Da “La volta
buona di Jep” di Alessandro De Nicola, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 23 di gennaio dell’anno 2015: Solo chi è dotato di memoria
formidabile ed ha almeno qualche capello grigio può ricordarsi cosa fosse la
Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali, da tutti chiamata Gepi,
finanziaria pubblica creata nel 1971, con capitale posseduto al 50% dalla banca
pubblica Imi e per il resto suddiviso in parti uguali tra Eni, Iri ed Efim
(altro moloch statale ora scomparso). All'epoca, quella che oggi verrebbe
chiamata la mission di Gepi era di investire in imprese private in difficoltà,
ristrutturarle e poi uscire dal capitale. Nel 1980 si pensò di affidare
un'altra mission alla finanziaria, vale a dire accogliere i dipendenti in
esubero delle grandi società private e o riassegnarli ad altri compiti
produttivi o farli vivacchiare in cassa integrazione. Il numero totale di
cassintegrati Gepi arrivò a 33 mila, per dare un'idea. Cambiamo era geologica e
passiamo al nostro tempo de #lavoltabuona. Il decreto legge del 21 gennaio
("Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti") prevede
all'articolo 7 l'istituzione di una "società di servizio per la
patrimonializzazione e la ristrutturazione delle imprese" che dovrebbe
intraprendere iniziative a favore delle aziende italiane che, nonostante
"temporanei squilibri patrimoniali o finanziari, siano caratterizzate da
adeguate prospettive industriali e di mercato" (valutate in base a
parametri che il decreto, ahimè, non specifica) e necessitino di soldi.
Insomma, una Gepi rediviva che, in onore alla modernità, potremmo chiamare Jep,
come l'annoiato e fascinoso intellettuale Gambardella, protagonista de "La
Grande Bellezza". Ebbene, Jep è semplicemente "promossa" (come,
non si sa) dal governo che dovrebbe incoraggiare investitori istituzionali a
patrimonializzarla. Jep può fare tutto: affitti di azienda, operazioni di
finanziamento, investimento di capitale proprio, emettere azioni di diversa
categoria (ossia con diritti differenziati) o strumenti finanziari banali
(obbligazioni) o esotici. Ma come attrarre questi benedetti investitori? In
effetti, se l'operazione di ristrutturazione di una società in difficoltà fosse
conveniente, gli operatori di mercato farebbero la fila per entrare
nell'affare, no? Quindi, se bisogna incoraggiarli, vuol dire che gli
investimenti che ha in mente il legislatore qualche rischio in più lo fanno
correre nonostante le "adeguate prospettive". E allora, ecco qui la
clausola per la quale "alcune categorie di investitori" (non si sa
quali, forse quelli pubblici come la Cdp) "possono avvalersi della
garanzia dello Stato" nei limiti di un fondo che per il 2015 è fissato a
300 milioni di euro. Chi si avvale della garanzia riconoscerà però parte degli
utili allo Stato. Ohibò, e per gli azionisti di Jep senza garanzia?
Comanderanno di più in assemblea perché le loro azioni avranno diritti speciali
di voto. E per i concorrenti di Jep che sarebbero stati interessati
all'investimento ma, sprovvisti di garanzia statale, avrebbero riconosciuto
meno soldi ai soci dell'impresa in difficoltà per comprare le loro azioni?
Si vedranno soffiare l'opportunità da Jep e, se stranieri, magari decideranno che la Germania o il Vietnam sono lidi più sicuri, oppure si faranno una passeggiata a Bruxelles per denunciare gli aiuti di Stato. Pensando di essere moderno il legislatore ha poi inserito questo bel principio: chi gestisce Jep opererà in situazione di "completa neutralità, imparzialità, indipendenza e terzietà rispetto agli investitori". Se si voleva dire che gli amministratori devono avere di mira l'aumento di valore della società (lo shareholder value direbbero i moderni), allora si tratta di un obbligo già presente nel diritto societario e quindi inutiliter datum ( direbbero gli antichi). Se invece significa che gli investitori, dopo aver versato decine o centinaia di milioni di euro, non possono nemmeno scegliersi i manager e devono passivamente aspettare i risultati come un sottoscrittore di un fondo aperto qualunque, allora il legislatore dimostra una gran dose di ottimismo. Anche perché i maggiori "diritti di governance" concessi agli azionisti privi di garanzia, obbiettivamente perdono un po' di valore. Va bene, ma prima o poi queste partecipazioni nelle aziende in difficoltà verranno vendute: si tratta di un investimento temporaneo, vero? Temporaneo mica tanto, perché il termine massimo sarà stabilito nello statuto di Jep. Considerando che nelle versioni precedenti del decreto si parlava di un massimo di 10 anni (purtroppo il governo Renzi ha la simpatica abitudine di fare comunicati stampa ma non di pubblicare testi ufficiali), che evidentemente son sembrati pochi, si conferma il detto che in Italia nulla è più permanente di ciò che è provvisorio. Ci siamo dimenticati qualcosa? Ah sì! La benefica attività della Gepi, in 25 anni, dal 1971 al 1996, ha causato perdite allo Stato per una cifra superiore a 10 miliardi di euro attualizzati ad oggi, dirottando queste enormi somme da quelli che avrebbero potuto essere investimenti produttivi da parte dei privati a carrozzoni decotti come la mitica camiceria Marvi Gelber che da sola è costata al contribuente italiano 1,6 miliardi. Ma oggi è diverso, anzi è #lavoltabuona. Auguri a Jep, dunque, e, visto che ci siamo, a tutti noi.
Si vedranno soffiare l'opportunità da Jep e, se stranieri, magari decideranno che la Germania o il Vietnam sono lidi più sicuri, oppure si faranno una passeggiata a Bruxelles per denunciare gli aiuti di Stato. Pensando di essere moderno il legislatore ha poi inserito questo bel principio: chi gestisce Jep opererà in situazione di "completa neutralità, imparzialità, indipendenza e terzietà rispetto agli investitori". Se si voleva dire che gli amministratori devono avere di mira l'aumento di valore della società (lo shareholder value direbbero i moderni), allora si tratta di un obbligo già presente nel diritto societario e quindi inutiliter datum ( direbbero gli antichi). Se invece significa che gli investitori, dopo aver versato decine o centinaia di milioni di euro, non possono nemmeno scegliersi i manager e devono passivamente aspettare i risultati come un sottoscrittore di un fondo aperto qualunque, allora il legislatore dimostra una gran dose di ottimismo. Anche perché i maggiori "diritti di governance" concessi agli azionisti privi di garanzia, obbiettivamente perdono un po' di valore. Va bene, ma prima o poi queste partecipazioni nelle aziende in difficoltà verranno vendute: si tratta di un investimento temporaneo, vero? Temporaneo mica tanto, perché il termine massimo sarà stabilito nello statuto di Jep. Considerando che nelle versioni precedenti del decreto si parlava di un massimo di 10 anni (purtroppo il governo Renzi ha la simpatica abitudine di fare comunicati stampa ma non di pubblicare testi ufficiali), che evidentemente son sembrati pochi, si conferma il detto che in Italia nulla è più permanente di ciò che è provvisorio. Ci siamo dimenticati qualcosa? Ah sì! La benefica attività della Gepi, in 25 anni, dal 1971 al 1996, ha causato perdite allo Stato per una cifra superiore a 10 miliardi di euro attualizzati ad oggi, dirottando queste enormi somme da quelli che avrebbero potuto essere investimenti produttivi da parte dei privati a carrozzoni decotti come la mitica camiceria Marvi Gelber che da sola è costata al contribuente italiano 1,6 miliardi. Ma oggi è diverso, anzi è #lavoltabuona. Auguri a Jep, dunque, e, visto che ci siamo, a tutti noi.
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