad appoggiare tutta una serie di regimi ignobili. L’esempio più vergognoso fu il Vietnam del Sud, divenuto un grande laboratorio per Rostow, che ambiva a opporre a Marx la teoria non marxiana della modernizzazione. Gli americani, nella sua ipotesi, potevano assistere i vietnamiti del Sud nel superamento dei cinque «stadi di crescita economica», fino alla «fase di decollo» in cui sarebbero stati pronti a schiacciare i comunisti nordvietnamiti. L’umiliazione in Vietnam screditò i teorici della modernizzazione. Il loro fallimento in Iran però è stato assai più devastante sotto il profilo geopolitico, alimentando l’islamismo radicale in tutto il mondo. Decine di migliaia di americani avevano vissuto in Iran sotto il regime dello Scià, molti come consulenti del progetto di modernizzazione più brutale e traumatico condotto in Asia. Lilienthal, che promuoveva le imprese americane all’estero tramite la sua società di consulenza, agì in Iran oltre che in Vietnam. Ricorrendo a trasferimenti forzati su larga scala contribuì al diffondersi dell’odio contro l’America e alla successiva feroce impennata del nazionalismo religioso – che Michel Foucault definì a ragione la «prima grande insurrezione contro i sistemi globali, la forma di rivolta più moderna e più folle». Negli anni Ottanta però gli orfani cosmopoliti vendevano nuovi sistemi globali, armando al contempo i mullah in Afghanistan contro il comunismo sovietico. Può sembrare strano che la cupa atmosfera degli anni Settanta, associata alla ritirata disordinata da Saigon, alla crisi energetica e alla crisi economica, ai segnali allarmanti di deindustrializzazione e alla stagnazione dei salari in patria, abbia dato origine a nuovi sogni di gloria e potere americani. Ma questo clima culturale era in gestazione durante tutta la fase di agonia del liberalismo del New Deal ad opera degli intellettuali neo-conservatori. «Siamo i primi, siamo i migliori», sosteneva Reagan nel 1984. «Come è possibile non credere alla grandezza dell’America? Noi siamo americani». L’attenzione ai profitti era associata al nuovo nazionalismo come nel caso di Luce, ma con una differenza fondamentale: nella nuova visione dell’americanizzazione, la modernità era un progetto individualista e orientato al mercato, piuttosto che collettivo e programmato dallo Stato. Negli anni Ottanta il capitalismo del laissez- faire, largamente abbandonato dopo le devastanti crisi economiche di inizio secolo, sostituì nell’Anglo-America un modello ampiamente defunto di socialdemocrazia. Era il mercato ormai il vero regno della libertà umana, con l’ulteriore vantaggio di premiare tutti grazie a una maggiore efficienza e a maggiori profitti. «Sapete, il mercato ha qualcosa di magico quando è libero di agire», rifletteva Reagan all’inizio del 1982. «Come dice la canzone, this could be the start of something big (può essere l’inizio di grandi cose)». Dagli anni Quaranta in poi, gli americanizzatori avevano ribadito che al capolinea della storia c’erano gli Stati Uniti. Neppure gli attacchi terroristici dell’undici settembre scossero questa convinzione. Il sospetto che l’islamofascismo avesse dichiarato guerra alla modernità liberale in realtà stimolò molti intellettuali americani a tentare con più audacia di creare un mondo nuovo a immagine dell’America che preferivano. I teorici della modernizzazione, rispettosi della lunga durata nella storia, affidavano alla classe media beneficiaria del capitalismo il compito di far crescere la democrazia. Ma la generazione “post-ideologica” degli internazionalisti liberali e dei neo-con pensava ormai che la democrazia potesse essere impiantata attraverso la terapia dello shock- and- awe in società che non l‘avevano per tradizione. La loro teoria dominante identificava l’“altro da sé” sotto il profilo razziale e religioso come brutalità irrecuperabile, l’esatto opposto degli americani razionalmente egocentrici, che doveva essere sterminata universalmente attraverso una spietata guerra al terrorismo. Le crisi e i crolli successivi hanno reso meno auspicabile, se non indesiderabile, la convergenza con il modello americano. La Russia post comunista è degenerata nel capitalismo gangster e nel dispotismo politico. Il caos e le sofferenze di massa hanno contribuito a trasformare un arcigno ex agente del Kgb, Vladimir Putin, nell’improbabile salvatore della Russia (che ficca sfacciatamente il naso nelle elezioni americane). In Iraq, il più audace esperimento di americanizzazione non solo ha causato una feroce insurrezione, ma ha spaccato il paese, favorito l’ascesa dello Stato islamico, e il disfacimento del Medio Oriente. Il vice cancelliere tedesco non sbagliava quando recentemente ha evidenziato i legami tra la crisi dei profughi in Europa e «l’erronea politica interventista americana, in particolare la guerra in Iraq». Dopo la crisi finanziaria del 2008, la convinzione che anima sia i teorici della modernizzazione che i fautori neoliberali della terapia dello shock secondo cui la modernità politica ed economica tende a uniformare la condizioni umane, si è infine rivelata falsa proprio negli Stati Uniti, dove, a dispetto di un’enorme crescita della produttività e dell’innovazione, dai primi anni Settanta si sono intensificate le disuguaglianze di reddito e opportunità. Alla fine, come ha dimostrato la vittoria di Donald Trump nel novembre 2016, il Washington Consensus aveva fatto troppe vittime già nell’entroterra di Washington Dc. Mentre a Oriente infuriava la battaglia per la democrazia e il capitalismo, a Ovest del Potomac democrazia e capitalismo venivano continuamente minati da estreme concentrazioni di ricchezza, dalla costante criminalizzazione dei poveri, da politiche inefficaci, da forze di sicurezza canaglia e da media distratti. Risvegliandosi lentamente alla luce di queste squallide realtà, molti beneficiati dall’American Century, internazionalisti liberali nonché neo-con, si avvicinavano, fino a pochissimo tempo fa, alla famosa definizione del fanatico data da Santayana: «Colui che raddoppia gli sforzi quando ha perso di vista l’obiettivo ». I fautori della terapia dello shock, o, come li definisce Joseph Stiglitz, «i bolscevichi del mercato», sembravano ignari del fatto che le economie in via di sviluppo o post-socialiste potessero dover seguire un percorso diverso in direzione della crescita sostenibile, rispetto alle economie pienamente sviluppate. Gli ideologi frustrati erano propensi ad attribuire alle culture – russe, arabe, comunque non americane – la responsabilità del fallito impianto della democrazia e dei liberi mercati. Non li sfiorava neppure il pensiero che le culture non americane non perseguissero la missione universale di convertire tutti allo stile di vita dell’America. Non avevano capito una cosa ovvia, ossia che in gran parte del mondo non sono presenti le condizioni culturali, economiche e sociali che hanno contribuito a dar vita all’ideale americano della libertà individuale e, in seguito, a estendere le possibilità di realizzarlo a una minoranza privilegiata. Santayana temeva che la diffusione in tutto il mondo dell’ideologia americana dell’autoespansione avrebbe «destato un’avversione più profonda» di quella suscitata dai tiranni del passato, rischiando di provocare «una colata lavica di cecità e violenza primitiva». Ma nella sua inquietante lungimiranza Santayana non poteva prevedere che i delusi e i frustrati al centro stesso della modernità americana avrebbero fatto di un molestatore e bancarottiere seriale il loro salvatore. La tesi che il buon americanismo possa scongiurare il pericolo rappresentato dai pazzi demagoghi è ormai insostenibile. Il secolo americano si è formalmente concluso il 20 gennaio 2017, nel momento in cui Donald Trump si è insediato alla casa Bianca ribadendo che «da oggi in poi sarà soltanto l’America al primo posto». L’approccio nettamente transazionale di questo deal- maker, così si definisce, che irride apertamente la Nato come obsoleta e ammira Vladimir Putin, lascia scarso spazio a qualunque genere di universalismo ideologico. Trump punta a fare l’America di nuovo grande attraverso dazi e muri. «Per ora gli Stati Uniti», ha ammesso Robert Kagan recentemente sul Financial Times, «sono fuori dal business dell’ordine mondiale ». Non è affatto chiaro come affronteremo quello che gli orfani incompetenti, insistenti, cosmopoliti hanno creato: un grande disordine mondiale, che come risultato finale ha portato un imprevedibile provocatore, un troll di Twitter, spavaldo nei modi ma di incerta moralità, nella stanza dell’arsenale nucleare.
La superiorità della società e della cultura americana a fronte della devastazione in Europa e in Asia era palese. Walt Rostow, autore nel 1960 di The Stages of Economic Growth: A non- communist manifesto ( Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi 1962, ndt) e divenuto in seguito tristemente famoso come uno dei più brillanti fautori del fallimentare intervento americano in Vietnam, era convinto che gli Usa, «figli dell’illuminismo... devono ora affrontare la maturità attivandosi da oggi in poi per far sì che i valori dell’illuminismo o i loro equivalenti nelle culture non occidentali sopravvivano e dominino il Ventunesimo secolo». L’aura di intellettualismo non era solo questione di immagine; gli scenari e le strategie erano inserite in uno schema teorico vero e proprio, la teoria della modernizzazione. Nils Gilman nel suo superbo saggio Mandarins of the Future (2003) lo ha definito «il progetto più esplicito e sistematico mai inventato dagli americani per riorganizzare le società straniere». Basandosi sul netto contrasto tra una tradizione opprimente e una modernità affrancatrice, la teoria della modernizzazione postulava che le nazioni postcoloniali dovessero fuggire dal passato scegliendo la via dello “sviluppo”. Il punto di arrivo di questo percorso arduo e complesso erano gli Usa, come campioni della modernità liberale. Decenni prima che Francis Fukuyama proclamasse la “fine della storia” i teorici della modernizzazione sostenevano che il mondo capitalista assimilato ai criteri americani fosse sia auspicabile che inevitabile. Molti nell’ambiente intellettuale- industriale statunitense all’inizio degli anni Sessanta giunsero alla conclusione che la stabilità era più importante della democrazia. Il saggio del 1968 Ordine politico e cambiamento sociale di Samuel Huntington esprimeva efficacemente il crescente timore nutrito dalle élite liberali razionali nei confronti delle masse irrazionali. Quando la Guerra Fredda esplose in una serie di guerre calde, la ricerca di un alleato affidabile e sicuro contro il comunismo portò i modernizzatori ad appoggiare tutta una serie di regimi ignobili. L’esempio più vergognoso fu il Vietnam del Sud, divenuto un grande laboratorio per Rostow, che ambiva a opporre a Marx la teoria non marxiana della modernizzazione. Gli americani, nella sua ipotesi, potevano assistere i vietnamiti del Sud nel superamento dei cinque «stadi di crescita economica», fino alla «fase di decollo» in cui sarebbero stati pronti a schiacciare i comunisti nordvietnamiti. L’umiliazione in Vietnam screditò i teorici della modernizzazione. Il loro fallimento in Iran però è stato assai più devastante sotto il profilo geopolitico, alimentando l’islamismo radicale in tutto il mondo. Decine di migliaia di americani avevano vissuto in Iran sotto il regime dello Scià, molti come consulenti del progetto di modernizzazione più brutale e traumatico condotto in Asia. Lilienthal, che promuoveva le imprese americane all’estero tramite la sua società di consulenza, agì in Iran oltre che in Vietnam. Ricorrendo a trasferimenti forzati su larga scala contribuì al diffondersi dell’odio contro l’America e alla successiva feroce impennata del nazionalismo religioso – che Michel Foucault definì a ragione la «prima grande insurrezione contro i sistemi globali, la forma di rivolta più moderna e più folle». Negli anni Ottanta però gli orfani cosmopoliti vendevano nuovi sistemi globali, armando al contempo i mullah in Afghanistan contro il comunismo sovietico. Può sembrare strano che la cupa atmosfera degli anni Settanta, associata alla ritirata disordinata da Saigon, alla crisi energetica e alla crisi economica, ai segnali allarmanti di deindustrializzazione e alla stagnazione dei salari in patria, abbia dato origine a nuovi sogni di gloria e potere americani. Ma questo clima culturale era in gestazione durante tutta la fase di agonia del liberalismo del New Deal ad opera degli intellettuali neo-conservatori. «Siamo i primi, siamo i migliori», sosteneva Reagan nel 1984. «Come è possibile non credere alla grandezza dell’America? Noi siamo americani». L’attenzione ai profitti era associata al nuovo nazionalismo come nel caso di Luce, ma con una differenza fondamentale: nella nuova visione dell’americanizzazione, la modernità era un progetto individualista e orientato al mercato, piuttosto che collettivo e programmato dallo Stato. Negli anni Ottanta il capitalismo del laissez- faire, largamente abbandonato dopo le devastanti crisi economiche di inizio secolo, sostituì nell’Anglo-America un modello ampiamente defunto di socialdemocrazia. Era il mercato ormai il vero regno della libertà umana, con l’ulteriore vantaggio di premiare tutti grazie a una maggiore efficienza e a maggiori profitti. «Sapete, il mercato ha qualcosa di magico quando è libero di agire», rifletteva Reagan all’inizio del 1982. «Come dice la canzone, this could be the start of something big (può essere l’inizio di grandi cose)». Dagli anni Quaranta in poi, gli americanizzatori avevano ribadito che al capolinea della storia c’erano gli Stati Uniti. Neppure gli attacchi terroristici dell’undici settembre scossero questa convinzione. Il sospetto che l’islamofascismo avesse dichiarato guerra alla modernità liberale in realtà stimolò molti intellettuali americani a tentare con più audacia di creare un mondo nuovo a immagine dell’America che preferivano. I teorici della modernizzazione, rispettosi della lunga durata nella storia, affidavano alla classe media beneficiaria del capitalismo il compito di far crescere la democrazia. Ma la generazione “post-ideologica” degli internazionalisti liberali e dei neo-con pensava ormai che la democrazia potesse essere impiantata attraverso la terapia dello shock- and- awe in società che non l‘avevano per tradizione. La loro teoria dominante identificava l’“altro da sé” sotto il profilo razziale e religioso come brutalità irrecuperabile, l’esatto opposto degli americani razionalmente egocentrici, che doveva essere sterminata universalmente attraverso una spietata guerra al terrorismo. Le crisi e i crolli successivi hanno reso meno auspicabile, se non indesiderabile, la convergenza con il modello americano. La Russia post comunista è degenerata nel capitalismo gangster e nel dispotismo politico. Il caos e le sofferenze di massa hanno contribuito a trasformare un arcigno ex agente del Kgb, Vladimir Putin, nell’improbabile salvatore della Russia (che ficca sfacciatamente il naso nelle elezioni americane). In Iraq, il più audace esperimento di americanizzazione non solo ha causato una feroce insurrezione, ma ha spaccato il paese, favorito l’ascesa dello Stato islamico, e il disfacimento del Medio Oriente. Il vice cancelliere tedesco non sbagliava quando recentemente ha evidenziato i legami tra la crisi dei profughi in Europa e «l’erronea politica interventista americana, in particolare la guerra in Iraq». Dopo la crisi finanziaria del 2008, la convinzione che anima sia i teorici della modernizzazione che i fautori neoliberali della terapia dello shock secondo cui la modernità politica ed economica tende a uniformare la condizioni umane, si è infine rivelata falsa proprio negli Stati Uniti, dove, a dispetto di un’enorme crescita della produttività e dell’innovazione, dai primi anni Settanta si sono intensificate le disuguaglianze di reddito e opportunità. Alla fine, come ha dimostrato la vittoria di Donald Trump nel novembre 2016, il Washington Consensus aveva fatto troppe vittime già nell’entroterra di Washington Dc. Mentre a Oriente infuriava la battaglia per la democrazia e il capitalismo, a Ovest del Potomac democrazia e capitalismo venivano continuamente minati da estreme concentrazioni di ricchezza, dalla costante criminalizzazione dei poveri, da politiche inefficaci, da forze di sicurezza canaglia e da media distratti. Risvegliandosi lentamente alla luce di queste squallide realtà, molti beneficiati dall’American Century, internazionalisti liberali nonché neo-con, si avvicinavano, fino a pochissimo tempo fa, alla famosa definizione del fanatico data da Santayana: «Colui che raddoppia gli sforzi quando ha perso di vista l’obiettivo ». I fautori della terapia dello shock, o, come li definisce Joseph Stiglitz, «i bolscevichi del mercato», sembravano ignari del fatto che le economie in via di sviluppo o post-socialiste potessero dover seguire un percorso diverso in direzione della crescita sostenibile, rispetto alle economie pienamente sviluppate. Gli ideologi frustrati erano propensi ad attribuire alle culture – russe, arabe, comunque non americane – la responsabilità del fallito impianto della democrazia e dei liberi mercati. Non li sfiorava neppure il pensiero che le culture non americane non perseguissero la missione universale di convertire tutti allo stile di vita dell’America. Non avevano capito una cosa ovvia, ossia che in gran parte del mondo non sono presenti le condizioni culturali, economiche e sociali che hanno contribuito a dar vita all’ideale americano della libertà individuale e, in seguito, a estendere le possibilità di realizzarlo a una minoranza privilegiata. Santayana temeva che la diffusione in tutto il mondo dell’ideologia americana dell’autoespansione avrebbe «destato un’avversione più profonda» di quella suscitata dai tiranni del passato, rischiando di provocare «una colata lavica di cecità e violenza primitiva». Ma nella sua inquietante lungimiranza Santayana non poteva prevedere che i delusi e i frustrati al centro stesso della modernità americana avrebbero fatto di un molestatore e bancarottiere seriale il loro salvatore. La tesi che il buon americanismo possa scongiurare il pericolo rappresentato dai pazzi demagoghi è ormai insostenibile. Il secolo americano si è formalmente concluso il 20 gennaio 2017, nel momento in cui Donald Trump si è insediato alla casa Bianca ribadendo che «da oggi in poi sarà soltanto l’America al primo posto». L’approccio nettamente transazionale di questo deal- maker, così si definisce, che irride apertamente la Nato come obsoleta e ammira Vladimir Putin, lascia scarso spazio a qualunque genere di universalismo ideologico. Trump punta a fare l’America di nuovo grande attraverso dazi e muri. «Per ora gli Stati Uniti», ha ammesso Robert Kagan recentemente sul Financial Times, «sono fuori dal business dell’ordine mondiale ». Non è affatto chiaro come affronteremo quello che gli orfani incompetenti, insistenti, cosmopoliti hanno creato: un grande disordine mondiale, che come risultato finale ha portato un imprevedibile provocatore, un troll di Twitter, spavaldo nei modi ma di incerta moralità, nella stanza dell’arsenale nucleare.
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