Da “Sentimenti
liquidi in tempi duri” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D”
del 24 di gennaio dell’anno 2015: (...). Bauman definisce "liquida" la nostra società perché
sono venuti meno i punti di riferimento fondamentali che le davano forma e
struttura, e al loro posto è subentrata una totale libertà dell'individuo che
può scegliere il proprio stile di vita a prescindere da usi, costumi e
tradizioni, fino al nuovo modo di intendere la libertà come possibilità di
revocare tutte le scelte, e di non attenersi ai valori alla base delle società
tradizionali antecedenti alla globalizzazione. Quello che dice Bauman è vero
solo perché il sociologo polacco "constata", senza chiedersi le
ragioni di ciò che constata. Ebbene a mio parere la nostra società s'è fatta
"liquida" perché, senza che nessuno se ne accorgesse, una massiccia
colata di cemento ha imbrigliato tutta l'acqua in una diga, disseccando il
letto del fiume in cui l'acqua scorreva. Questa colata di cemento si chiama
"razionalità tecnica" che prevede si compiano solo azioni capaci di
raggiungere lo scopo con l'impiego minimo dei mezzi. Tutto ciò che fuoriesce da
questo tipo di razionalità è considerato superfluo, insignificante,
improduttivo, inutile quando non fattore di intralcio, e quindi da contenere o,
meglio sarebbe, eliminare. Lo constata chiunque lavori in un apparato sia
pubblico che privato dove il mansionario fissa gli obiettivi, e ogni anno si
alza l'asticella per raggiungere, come si diceva, il massimo dei risultati con
l'impiego minimo dei tempi e dei mezzi. Regolati dalla razionalità tecnica, il
nostro riconoscimento non è più affidato al nostro nome, ma alla nostra
funzione, e la misura ci è data dall'avanzamento in carriera da cui dipende la
stima che gli altri, ma soprattutto noi stessi finiamo per avere di noi. Il
riconoscimento dell'apparato è il fondamento della nostra identità e anche
della nostra libertà, che non è più una libertà personale, ma una libertà di
ruolo. Siamo tanto più liberi quanti più ruoli sappiamo rivestire nello
scenario lavorativo e produttivo che gli apparati hanno dispiegato per noi. La
morale tradizionale che regolava i costumi dei nostri padri e dei nostri nonni
non ha più ragione d'essere, perché è subentrata una regola ben più ferrea della
morale, la regola della razionalità tecnica che, a differenza della morale
tradizionale, non prevede il perdono per le deroghe e le trasgressioni, ma nel
caso del lavoro il licenziamento, la perdita del ruolo, e alla fine
l'emarginazione sociale. La chiamiamo "liquida", questa società dove
ciascuno all'apparenza fa quel che "vuole", quando per cinque giorni
alla settimana fa rigorosamente quel che "deve" e nei giorni festivi
quel che "può"? La razionalità tecnica, che impone uno stile
efficiente, produttivo, utilitaristico, ottimizzante nei suoi risultati,
confligge radicalmente col mondo della vita che si nutre di azioni
all'apparenza inutili ma gratificanti, al limite del superfluo ma ricche di
godimento, sovrabbondanti nell'effusione del linguaggio, come accade nell'amore
dove la razionalità tecnica si limiterebbe a dire "ti amo" e poi più
nulla perché il resto sarebbe pura enfasi. E così, impoveriti nel linguaggio
sempre più funzionale, nei gesti sempre più finalizzati, nelle emozioni da
contenere come fattori di disturbo, nei sentimenti resi atrofici perché
disturbano i processi razionali, dobbiamo dirci "liquidi" o, come
diceva Max Weber già all'inizio del secolo scorso, imprigionati in una
"gabbia d'acciaio", dove i giovani non a caso recalcitrano a entrare?
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