Da “La vera
stagnazione secolare è nei salari” di Alberto Bagnai, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” di mercoledì 4 di maggio dell’anno 2016: Fabio Scacciavillani ha lanciato (…)
un dibattito sul tema della “stagnazione secolare”: la tesi, proposta da Alvin
Hansen negli anni Trenta e ripresa recentemente da Larry Summers, secondo cui
le fonti della crescita economica sarebbero inaridite per cause di natura
strutturale, epocale, e in quanto tali sostanzialmente indipendenti dalle
scelte di governo dell’economia. Già il fatto che questa tesi si ripresenti
ciclicamente fa intuire che forse non è del tutto fondata. Personalmente la
ritengo un capro espiatorio per governi tanto incapaci di fare gli interessi
della maggioranza, quanto capacissimi di fare quelli di minoranze conniventi.
Tuttavia (…) Scacciavillani pone domande stimolanti, alle quali può essere
utile dare una risposta. In particolare, vorrei “mettere a sistema” la seconda
e la settima domanda: “l’abnorme crescita del debito è stato un modo per
perpetuare il miraggio della crescita reale?”, e: “le disuguaglianze di reddito
e di ricchezza costituiscono un freno alla crescita?” Alla seconda domanda
possiamo rispondere senz’altro di sì, e la spiegazione passa per la prima
domanda. La disuguaglianza, in particolare quella di reddito, nel lungo periodo
danneggia la crescita, perché costringe un numero sempre più ampio di agenti
economici a finanziare le proprie spese con debito (visto che i redditi
percepiti sono insufficienti), aprendo la strada a crisi finanziarie dagli
effetti depressivi, come quella attuale. La crescita abnorme del debito,
evidenziata da Scacciavillani (e anche dai dati) ha quindi origine non in un
improvviso accesso di sfrenata lussuria consumistica collettiva, ma nella vera
stagnazione secolare: quella dei salari. Come evidenziano ormai numerosi studi
(fra i più completi quello di Ishac Diwan, funzionario della Banca mondiale e
insegnante a Harvard), dalla fine degli anni 70 in poi i salari reali (cioè
corretti per l’inflazione) sono fermi. Lo stesso non è accaduto alla
produttività, che si è mantenuta sul trend di crescita dell’ultimo secolo e
mezzo (circa il 3% all’anno). Da quarant’anni a questa parte, lavoratori che
ogni anno producono di più (a causa del progresso tecnologico e della migliore
formazione) ricevono lo stesso potere d’acquisto. Mentre il prodotto aumentava,
ai salari andava una fetta progressivamente minore. Dato che i salari, di
norma, sono la retribuzione dei meno ricchi, questo significa che i poveri sono
diventati più poveri, e i ricchi più ricchi. Già negli anni ’80 Augusto
Graziani faceva notare come in queste condizioni fosse giocoforza finanziare la
domanda di beni e servizi con debito, in particolare pubblico. Un debito del
quale gli imprenditori già allora si lamentavano, ipocritamente (sosteneva
Graziani), perché senza la liquidità immessa nell’economia dallo Stato con la
spesa in deficit, il sistema sarebbe collassato. Negli Anni ’90, poi, la
progressiva liberalizzazione dei mercati ha permesso agli sconfitti del
conflitto distributivo di finanziarsi sempre più facilmente presso le
istituzioni finanziarie private: mentre il debito pubblico veniva derubricato a
fonte di ogni male, quello privato era acclamato come “innovazione
finanziaria”, e i cartelli pubblicitari ci esortavano “prendi oggi e paga fra
un anno”! Il capitalismo finanziario è quello in cui il cliente, per essere tale,
deve diventare debitore: ma questa montagna di debito privato, purtroppo, è
intrinsecamente soggetta a periodiche frane. Cristiano Perugini e i suoi
coautori hanno confermato nel 2015 sul Cambridge Journal of Economics il nesso
fra disuguaglianza e crisi finanziarie. D’altra parte, siccome “i sacrifici
vanno fatti fare a chi ci è abituato” (…), se la disuguaglianza porta alle
crisi finanziarie, queste portano a ulteriore disuguaglianza.
Lo studio di
Diwan mostra come ovunque nel mondo le crisi vengano gestite col “Fate presto!”
di infame memoria (ricordate le riforme di Monti e Fornero?): il tentativo del
capitale di appropriarsi di una fetta ancora più grande di una torta sempre più
piccola, giustificando questo esproprio con la retorica dell’emergenza. Nelle
crisi dei ricchi solo i poveri piangono: lo confermano anche Davide Furceri e
Prakash Loungani del Fmi, notando come la liberalizzazione finanziaria, che in
teoria avrebbe dovuto portare a una condivisione del rischio fra risparmiatori
di più paesi, in pratica si è tradotta in un sistema dove il rischio è
assorbito dai più poveri. Un rischio, si noti, al quale non è associato né un
particolare rendimento, né una particolare crescita, perché i debiti vengono
contratti non per effettuare investimenti produttivi, ma perché incitati da un
sistema bancario saturo di liquidità (come nel caso dei mutui subprime
americani). L’equilibrio è quindi instabile: più disuguaglianza implica più
crisi che implicano più disuguaglianza, in un contesto di stasi dei salari e di
bonus milionari al management, mentre l’accresciuta disuguaglianza frena la
crescita perché convoglia minor reddito verso le classi meno abbienti, quelle
che avrebbero una maggiore propensione a spenderlo, riattivando l’economia. La
risposta alle domande di Scacciavillani porta quindi con sé un’altra domanda,
quella cruciale: cosa ha causato la vera stagnazione secolare, quella dei
salari? (…).
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