Ha scritto Federico Rampini in “Capitalismo predatore, ultima fermata” pubblicato sul settimanale “D”
del 3 di dicembre dell’anno 2016: (…). …ho avuto il privilegio di vivere per
otto anni nell'America di Obama. Oggi quest'America sembra alla retroguardia.
Con Trump non ha inventato nulla, ha importato ingredienti di un'insurrezione
populista già presenti da anni nella vecchia Europa; ha aggiunto solo una
dimensione spettacolare, un kitsch da reality tv, ma la sostanza non è davvero
originale. (…). …ora che in America abbiamo toccato il fondo, è proprio a noi
che spetta il compito di diventare il laboratorio di una ricostruzione. Penso a
una ricostruzione economica: Obama ci tirò fuori dalla spaventosa recessione
del 2008 ma per tante ragioni non riuscì a modificare il modello di sviluppo
fortemente diseguale. Penso alla ricostruzione di un American Dream dove una
laurea di qualità non costi mezzo milione di dollari. Penso alla ricostruzione
di un'idea di nazione, di comunità solidale, perché il livello di odio
reciproco, delegittimazione, insulto, faziosità, è ormai patologico. Se non ci
riusciamo in America, a ripartire verso un futuro diverso, temo che non ci
riuscirà nessuno. Per una ragione semplice. La causa strutturale del fenomeno
Trump è un capitalismo feroce, oligarchico, che ha dirottato e manipolato la
globalizzazione per metterla al servizio di pochi. È stata l'America la cabina
di regia di quel capitalismo predatore, ed è qui che bisogna intervenire per
cambiare le regole. Nessun altro paese al mondo ha abbastanza forza per farlo
da solo. È l'America ad avere le risorse per inventare un'economia nuova: le
idee ci sono, c'è una società giovane, multietnica, i talenti più creativi sono
venuti qui dal mondo intero. Sulle due coste, nella mia California e nella mia
New York, così come in tante altre roccaforti progressiste che l'8 novembre
votarono massicciamente contro Trump, c'è una società civile che deve
rimboccarsi le maniche, capire dove abbiamo sbagliato, imparare a parlare con i
delusi e gli impoveriti, gli umiliati e i declassati che hanno cercato nel
populismo una vendetta e una speranza. Sarà una battaglia dura, ma sia chiaro:
non solo contro Trump. I problemi che ci affliggono sono ben più antichi di
lui. È dagli anni ‘80 di Ronald Reagan che, insieme all'egemonia culturale e
politica del neoliberismo, è iniziata una deriva: diseguaglianze sempre più
estreme, lobby sempre più potenti, la democrazia intossicata dal denaro. È un
male che viene da lontano ed è bipartisan: la deregulation finanziaria che
consegnò carta bianca a Wall Street la firmò Bill Clinton. I privilegi fiscali
per le multinazionali sono stati votati da repubblicani e democratici. Quel
modello si è esteso in Europa, e anche voi avete le vostre battaglie da fare.
Ma se non cambia il centro dell'impero, è difficile che ci riesca la periferia. Ore 18.00 (ore 12.00 di quel mondo) di oggi 20 di gennaio: Trump è il Presidente
degli Stati Uniti d’America. L’era di Trump ha inizio. Tratto da “Trump, la rabbia antisistema e l'eutanasia
delle sinistre” di Carlo Formenti, postato il 9 di novembre dell’anno 2016
sul sito di “MicroMega.net”:
La vittoria di Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito elettorale siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi, partiti, economisti, manager, star dello show business, campioni sportivi, sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come l’unico esito possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e civile. A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi-tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale. Personalmente sono più volte intervenuto (…) a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni. Solo invitando a votare per i candidati di minoranza o ad astenersi, avrebbe potuto capitalizzare le energie e le reti organizzative che si erano aggregate nel corso della campagna, in vista della costruzione di una terza forza alternativa ai due maggiori partiti, ormai del tutto intercambiabili e allineati agli interessi del blocco sociale che domina l’America (e dunque il mondo). Arrendendosi all’apparato ha indebolito questo patrimonio, senza riuscire peraltro a impedire la vittoria di Trump, al quale ha letteralmente regalato il monopolio della rabbia antisistema di un popolo impoverito e frustrato dalla crisi. Ciò detto, mi preme anticipare alcune considerazioni a caldo, (…). Primo punto: la comunicazione. Come già abbiamo avuto modo di constatare con la campagna sulla Brexit (…), le strategie di manipolazione/dissuasione di massa condotte dai media al servizio dell’establishment (cioè tutti) non funzionano più. La crisi ha intaccato talmente in profondità le condizioni di vita della maggioranza delle persone che nessuna chiacchiera sul fatto che l’economia va meglio, che i posti di lavoro aumentano, ecc. può nascondere la realtà dei fatti, per cui più balle si sparano più si generano effetti contrari a quelli voluti. Stesso discorso per i sondaggi: la loro attendibilità è ormai pari a zero, sia perché è evidente che servono esclusivamente a influenzare il voto tentando di funzionare da self fulfilling prophecy, sia perché aumentano sempre più gli intervistati che prendono i sondaggisti per i fondelli, dichiarando intenzioni di voto opposte a quelle reali. Secondo punto: populismo, lotta di classe ed eutanasia delle sinistre. In un suo post l’amico Bifo scrive che i vari Clinton, Blair, Hollande, Renzi, Tsipras ecc. stanno pagando il fio del tradimento che hanno consumato ai danni della classe operaia, la quale ora li ripaga cercando risposte alla propria disperazione nelle destre neofasciste, esattamente com’era successo fra le due Guerre Mondiali. D’accordo sul tradimento e sulla punizione, ma con un approfondimento e una precisazione (con la quale spero di introdurre una nota di cauto ottimismo). L’approfondimento consiste nel fatto che a perpetrare il tradimento, (…) non sono state solo le socialdemocrazie, ma tutte le sinistre, comprese quelle sedicenti radicali e antagoniste, le quali hanno progressivamente concentrato la propria attenzione sulle classi medie colte (creativi, lavoratori della conoscenza, partite iva, ecc.), sui cosiddetti “bisogni immateriali”, e sulla esclusiva rivendicazione di diritti civili (soprattutto individuali) a danno dei diritti sociali, scambiando infine la retorica politically correct (del tutto funzionale alla governance neoliberista) per contestazione antisistema. L’odio operaio nei confronti di questi soggetti non è quindi solo frutto di frustrazione culturale, ma un vero e proprio odio di classe che rispecchia interessi materiali divergenti. Ciò significa che la forma populista (anche nelle varianti di destra) è la forma politica che la lotta di classe assume in questa fase storica. E qui arriva la precisazione (e il possibile spiraglio): il populismo (vedi le rivoluzioni bolivariane, Podemos, Sanders come esito del movimento Occupy Wall Street, la prima fase di Syriza, ecc.) può indirizzarsi a sinistra e contendere l’egemonia sulle classi subordinate al populismo di destra (che a sua volta non è tout court assimilabile al fascismo: la storia non si ripete). Terzo punto: le controtendenze alla globalizzazione. Il terrore dei mercati (…) dopo la Brexit e la vittoria di Trump rispecchiano le preoccupazioni in merito allo svilupparsi d’una possibile controtendenza ai processi di globalizzazione (politiche protezioniste, revoca o mancata conclusioni dei trattati di libero commercio, ecc.). Ora è chiaro che difficilmente Trump compirà tutti i passi isolazionisti che ha annunciato in campagna elettorale, ma è certo che, così come sta succedendo con il governo conservatore di Theresa May in Inghilterra, dovrà necessariamente concedere qualcosa alle aspettative popolari che sperano in una attenuazione, se non in una inversione delle scelte economiche neoliberiste. Ciò apre spazi per una battaglia politica antiliberista e antiglobalista da sinistra (che da noi passa necessariamente da una battaglia contro la Ue) che può divenire il terreno strategico su cui contendere l’egemonia ai populismi di destra. Difficile? Difficilissimo, quasi impossibile, ma come diceva qualcuno “chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.
La vittoria di Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito elettorale siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi, partiti, economisti, manager, star dello show business, campioni sportivi, sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come l’unico esito possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e civile. A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi-tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale. Personalmente sono più volte intervenuto (…) a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni. Solo invitando a votare per i candidati di minoranza o ad astenersi, avrebbe potuto capitalizzare le energie e le reti organizzative che si erano aggregate nel corso della campagna, in vista della costruzione di una terza forza alternativa ai due maggiori partiti, ormai del tutto intercambiabili e allineati agli interessi del blocco sociale che domina l’America (e dunque il mondo). Arrendendosi all’apparato ha indebolito questo patrimonio, senza riuscire peraltro a impedire la vittoria di Trump, al quale ha letteralmente regalato il monopolio della rabbia antisistema di un popolo impoverito e frustrato dalla crisi. Ciò detto, mi preme anticipare alcune considerazioni a caldo, (…). Primo punto: la comunicazione. Come già abbiamo avuto modo di constatare con la campagna sulla Brexit (…), le strategie di manipolazione/dissuasione di massa condotte dai media al servizio dell’establishment (cioè tutti) non funzionano più. La crisi ha intaccato talmente in profondità le condizioni di vita della maggioranza delle persone che nessuna chiacchiera sul fatto che l’economia va meglio, che i posti di lavoro aumentano, ecc. può nascondere la realtà dei fatti, per cui più balle si sparano più si generano effetti contrari a quelli voluti. Stesso discorso per i sondaggi: la loro attendibilità è ormai pari a zero, sia perché è evidente che servono esclusivamente a influenzare il voto tentando di funzionare da self fulfilling prophecy, sia perché aumentano sempre più gli intervistati che prendono i sondaggisti per i fondelli, dichiarando intenzioni di voto opposte a quelle reali. Secondo punto: populismo, lotta di classe ed eutanasia delle sinistre. In un suo post l’amico Bifo scrive che i vari Clinton, Blair, Hollande, Renzi, Tsipras ecc. stanno pagando il fio del tradimento che hanno consumato ai danni della classe operaia, la quale ora li ripaga cercando risposte alla propria disperazione nelle destre neofasciste, esattamente com’era successo fra le due Guerre Mondiali. D’accordo sul tradimento e sulla punizione, ma con un approfondimento e una precisazione (con la quale spero di introdurre una nota di cauto ottimismo). L’approfondimento consiste nel fatto che a perpetrare il tradimento, (…) non sono state solo le socialdemocrazie, ma tutte le sinistre, comprese quelle sedicenti radicali e antagoniste, le quali hanno progressivamente concentrato la propria attenzione sulle classi medie colte (creativi, lavoratori della conoscenza, partite iva, ecc.), sui cosiddetti “bisogni immateriali”, e sulla esclusiva rivendicazione di diritti civili (soprattutto individuali) a danno dei diritti sociali, scambiando infine la retorica politically correct (del tutto funzionale alla governance neoliberista) per contestazione antisistema. L’odio operaio nei confronti di questi soggetti non è quindi solo frutto di frustrazione culturale, ma un vero e proprio odio di classe che rispecchia interessi materiali divergenti. Ciò significa che la forma populista (anche nelle varianti di destra) è la forma politica che la lotta di classe assume in questa fase storica. E qui arriva la precisazione (e il possibile spiraglio): il populismo (vedi le rivoluzioni bolivariane, Podemos, Sanders come esito del movimento Occupy Wall Street, la prima fase di Syriza, ecc.) può indirizzarsi a sinistra e contendere l’egemonia sulle classi subordinate al populismo di destra (che a sua volta non è tout court assimilabile al fascismo: la storia non si ripete). Terzo punto: le controtendenze alla globalizzazione. Il terrore dei mercati (…) dopo la Brexit e la vittoria di Trump rispecchiano le preoccupazioni in merito allo svilupparsi d’una possibile controtendenza ai processi di globalizzazione (politiche protezioniste, revoca o mancata conclusioni dei trattati di libero commercio, ecc.). Ora è chiaro che difficilmente Trump compirà tutti i passi isolazionisti che ha annunciato in campagna elettorale, ma è certo che, così come sta succedendo con il governo conservatore di Theresa May in Inghilterra, dovrà necessariamente concedere qualcosa alle aspettative popolari che sperano in una attenuazione, se non in una inversione delle scelte economiche neoliberiste. Ciò apre spazi per una battaglia politica antiliberista e antiglobalista da sinistra (che da noi passa necessariamente da una battaglia contro la Ue) che può divenire il terreno strategico su cui contendere l’egemonia ai populismi di destra. Difficile? Difficilissimo, quasi impossibile, ma come diceva qualcuno “chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.
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