Disse: “la generazione nuova che abita oggi
l’Europa”. E Poletti allora? Disse pure: “Is e veri gud italian”. Ma
si riferiva ad Antonio Meucci, mica a Poletti. Che resta, purtroppo per noi
tutti, ministro. Furbo lui! Da “La pro
loco Renzi e l’Ulisse tour” di Daniela Ranieri, su “il Fatto Quotidiano”
del 14 di gennaio dell’anno 2015: Mi sa che gli spin doctor che lavorano alla
costruzione del mito “Renzi grande comunicatore” stanno cercando di superare i
record stabiliti da quell’altro, il premier tycoon delle tv guardato con
imbarazzata pietà da tutto il mondo ogni volta che apriva bocca. Altrimenti
perché consigliargli, o non sconsigliarlo, di chiudere il suo gassoso semestre
di presidenza europea con un’altra metafora, dopo quella già imbarazzante con
cui l’aveva aperto? Forse la scommessa del semestre italiano è stata persa
perché “la generazione nuova che abita oggi l’Europa” non si è “riscoperta Telemaco”,
non si è fatta erede, prendendo “la tradizione da cui veniamo e darla ai nostri
figli”, come disse nel suo intrepido discorso d’esordio? Sarà per quello. “Ho imparato
cosa fosse l’Europa nello studiare la storia della mia città”, ha detto rivolto
a un’aula semivuota, “e nella mia città c’è un grande personaggio che quando
mette in bocca una piccola orazione a Ulisse fa un riferimento che trovo
estremamente efficace oggi”. Il grande personaggio è Dante, e la piccola
orazione è quella di Ulisse nell’Inferno che Renzi recita a memoria: “Fatti non
foste a viver come bruti, ma per seguir virtute, cioè virtù, e conoscenza”. A parte
che Dante dice “canoscenza”, l’impressione , per noi “che seguiamo da casa” e
che siamo il target privilegiato di Renzi, è di estremo imbarazzo. Il risultato
è quello di un premier provinciale, saccentone e pittoresco, un ibrido tra il
già citato B. e Balotelli, icona di una italianità un po’ spaccona e molto
cialtrona che va forte all’estero.
Invece di fare una seria autocritica dell’assoluta inconsistenza della sua “avventura” europea, Matteo ha fatto la figura del piccolo borghese tutto intriso di pseudo-cultura, che riceve i parenti americani tirando fuori i gioielli di famiglia. Esattamente come quando al Digital Venice citò Antonio Meucci (“Is e veri gud italian”), con l’agonismo un po’ patetico dell’italiano che nelle barzellette scopre che il telefono non l’ha inventato Bell. Ogni volta si trovi a parlare in consessi internazionali, Renzi si sente chiamato a impersonare l’italiano un po’ poeta un po’ navigatore, e davanti agli occhi perplessi dei presenti apre la bancarella dei souvenir nostrani – il grande genio, il grande poeta, il grande inventore. Così il teatrino è allestito: sul palco lui, Burchiello, poeta fiorentino di burle e scherzi, in platea i grigi tecnocrati di Bruxelles che non possono che basire di fronte all’italico ingegno, e in piccionaia la plebe sporca e incolta dei leghisti (“Lo so, è difficile leggere più di due libri per alcuni di voi”), demagoghi anti-europeisti privi di euro-ideali. Siccome “l’Italia non ne può più di andare in Europa e sentirsi fare la lezione da solerti tecnici e oscuri funzionari”, la lezione la fa lui, all’Europa, e non con gli strumenti che avrebbe avuto a disposizione in quanto presidente pro-tempore, ma con quelli del metodo Montessori. Ha tirato fuori il padre di Telemaco (per coerenza con i suoi fumi retorici) imbastendo un discorso da capo-scout e non da leader europeo, e come suo solito ha trovato gli accenti forti nella polemica contro gli avversari politici del renzismo, mai nella visione che secondo lui avrebbe consentito all’Europa “di non essere solo un puntino su Google Maps”. Non che ci si aspettasse un’analisi credibile su quanto il suo impegno si sia rivelato inadeguato su tutti i fronti da lui stesso aperti con altrettale retorica – agenda digitale, immigrazione, per non parlare dell’economia – troppo occupato com’era a inturgidire il suo consenso in patria e a fare regali ai frodatori fiscali la notte di Natale. Ma possibile creda che tutti, europei e italiani non renziani, siano incapaci di intendere che la fissazione di “narrare”, di intortare, prima o poi si rivela nella sua natura di provocatoria nullità? In questa parabola della cultura da promozione turistica, da pro loco dei circuiti della classicità da Omero a Dante, si è chiusa degnamente un’occasione mancata, valevole solo come esperimento. La metafora liceale è infatti servita a tenere in piedi il “racconto” che le cosiddette riforme costituzionali italiane fossero un biglietto da visita e una dichiarazione di responsabilità di fronte all’Europa, mentre era vero esattamente il contrario. Renzi non ha usato le riforme (abolizione del Senato, Jobs Act, soppressione dell’art.18) per accreditarsi in Europa, ma ha usato l’Europa per far passare le riforme. E ora questa Europa-zuccherino con cui ci ha indorato il bolo ci torna su con un piccolo borborigmo di indifferenza.
Invece di fare una seria autocritica dell’assoluta inconsistenza della sua “avventura” europea, Matteo ha fatto la figura del piccolo borghese tutto intriso di pseudo-cultura, che riceve i parenti americani tirando fuori i gioielli di famiglia. Esattamente come quando al Digital Venice citò Antonio Meucci (“Is e veri gud italian”), con l’agonismo un po’ patetico dell’italiano che nelle barzellette scopre che il telefono non l’ha inventato Bell. Ogni volta si trovi a parlare in consessi internazionali, Renzi si sente chiamato a impersonare l’italiano un po’ poeta un po’ navigatore, e davanti agli occhi perplessi dei presenti apre la bancarella dei souvenir nostrani – il grande genio, il grande poeta, il grande inventore. Così il teatrino è allestito: sul palco lui, Burchiello, poeta fiorentino di burle e scherzi, in platea i grigi tecnocrati di Bruxelles che non possono che basire di fronte all’italico ingegno, e in piccionaia la plebe sporca e incolta dei leghisti (“Lo so, è difficile leggere più di due libri per alcuni di voi”), demagoghi anti-europeisti privi di euro-ideali. Siccome “l’Italia non ne può più di andare in Europa e sentirsi fare la lezione da solerti tecnici e oscuri funzionari”, la lezione la fa lui, all’Europa, e non con gli strumenti che avrebbe avuto a disposizione in quanto presidente pro-tempore, ma con quelli del metodo Montessori. Ha tirato fuori il padre di Telemaco (per coerenza con i suoi fumi retorici) imbastendo un discorso da capo-scout e non da leader europeo, e come suo solito ha trovato gli accenti forti nella polemica contro gli avversari politici del renzismo, mai nella visione che secondo lui avrebbe consentito all’Europa “di non essere solo un puntino su Google Maps”. Non che ci si aspettasse un’analisi credibile su quanto il suo impegno si sia rivelato inadeguato su tutti i fronti da lui stesso aperti con altrettale retorica – agenda digitale, immigrazione, per non parlare dell’economia – troppo occupato com’era a inturgidire il suo consenso in patria e a fare regali ai frodatori fiscali la notte di Natale. Ma possibile creda che tutti, europei e italiani non renziani, siano incapaci di intendere che la fissazione di “narrare”, di intortare, prima o poi si rivela nella sua natura di provocatoria nullità? In questa parabola della cultura da promozione turistica, da pro loco dei circuiti della classicità da Omero a Dante, si è chiusa degnamente un’occasione mancata, valevole solo come esperimento. La metafora liceale è infatti servita a tenere in piedi il “racconto” che le cosiddette riforme costituzionali italiane fossero un biglietto da visita e una dichiarazione di responsabilità di fronte all’Europa, mentre era vero esattamente il contrario. Renzi non ha usato le riforme (abolizione del Senato, Jobs Act, soppressione dell’art.18) per accreditarsi in Europa, ma ha usato l’Europa per far passare le riforme. E ora questa Europa-zuccherino con cui ci ha indorato il bolo ci torna su con un piccolo borborigmo di indifferenza.
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