Scrivevo il primo post di questa
rubrichetta il primo di ottobre dell’anno 2011, quando ancora questo blog
stazionava su di un’altra piattaforma della grande Rete. È che il binomio “capitalismo-democrazia”
mi appariva sin da allora inscindibile ed avevo la consapevolezza che la deriva
dell’uno avrebbe comportato la deriva dell’altra. A tanti mesi di distanza da
quel post il professor Giorgio Ruffolo ha ripreso il temo ed ha provveduto, da
par suo, per una valutazione della “crisi” in atto che, perdurando
ancora, metterà sempre più a rischio le conquiste democratiche dell’Occidente.
Titolo della riflessione del professor Ruffolo – sul quotidiano la Repubblica
del 5 di marzo 2013 - “Capitalismo e
democrazia”, per l’appunto, giusto per segnare un punto a favore delle mie
personali preoccupazioni. Scrivevo nel post di quel lontano primo di ottobre
dell’anno 2011: “…non possiamo aiutarvi
ad irrobustire la ripresa poiché siamo impossibilitati a consumare di più
avendo tanto, per non dire tutto; non contate più su di noi che abbiamo avuto
ed abbiamo il superfluo invogliandoci a continuare a consumare il superfluo del
superfluo delle nostre vite; rivolgete le vostre attenzioni a tutti coloro che
sono stati tagliati fuori da questo godere, per anni e anni, ed approntate
strategie affinché siano posti nelle condizioni di consumare come si è fatto
sinora da parte di quel ceto medio di consumatori incalliti e senza rimorsi”. (…).
Lungi da me la tentazione di voler suscitare nel prossimo mio “incubi” di sorta; ma sono convinto che
in un tale momento di difficoltà sia giusto cogliere “l’occasione della crisi” per rivedere il nostro essere, “per proporsi seriamente una conversione
del modo di produrre e di consumare, e dei modi di vivere”. (…). Colgo
l’occasione per aprire una nuova sezione del blog, “Capitalismo&democrazia”, poiché sono convinto che dalla “crisi” globale siano messe in gioco
non soltanto le ricchezze e/o le consistenze materiali delle persone ma le
caratteristiche stesse, le idealità e le prerogative proprie delle democrazie
per come esse ci sono pervenute sino ad oggi. Nella nuova sezione andrò a “raccogliere” tutte quelle letture che
abbiano un’attinenza con le preoccupazioni in tal senso esternate da opinionisti
e pensatori di sommo valore. È certo che in un qualsivoglia modo si uscirà
dalla crisi presente. Il problema è come, soprattutto sul piano della
realizzazione di un’equità sociale che sia presupposto irrinunciabile per
democrazie sempre più compiute. Ha scritto Giorgio Ruffolo nella Sua dotta
riflessione “Sono dolori se la ricchezza
è un fantasma” pubblicata sul quotidiano l’Unità: Braudel (…) ha definito ‘autunno della finanza’ quella fase,
attraversata da tutti i cicli storici capitalistici nella quale, a causa del
declino dei rendimenti delle attività economiche reali (agricole, commerciali,
industriali) le risorse in esse impiegate vengono ritirate dai loro impieghi e
rese disponibili per essere investite in nuovi impieghi: funzione preziosa per
la circolazione e lo sviluppo delle attività economiche, ma transitoria. Una
volta svolto il suo compito, la finanza esce di scena e le risorse sono
reinvestite in attività produttive. Siamo quindi nel bel mezzo di un ‘autunno della finanza’; l’ennesimo, stando
alla autorevolissima opinione di Giorgio Ruffolo. Se ne uscirà di certo per via
di quelle ciclicità delle crisi capitalistiche delle quali aveva parlato con
sorprendente preveggenza il grande di Treviri. Uscirne per “riprendere come se niente fosse dal punto cui eravamo arrivati”?
Mi sembra un azzardo incredibile, insostenibile. “L’occasione della crisi” c’è; basta coglierne le opportunità. “La crisi non è se non la velocità
bruscamente vertiginosa che ha preso il guazzabuglio ingovernato che chiamiamo,
ormai pigramente, capitalismo”. È questa l’amara conclusione di Adriano
Sofri. Il binomio capitalismo-democrazia reggerà al vento impetuoso della
finanziarizzazione globale che ha svuotato il “capitale produttivo” a favore di un “capitale finanziario” che non conosce regole e non possiede
finalità sociale alcuna? Così scrivevo nel post di quel lontano primo di
ottobre. A tutt’oggi la “crisi” ci sommerge e ci sballotta con i suoi violenti
ed incessanti marosi. Trascrivo di seguito, in parte, la riflessione ultima del
professor Ruffolo.
Due grandi forze si contendono la
storia dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Esse si alternano
nell’egemonia prevalendo volta per volta l’una sull’altra e dando così luogo a
cicli storici, l’ultimo dei quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo
passato e che comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età
della controffensiva capitalistica. L’età dei torbidi è caratterizzata da forti
conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di assicurarsi
vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una competizione selvaggia che
ostacola la crescita comune. Età dell’oro. La definizione è di Hobsbawm. La
caratteristica principale sta nel tentativo di raggiungere un “compromesso
storico” tra capitalismo e democrazia che esalti le capacità di sviluppo di
queste due forze senza provocare contraddizioni strutturali. Il principio
fondamentale che regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma
non dei capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi
nazionali. (…). Tuttavia l’equilibrio che ne deriva si rivela tutt’altro che
“storico”. Esso è costantemente messo in dubbio dai tentativi delle forze
capitalistiche di sottrarsi agli obblighi costituiti dai controlli statali.
Questi tentativi conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo
scorso con la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di
ogni controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a
quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della produzione. La
superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di spostarsi nello
spazio secondo le convenienze assicurate dagli investimenti. Si potrebbe dire
che l’arma fondamentale del capitale è la valigia. La sola minaccia di uno
spostamento blocca le possibilità di far valere l’autonomia della politica.
L’eliminazione di ogni ostacolo al movimento dei capitali determina un
vantaggio decisivo del capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo
equilibrio che si era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si
traduce in una forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del
lavoro. Una diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della
domanda, costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il
capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che permette di
compensare il minore aumento dei redditi di lavoro. L’indebitamento diventa un
fenomeno generale e sistematico al punto che il capitalismo viene definito da
un economista come quel sistema nel quale i debiti non si pagano mai. Una
caratteristica chiaramente insostenibile alla lunga e che si traduce prima o
poi in una inevitabile crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti
subprime. (…). Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò che accadde
negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario dello Stato. Da
fattore di perturbazione dei mercati — così definito dalla retorica liberistica
— lo Stato diventa il salvatore del capitalismo. La logica del sistema tuttavia
non muta. Esaurito il “salvataggio” il sistema torna alla logica
dell’indebitamento, (…). La soluzione che l’ideologia liberistica imporrebbe,
di lasciare che i fallimenti si compiano secondo l’inflessibile regola dei
mercati, naufraga nella vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se
esteso all’intero contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La
verità si crea alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda?
Chi paga alla fine? Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma di
aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno
dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La ricchezza è
rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici indicatori della
ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi stessi. Una ricchezza
letteralmente inesistente ma che costituisce la base di una “taglia” imposta
alla comunità dal potere finanziario. Questa taglia è percepita dalle banche e
soprattutto da una classe di intermediari finanziari che approfitta della sua
posizione“strategica” nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo
industriale basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario
basato sulla rappresentazione dei “titoli”. (…). Il capitalismo non ammette (…)
che il settore pubblico diventi un elemento decisivo dell’economia. Si profila
una condizione nella quale il rallentamento della crescita determinato da
politiche repressive della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due
elementi che rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.
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