La tristissima vicenda politica
del bel paese non conosce sosta e non lascia intravvedere esito diverso alcuno.
Tutto scorre per come essa, la tristissima vicenda, ha lavorato, tranciando e
spianando affinché l’esito fosse uno ed uno soltanto. Da tempo vado sostenendo
come la “scarnificazione” del pensiero sia il male peggiore nel quale
possano cadere i singoli se non le intere comunità. Una “scarnificazione” del
pensiero che è come portar via dall’osso gli ultimi brandelli della carne che
resistessero alla macabra operazione. Poiché “scarnificare” il
pensiero è operazione macabra così come scuoiare e strappare gli ultimi
brandelli di muscolo. È ciò che è avvenuto nel bel paese. Una “scarnificazione”
che è divenuta tappa successiva di quella geniale ed opportunistica operazione
di semplificazione del pensiero che la dice lunga di come e di quanto gli
strateghi dei mass-media, i cosiddetti guru, siano divenuti i padroni assoluti
dei destini dei singoli se non di intere comunità. E se la comunità si allarga poi
a dismisura, ogni oltre misura sensibile dall’umano, allora le cose precipitano
verso un orrido oscuro che tutto ingoia come quegli abissi che la mente umana
stenta a raffigurarsi convenientemente. È l’abisso della Rete. Ho orrore
dell’abisso che la Rete induce. Poiché in quell’abisso vanno a sfracellarsi gli
ultimi pensieri liberi. Forse l’azione di “scarnificazione” del pensiero da
parte dei media di tradizione si sarebbe arrestata dinnanzi agli ultimi
brandelli, alle ultime schegge di un libero pensiero. Qualche miofibrilla ne
sarebbe sopravvissuta. Invece, l’affermarsi prepotente della Rete rende
possibile la “scarnificazione” sino alle più minuscole fibre del pensiero
sopravvissuto. Ha scritto Enzo Costa sull’ultimo numero del settimanale “Il
Venerdì di Repubblica” – “L’Italia
stregata da un nuovo mito: il semplificatore integrale” -: Oggi
il Semplificatore Integrale è dappertutto. Essendo, innanzitutto, sul web. È lì
che twitta compulsivamente come smaltire tutti i rifiuti, chi fare Papa, che
fare per gli esodati e/o i padri separati. È su Facebook, a fronteggiare il
caos a colpi di “mi piace” e “non mi piace”, con la stessa, primordiale logica
binaria dell’antico “buono-no buono” di Andy Luotto a L’altra domenica. Solo
che lui non lo fa per ridere: lo fa sul serio, senza un dubbio, una sfumatura,
una subordinata. E cresce e si moltiplica, dentro e fuori la rete: è in tv, a
dirci che la politica fa tutta schifo, che la colpa è solo della casta, o delle
banche, o dei sindacati. È in politica, magari ci è appena entrato sotto una
luccicante e trionfante insegna a cinque stelle, a dirci che basta eliminare
tutti i politici. È nell’impresa, nelle professioni, nelle corporazioni, a
dirci che la colpa è sempre degli altri, e mai la sua. E più si moltiplica e
più ci contagia, e più diventiamo lui e brandiamo felici e feroci sentenze
sommarie. Ciò che non cambia e resta è la complessità della società, della
vita, del mondo. Ma se ne parla poco, pochissimo, solo in qualche bar di
provincia o, molto raramente, dall’ortolano. Ecco perché la Rete fa
tanto paura. Poiché va oltre la “semplificazione” della quale parla Enzo Costa
nell’interessante Sua riflessione. Va oltre per “scarnificare” fino
all’osso la polpa oramai rinsecchita del pensiero. Poiché è tutto un affannarsi
dei guru a definire la Rete come “libera” – da cosa poi? Da chi? -,
post-ideologica, anzi a-ideologica, secondo la tanto ideologizzata “morte
delle ideologie”. “La Rete ha un’ideologia”. Ne ha scritto, con questo sotto-titolo,
Massimo Adinolfi sul quotidiano l’Unità del 17 di maggio dell’anno 2012 – “L’ideologia politica di Facebook”.
Ecco un angolo del mondo, quello virtuale per l’appunto, nel quale la
tristissima profezia della “morte delle ideologie” non si è inverata,
ma dove esse, le ideologie, vivono nelle viscere più profonde di esso, di quel
lontano, ancora inesplorato ed indecifrabile mondo, e le impregnano nel
profondo. Propongo di seguito, in parte, l’acuta riflessione di Massimo
Adinolfi. C’è una speranza ultima che non vuole morire: che, per dirla ancora con
Enzo Costa, “la complessità della società, della vita, del mondo” abbia la
meglio alla fine di questo tortuoso, tormentato cammino.
(…). A (René n.d.r.) Girard
(antropologo, critico letterario e filosofo francese n.d.r.) dobbiamo
(...) una distinzione fondamentale per capire come funziona la creatura di Mark
Zuckerberg. (…). Si tratta della differenza fra mediatore esterno e mediatore
interno, e del modo in cui orienta il desiderio umano. Quel che viene mediato è
infatti il desiderio, che si dirige su questo oggetto o su quello solo perché
qualcun altro vuole questo o quello, rendendolo così desiderabile per noi. Ma,
ecco il punto, un conto è se la mediazione è esercitata da un soggetto ben
distante, magari irraggiungibile e idealizzato un mediatore esterno, appunto -,
un altro è se invece si tratta di un soggetto a noi vicino, anzi prossimo, così
tanto da essere proprio come noi. Un friend, insomma. Su Facebook è questo,
infatti, che accade. Niente mediatore esterno, niente figure terze, niente
relazioni “verticali” con un ideale lontano, ma una miriade di piccole
relazioni orizzontali con individui insieme ai quali condividiamo interessi,
scambiamo poke, linkiamo pagine. Sheryl Sandberg, Chief operating officer di
Facebook, l’ha spiegata così: «Non importa se a 100.000 persone piace x: se
alle tre persone a te più vicine piace y, a te piacerà y». Le tre persone più
vicine stanno per l’appunto nella posizione di mediatori interni, e in grazia
di questa posizione risultano maledettamente più credibili, diretti, autentici.
In una parola, la sola che quando si fa business veramente conta: efficaci.
Ora, se si trattasse solo di strategie di marketing e volumi di vendita, poco
male: ci si potrebbe fare ben presto l’abitudine. Ma il fatto è che attraverso
questa diversa strutturazione delle relazioni sociali passano profonde
modificazioni dello spazio pubblico, e non basta quindi limitarsi ad osservarle
con distaccato spirito scientifico. E, si badi, non si tratta nemmeno di
rilevare soltanto fenomeni come la spudorata esibizione della vita privata
(Facebook è zeppo di fotografie), dalla quale si può dire che quasi più nessuno
è immune, o della infantilizzazione dei comportamenti, ossia di quello che
Benjamin Barber ha chiamato il nuovo “ethos infantilista” del capitalismo
contemporaneo. Il fatto è che in tutti questi casi viene palesemente
contraddetto il profilo dell’uomo pubblico così come è stato definito in età
moderna. La sfera pubblica andava infatti rigorosamente distinta dalla sfera
privata o familiare della casa: un conto è l’oikos, un altro la polis. La
modernità politica nasce anzi proprio quando riesce a spezzare definitivamente
ogni parentela o commistione fra quegli spazi e le relazioni che in essi si
istituiscono. Ma questa distinzione cede ormai il passo alla confusione, ed è
sempre più difficile tracciare in rete i confini del pubblico e del privato.
Quanto all’infantilizzazione degli stili di vita (e delle scelte di consumo):
non contraddice forse la figura del cittadino autonomo e responsabile,
qualificato giuridicamente e politicamente in virtù della raggiunta maggiore
età? Ma ancora più significativa, perché gravida di conseguenze, è la caduta
verticale del mediatore esterno: quella infatti era la posizione, il luogo
terzo tradizionalmente occupato dalle figure istituzionali: dal maestro, per
esempio, o dall’uomo politico. La crisi di autorità del mediatore esterno, il
fatto che i nostri sguardi e i nostri desideri si rivolgono in rete molto più
facilmente a mediatori interni non a figure idealizzate ma proprio a persone
come noi di colpo rischia di invecchiare tutta la comunicazione istituzionale,
ma anche di ridefinire i luoghi stessi di formazione e di esercizio della
soggettività politica. Dunque un problema ce l’abbiamo, con Facebook. James
Gibson, fondatore della teoria ecologica della percezione, diceva: chiediti non
cosa c’è dentro la testa di colui che guarda, ma cosa c’è intorno. Se cambia il
paesaggio, cambiano infatti pure le teste e i pensieri. E il paesaggio,
indubbiamente, sta cambiando. Dopodiché non si dirà certo che per questo la
democrazia è in pericolo, ma perlomeno non si esalteranno acriticamente le
nuove forme della partecipazione online o della vita in diretta come straordinari
avanzamenti democratici. Noi conosciamo storicamente la democrazia come luogo
della mediazione e della rappresentanza, e certo non è detto che sia l’unica
modalità possibile. Poiché però sappiamo anche, grazie a Girard, che assenza di
mediazione esterna significa pure possibilità di contagio mimetico e innesco
incontrollato di rivalità, abbiamo tutte le ragioni per nutrire simpatia per il
nuovo, ma anche per coltivare qualche sana diffidenza e un po’ di spirito
critico.
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