“(…). Un maestro ti aiuta a
conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in quello che
fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I grandi
maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e inattuali,
non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano,
non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma
invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. (…)”.
Tratto da “ Essere insegnanti, divenire
maestri” di Raniero Regni su “ School in Europe”.
Da “L’arte del giudizio” di Franco Marcoaldi, intervista al professor Carlo
Ossola - filologo e critico letterario,
professore presso il Collège de France di Parigi - pubblicata sul quotidiano la
Repubblica del 3 di gennaio dell’anno 2013:
(…). Professore, partirei da un’annotazione di carattere linguistico. Giudicare, in questo nostro caso, non significa emettere una sentenza. Il vocabolario del giudizio qui si apre piuttosto alla critica: il giudice si fa critico, esercita la facoltà di separare, scegliere, decidere.
«Aggiungerei un ulteriore elemento, che non si dà in altri settori in cui pure si esercitano il giudizio e la critica. In un’aula scolastica, l’insegnante non ha di fronte un libro chiuso, o un fatto compiuto e irrevocabile, ma un essere vivente in continua evoluzione. Quindi, prima ancora che emettere una valutazione, qui si tratta, socraticamente, di riuscire a far emergere le motivazioni dello studente, le ragioni per le quali sta seguendo un percorso. Il maestro è lì per individuare assieme allo studente i tanti crocevia, per aiutarlo a spianare la strada senza che si perda in inutili viottoli laterali. È un lavoro comune, insomma. Ed è giusto per questo che in quarant’anni di insegnamento ho sempre preferito la prova orale all’esame scritto. Perché non si tratta di perseguire un sistema oggettivo di incasellamento, ma di far emergere una personalità attraverso il dialogo».
(…). Professore, partirei da un’annotazione di carattere linguistico. Giudicare, in questo nostro caso, non significa emettere una sentenza. Il vocabolario del giudizio qui si apre piuttosto alla critica: il giudice si fa critico, esercita la facoltà di separare, scegliere, decidere.
«Aggiungerei un ulteriore elemento, che non si dà in altri settori in cui pure si esercitano il giudizio e la critica. In un’aula scolastica, l’insegnante non ha di fronte un libro chiuso, o un fatto compiuto e irrevocabile, ma un essere vivente in continua evoluzione. Quindi, prima ancora che emettere una valutazione, qui si tratta, socraticamente, di riuscire a far emergere le motivazioni dello studente, le ragioni per le quali sta seguendo un percorso. Il maestro è lì per individuare assieme allo studente i tanti crocevia, per aiutarlo a spianare la strada senza che si perda in inutili viottoli laterali. È un lavoro comune, insomma. Ed è giusto per questo che in quarant’anni di insegnamento ho sempre preferito la prova orale all’esame scritto. Perché non si tratta di perseguire un sistema oggettivo di incasellamento, ma di far emergere una personalità attraverso il dialogo».
Il maestro dovrebbe accendere una
passione, risvegliare una mente. «Per dirla con George Steiner: “Nessuna
passione è spenta”. Se il corso universitario è stato ben condotto, se le
proposte di lettura sono state interessanti, lo studente avrà avuto accesso a
un ampio ventaglio di opzioni. E avrà potuto trasformare il probabile in
possibile. Per me l’esame finale rappresenta esattamente questo: trasformare un
probabile in possibile. Perché nella foresta dei testi, lo studente trovi il
proprio itinerario».
Nei miei ricordi scolastici, il principale obiettivo era, al contrario, quello di ripetere ciò che aveva detto l’insegnante. «Più l’insegnante è bravo, meno si presenta questo rischio. Il mio professore di greco del liceo diceva: primo, esaminare; secondo, sceverare; terzo, soltanto terzo, decidere. E badi bene, era uno che veniva dalla guerra partigiana. Ancora oggi quei tre verbi in successione rappresentano la mia bussola di orientamento nel rapporto docente-discente. Mettendo al primo posto l’obbligo dell’analisi, “provando e riprovando”, dimostro sì di essere esigente nei confronti dell’allievo, ma metto in questione anche me stesso. Perché sono disponibile ad accogliere tutte le sue domande e tutte le sue contestazioni. Nel senso più bello del termine: “Chiamati a testimoniare con”, come dice Michel de Certeau. Se io riesco a chiamare lo studente a testimoniare attraverso la propria voce, vuol dire che il soggetto di cui gli sto parlando sta diventando effettivamente suo. Non conosco modo migliore per recuperare la perduta autorità dell’insegnante».
Nei miei ricordi scolastici, il principale obiettivo era, al contrario, quello di ripetere ciò che aveva detto l’insegnante. «Più l’insegnante è bravo, meno si presenta questo rischio. Il mio professore di greco del liceo diceva: primo, esaminare; secondo, sceverare; terzo, soltanto terzo, decidere. E badi bene, era uno che veniva dalla guerra partigiana. Ancora oggi quei tre verbi in successione rappresentano la mia bussola di orientamento nel rapporto docente-discente. Mettendo al primo posto l’obbligo dell’analisi, “provando e riprovando”, dimostro sì di essere esigente nei confronti dell’allievo, ma metto in questione anche me stesso. Perché sono disponibile ad accogliere tutte le sue domande e tutte le sue contestazioni. Nel senso più bello del termine: “Chiamati a testimoniare con”, come dice Michel de Certeau. Se io riesco a chiamare lo studente a testimoniare attraverso la propria voce, vuol dire che il soggetto di cui gli sto parlando sta diventando effettivamente suo. Non conosco modo migliore per recuperare la perduta autorità dell’insegnante».
Un insegnamento fondato
sull’interrogazione e sul dubbio dovrebbe essere il miglior antidoto al
dogmatismo. «Quando ero studente universitario, seguivo i corsi di Raoul
Manselli, storico del Medio Evo, che amava ripetere: ricordatevi che l’eresia
rappresenta sovente la parte sconfitta della verità. Un’affermazione, per me,
decisiva: si tratta non solo di sceverare il vero dal falso, ma di capire
perché - nella storia - una certa posizione abbia vinto e un’altra perso. Non
si deve offrire allo studente un blocco organico di verità, ma piuttosto lo si
guida a procedere nel modo indicato da Einstein: siamo noi stessi parte del
problema che stiamo affrontando. E nel trattarlo, ne usciamo modificati. Grazie
anche alle risposte dello studente a cui ci rivolgiamo».
Il guaio è che secondo
alcuni si è rotta la cinghia di trasmissione del sapere. E quanto interessava
ai padri non interessa più ai figli. Su questo giornale ne ha scritto
in modo dolente e puntuale lo scrittore e insegnante Marco Lodoli. «Mi ricordo
bene quell’articolo: un’analisi, dal punto di vista fattuale, difficilmente
contestabile. Mi permetta tuttavia di parafrasare quel sonetto di Michelangelo
che suggerisce: “Val meglio un lumino nella notte che una fiaccola di giorno”.
Ecco, è da lì che bisogna ripartire. Siamo cresciuti in un contesto innestato
sulla cultura umanistica: basti pensare al ruolo pubblico rivestito da figure
come De Sanctis, Gobetti, Gramsci. E dagli stessi padri costituenti. Tutto
questo oggi non c’è più. Ma perduta la sua centralità catalizzatrice, la
cultura umanistica deve comunque rivendicare la sua funzione critica. A maggior
ragione in una realtà sempre più segnata da scienze applicative e tecnologiche;
una realtà in cui il problema principale sembra essere quello di allargare con
nuove corsie le autostrade informatiche, mentre non si verifica se i Tir che vi
sfrecciano sono pieni di contenuti, di versioni di mondi possibili, o vuoti o
ingombri solo del loro “rumore”».
Ma come riuscire a farlo, se è
vero, per dirla ancora con Steiner, che viviamo nella civiltà del “dopo-parola”?
«Bisogna partire dalle nostre specifiche responsabilità. Nel percorso
scolastico siamo passati da una cultura del debito, fondata sull’idea che siamo
sempre inadempienti rispetto al compito che ci eravamo dati, a una cultura del
credito: i ragazzi acquistano crediti e noi li eroghiamo. Peccato che si tratti
di crediti ipotetici, fittizi, che non vengono mai riscossi, finendo per
alimentare nello studente un senso di frustrazione, di inganno, di irrealtà. La
scuola in generale, e l’università in particolare, non è stata abbastanza
severa con se stessa. Non esigente con sé e con gli studenti, ha indotto un
lassismo di cui ora paga le conseguenze. L’orizzonte dell’insegnamento
universitario è rimasto schiacciato sul presente, limitandosi a offrire descrizioni,
comunicazioni, piuttosto che a porre domande di fondo. Quando invece sarebbe
più che mai necessario pronunciare parole che si protendano “a nord del
futuro”, come diceva Paul Celan. Perché non basta descrivere il mondo, bisogna
anche saperlo varcare. Secondo elemento. Nella civiltà dei flussi, si corrono
gravi rischi di rottura del pack su cui riversiamo la piena del dire. Ma il
primo compito dell’insegnante non è proprio quello di circoscrivere la frase,
di studiare i passi, di ristabilire sintassi e gerarchie di senso? Oggi più che
mai c’è bisogno di limpidezza e sobrietà nella prosa, mentre troppo spesso,
anche all’interno dell’accademia, prevalgono inutili espressionismi e
compiacimenti di un dire senza oggetto».
L’altra grande e terribile novità
dei nostri tempi è la progressiva scomparsa dell’uso della memoria. Imparare a
memoria non è più un esercizio richiesto. «Ho iniziato la mia carriera a
Ginevra, quando era ancora vivissima l’eredità di Jean Piaget, che aveva molto
scommesso sui primi anni di vita, quelli dell’infanzia. Bisognerebbe strapagare
i maestri, diceva, perché è lì, all’asilo e durante la scuola elementare, che
si gioca l’essenziale della partita. Aveva ragione. Non esercitando la memoria,
buttiamo via un dono prezioso. Non è soltanto lacuna dell’oggi, legata
all’avvento del digitale: già nel ’68, sciaguratamente, si combatteva il
presupposto uso “autoritario” della memoria. Credo che oggi questa sia, in
assoluto, la sfida più importante dell’insegnamento: bisogna riattivare
quell’esercizio, arrestare l’irresistibile processo di delega mentale
rappresentato dal mondo delle risorse web. Come farlo? Scovando dei testi
talmente belli, talmente pieni di domande decisive, da costringere lo studente
a mandarli a memoria. In tal senso la poesia ha un grande compito, perché un
verso non lo si può storpiare. C’è una bella differenza tra il sentenziare:
“Stiamo come le foglie d’autunno sugli alberi” e l’indugiare sospeso “Si sta
come / d’autunno / sugli alberi le foglie”».
Professore, non è che stiamo un
po’ fantasticando? Sta franando tutto, e noi pensiamo che si possa ripartire da
un verso di Ungaretti? «Si ricorda Fahrenheit 451 di Bradbury- Truffaut? Noi
oggi siamo come quei rifugiati ai quali è stato dato il compito di ripetere il
verso appreso a memoria, uno per uno, in modo che la piccola comunità
sopravvissuta possa alla fine ricostruire per intero il poemetto andato
distrutto. Credo che sia proprio questa coscienza della fine, a darci la forza
per combattere la nostra battaglia. Certo, potremmo anche uscirne sconfitti. Ma
non bisogna mai negoziare troppo con il presente».
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