Da “Una
trappola contro i poveri” di Raoul Kirchmayr, pubblicato sul settimanale l’Espresso
del 30 di aprile 2017: La discussione pubblica vede da qual che
tempo circolare un’espressione che compare con maggiore frequenza che in
passato, anche in virtù di un dibattito politico in corso. L’espressione è “reddito
di cittadinanza”. Ne sentii parlare per la prima volta una ventina d’anni fa, a
Bruxelles, dove conobbi il filosofo Jean-Marc Ferry, che aveva dato alle stampe
un volumetto dedicato appunto alla “allocation universelle”. (…). Il reddito di
cittadinanza mi parve un interessante concetto-limite con cui si poteva mettere
alla prova l’effettiva capacità d’inclusione della democrazia: il nesso tra la
cittadinanza e una base economica garantita mi sembrava una forma di protezione
sociale capace di mettere al riparo dalle incertezze di quella che, di lì a
poco, sarebbe stata chiamata “società del rischio”. Ciò che mi sfuggiva era il
nesso tra l’orientamento liberaldemocratico di Ferry, allievo di Habermas, e il
contesto storico-politico più ampio in cui quelle tesi cominciavano a essere
proposte. Non lo sapevo, ma Ferry non aveva presentato nulla di particolarmente
nuovo né tantomeno di rivoluzionario. Semplicemente, aveva un po’ anticipato i
tempi rispetto ai processi già avviati di riconfigurazione dello spazio
economico e politico europeo. Infatti, quando in quegli anni si discuteva di
reddito di cittadinanza, nessun accenno veniva ancora fatto alla povertà. Al
contrario, la prospettiva assunta era quella delle eguali condizioni di
partenza per ciascuno (ecco, dunque come veniva intesa l’idea di inclusione
democratica, cioè nella forma delle pari opportunità). Di povertà non si
parlava semplicemente perché la correlazione non era posta. L’idea del reddito
appariva dunque come progressista, democratica ed inclusiva. Presentava un
unico limite pratico, seppure sostanziale, che la relegava nel territorio
dell’utopia politica, soprattutto in anni di dichiarata vocazione pragmatica
del discorso politico: gli alti costi di realizzazione. A parità di welfare, le
risorse economiche pubbliche non sarebbero state sufficienti per coprire le
esigenze di tutti, si diceva. Ecco perché pareva esserci un salto incolmabile
tra l’elaborazione teorica e la sua concretizzazione. Insomma, l’idea poteva
anche essere condivisibile ma la sua realizzazione avrebbe richiesto delle
risorse che non erano nella disponibilità degli stati. Oggi possiamo
riconoscere che omettere il nesso con la povertà non era stata un’operazione
casuale.
Una delle scoperte più importanti compiute dalle scienze
dell’informazione e dalla teoria della comunicazione del Novecento è consistita
nel riconoscere la decisiva funzione che ha la cornice (frame) nella produzione
del senso. Non c’è senso senza cornice, poiché quest’ultima permette di
collocare una proposizione all’interno del contesto in cui è prodotta. Per
converso, una delle tecniche impiegate per impedire che si possa cogliere una
correlazione significativa sotto il profilo cognitivo consiste nel tenere fuori
dal frame di riferimento uno o più elementi che, se inclusi, potrebbero mutare
il senso del discorso. Nel nostro caso, il nesso che non figurava nei discorsi
- e dunque non poteva avere senso - era quello tra il reddito di cittadinanza e
la povertà. Questo nesso è cominciato a comparire dopo la crisi del 2008. Se
invece si fa comparire nel discorso il termine della povertà, il senso del
reddito di cittadinanza muta: non si rivela più tanto un progetto d’inclusione
(dunque un provvedimento di ampliamento dei diritti democratici materiali)
quanto un intervento-tampone per limitare la sofferenza dei ceti più attaccati
dalla crisi. Ecco perché la crisi ha comportato uno spostamento d’asse
interessante nella produzione discorsiva pubblica in merito al reddito di
cittadinanza, attribuendogli un carattere non più utopico, ma addirittura
facendolo entrare, da qualche anno a questa parte e con denominazioni diverse,
nell’agenda politica nazionale di movimenti e partiti. Ricostituendo il nesso
povertà-reddito di cittadinanza, quale operazione è stata condotta? In primo
luogo, per farlo diventare significativo occorre metterne in ombra un altro,
cioè quello relativo al rapporto tra democrazia e lavoro, che innerva il
dettato della nostra Costituzione. In breve, il reddito di cittadinanza diventa
il sostituto “cosmetico” del diritto al lavoro. In secondo luogo, si afferma
che, stanti i vincoli di spesa pubblica, il reddito di cittadinanza non può
essere introdotto se non come provvedimento d’emergenza, e dunque temporaneo. Per
evitare che gli individui lo percepiscano come un diritto universale, quindi
svincolato dalla contingenza del momento - leggi: la congiuntura economica -
devono essere disciplinati attraverso un discorso di natura morale che si
concreta in un obbligo al lavoro sottoretribuito. Il senso di questa
incorniciatura è chiaro: al povero, che è tale perché escluso dal mercato del
lavoro, può essere riconosciuto un diritto a reddito sussidiato solo se si
piega a quella logica economica che ha fatto di lui ciò che è, cioè un povero.
In questo circolo vizioso, il sostegno pubblico viene vincolato a una pedagogia
moralizzatrice, alimentata dalla circolazione a senso unico di opinioni che
consolidano, nella percezione collettiva, l’idea secondo la quale la povertà è
una colpa. La natura progressiva e democratica del reddito di cittadinanza si
rivela così un tragico equivoco. Costituendo una formidabile accoppiata con la
tanto desiderata “meritocrazia”, questa ideologia della povertà instilla il
falso convincimento che le diseguaglianze economiche e sociali siano qualcosa
di naturale. La conseguenza è che coloro che si sono trovati in stato di
povertà (i cosiddetti “neo-poveri”) siano spinti a seguire il flusso mainstream
delle opinioni, e inizino così a chiedere meno tasse, meno spesa pubblica, meno
Welfare, meno controlli su imprese e capitali (leggi i “lacci e lacciuoli”
visti sempre come negativi e dunque da levare), meno diritti per i lavoratori. La
povertà trova così un suo temibile supplemento psicologico consistente
nell’aver interiorizzato il discorso del neoliberismo, confermato nella sua
valenza morale e nella sua istanza pedagogica. L’espressione “reddito di
cittadinanza” non è che l’ultimo anello aggiuntosi al dominante discorso del
“meno”.
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