"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 21 gennaio 2017

Capitalismoedemocrazia. 59 “La lunga guerra tra capitale e lavoro”.



“(…). Ci è stato rimproverato, a noi comunisti, di voler sopprimere la proprietà faticosamente acquisita con il lavoro individuale; quella proprietà che si dice essere il fondamento di ogni libertà, attività e indipendenza delle persone. Proprietà personale, frutto del lavoro del singolo! Forse si parla della proprietà del piccolo borghese o di quella del piccolo contadino, forma di proprietà antecedente a quella borghese? Non siamo noi che dobbiamo abolirla, l’ha già abolita, o lo sta facendo, lo sviluppo dell’industria. Ovvero si parla della proprietà privata, della moderna proprietà borghese? Il lavoro salariato crea forse una proprietà per il proletariato? Assolutamente no. Esso crea il capitale, vale a dire la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può accrescersi se non a condizione di produrre nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo nuovamente. Nella sua forma attuale la proprietà si muove tra due poli antagonistici: capitale e lavoro salariato”. Così scriveva il “Moro” di Treviri nel Suo “Manifesto” al capitolo secondo che ha per titolo “Proletari e comunisti”. Si dirà: “cosa passata”, veterocomunismo, cose di altri tempi. A quel tempo, quel libello si proponeva la realizzazione di una “rivoluzione” antropologica epocale, stante l’attualità al tempo della divisione in classi che il moderno capitalismo finanziario non ha cancellato ma reso più tollerabile, inavvertita, leggera, soporifera, se non addirittura superata proclamando la fine delle “ideologie”. Ma dietro quel falso proclama il capitalismo ha continuato il suo “lavoro” di accumulo e di divisione sempre più feroce in classi con l’affermazione di una sua rivoluzione antropologica che nessun “manifesto” nel frattempo si è peritato di denunziare  con forza ed insistenza e che oggigiorno divide il mondo intero nell’1% che detiene la grossa fetta della ricchezza planetaria contro il 99% che vede arretrare pesantemente le sue condizioni sociali e materiali. Quel “Manifesto” del lontanissimo ’48 ritroverebbe il suo valore e la sua attualità se i suoi estensori potessero cambiarne i termini della questione non minacciando più l’abolizione della proprietà privata quanto invece riproporre una “rivoluzione” che inneggiasse alla equità economica affinché si realizzi una politica di ridistribuzione tra i tanti esclusi delle ricchezze del mondo. Più avanti il “Moro” di Treviri continuava a scrivere: “(…). Voi inorridite perché noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri. Ed esiste per voi, proprio perché essa non esiste per quei nove decimi. Ci rimproverate dunque di voler abolire una forma della proprietà che non può esistere, se non alla condizione di privare di qualsiasi proprietà l’immensa maggioranza della società. Insomma, ci accusate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: la nostra intenzione è proprio quella. (…)”.
Ecco il punto di un dato storico: il 10% di allora che si contrapponeva al 90% di diseredati; l’1% dell’oggi che espropria dal godimento delle ricchezze del pianeta il restante 99%. Un bel passo in avanti. Di questa “rivoluzione” antropologica, realizzata dal più recente capitalismo globalizzato, ne ha scritto Goffredo Fofi nel Suo volume, più volte citato, “La vocazione minoritaria” – Laterza editore (2009) € 12,00 – alle pagine 3 e 4 -: “Una delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguir ogni esempio. (…)”. Ne ha scritto, parlando per l’appunto di “rivoluzione antropologica che ha aggredito il senso di marcia della comunità”, Gianni Cuperlo sul quotidiano l’Unità del 10 di novembre dell’anno 2011 col titolo “Quella lunga guerra tra denaro e lavoro”. Di seguito trascrivo, in parte, l’interessante Sua analisi: (…). La rottura intervenuta coi crolli bancari del 2008 e la reazione rabbiosa che da lì si è generata – dalla primavera araba agli indignados passando per gli attendati di Occupy Wall Street – va intesa nella sua giusta dimensione che è quella di una frattura di civiltà. Uno di quei mutamenti d’epoca che spinge a rinnovare le forme della convivenza e della crescita comune. Dunque qualcosa che scavalca le più classiche risposte dei governi, sia nella versione della destra (mercatismo e dumping sociale), che della sinistra (spesa pubblica e tassazione progressiva) che della apparente neutralità della tecnocrazia (rigore dei conti e principio di austerity). Ciascuna di queste ricette conta su un bagaglio di teorie, ma nessuna si è mostrata in grado finora di aggredire al cuore la novità. Prendiamo uno dei capitoli fondamentali nella crisi. (…). Pensiamo, (…), a cosa ha prodotto un ventennio di flessibilità e bassi salari come requisito stabile di accesso alla vita adulta per qualche milione di persone. Per capirci, ragazze e ragazzi di vent’anni e che oggi ne hanno quaranta. Ciò che hanno conosciuto in prima persona è stata una perdita verticale e assolutamente inedita del valore sociale del lavoro. È chiaro, infatti, che se un lavoro ce l’hai, stabile o relativamente stabile, puoi fondare su quello l’assetto della tua esistenza (una laurea, un progetto di vita, un figlio) e un tratto della tua personalità. In quel caso il lavoro – il valore del lavoro – intreccia l’autonomia della persona, la condiziona e la relaziona con gli altri. Se però quel lavoro, stabile o relativamente stabile, scompare sostituito da un reddito incerto e intermittente, quale sarà il bene primario a cui la persona si rivolgerà? Molto semplicemente, il denaro. Nella scomparsa del lavoro come tratto dell’identità e nella sua riduzione a merce flessibile sempre meno retribuita e via via svuotata di diritti, si determina di fatto il primato del denaro inteso come la garanzia ultima della propria libertà e di una possibile legittimazione sociale. Su questo rovesciamento della gerarchia dove lo strumento (il denaro) ha soppiantato il valore (il lavoro) la destra ha fondato un impianto di politiche pubbliche e culturali. Non è stata solo una soluzione tecnica. È stata una rivoluzione antropologica, qualcosa che ha aggredito il senso di marcia della comunità. (…). Non è diversa la questione della diseguaglianza, a meno che non la si intenda come un mero scompenso tecnico, una variante laterale nel grande disegno della nuova economia-mondo e della sua cometa finanziaria. Ma anche in questo caso non è così. Quella diseguaglianza è stato il fondamento ideologico di una ristrutturazione profonda dell’ordine sociale. Ha condizionato le strategie di nazioni, governi e parlamenti. Ha spezzato reti di solidarietà e formato aggregati marginali (parliamo di popolazioni intere) destinati a pagare il prezzo massiccio della più radicale opera di ristrutturazione dell’economia e dei profitti dalla presa della Bastiglia. La paura degli altri, la lotta dei poveri contro i più poveri, la sfiducia verso le prospettive di riscatto collettivo, molla scatenante nei moti popolari dell’ultimo secolo, hanno cementato il patto di sangue tra la destra politica e il gotha di Wall Street. Non è solo che hanno guidato il mondo per un pezzo. È che lo hanno rimodellato seguendo la trama dei loro pensieri e utili. Hanno requisito i giacimenti naturali, in senso letterale (acque, sementi e terre), mortificato i beni comuni e impoverito il novantanove per cento della società perché, al fondo, era giusto comandasse l’un per cento più ricco e sfrontato. Fino a convincere milioni di persone a pensarla in modo diverso persino su di sé e sui propri bisogni. Un bel pasticcio capace di incrinare sino a dissolverla la vecchia alleanza tra il capitalismo, lo Stato e la democrazia che aveva piantato storicamente le sue radici in Europa e negli Stati Uniti. Ecco perché la crisi ha questa portata. Perché è crisi del compromesso su cui l’Occidente ha retto la sua lunga egemonia, culturale prima che politica. Ed è di questo che la politica prima o dopo dovrà rispondere. (…).

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