Questa rubrichetta, che non ha pretese,
l’ho denominata “uominiedio”. E perciò, oggi, senza pretese, si parlerà solo
degli uomini. E che il dio riposi in pace. Il salto sul divano l’ho fatto alla
notizia che il subentrante vescovo di Roma avrebbe scelto di chiamarsi
“Francesco”. È da giorni che gli allibratori davano questa scelta come la più
probabile, da qualsivoglia eletto fosse pervenuta. Era scritta nelle carte,
anzi su nel cielo. Una scelta imposta dalle impietose cronache correnti. Una
scelta che sapesse d’espiazione per tutti i torti commessi da quella chiesa
asserragliata nei suoi sontuosi palazzi ed abbastanza lontana dagli uomini. Un
ritorno alle origini? “Ma mi faccia il piacere” avrebbe
esclamato la grande maschera della italianità? La chiesa fattasi stato non
potrà mai e poi mai operare quel salutare ritorno alle origini: è il suo
vissuto plurisecolare che lo impedisce. E così abbiamo il primo “Francesco”.
Una scelta che fa i conti con la tristissima, cruenta storia di quella chiesa.
Nulla di più, nulla di meno. E così è stato, come facilmente pronosticato nei
giorni del grande bla bla bla, per rispondere a quell’ansia ed a quello
smarrimento che nelle coscienze di tanti adepti ha suscitato l’invereconda
cronaca di questi anni. Al sobbalzo è seguita la domanda mia: quale
“Francesco”? Quello di Assisi? Un ritorno alla povertà predicata da quel pover’uomo?
Ai buoni costumi? A suo tempo fra’ Francesco osò contrapporsi alla chiesa di
Roma. Ma fu accorto abbastanza per non rimetterci la pelle. È che nella storia
di quella chiesa ci fu un certo fra’ Dolcino da Novara che finì come finì,
ovvero bruciato sul rogo nell’anno del signore 1307. È che contro i Catari il
vescovo di Roma Innocenzo III organizzò, nell’anno sempre del signore 1208 una crociata,
la prima che affondasse le lame affilatissime e benedette delle armate cristiane
nelle carni di altri inermi cristiani – avendo i catari commesso un errore
capitale, ovvero di congregarsi in chiesa al pari della chiesa di Roma e
divenendone di fatto una concorrente -. È che, nonostante tutto il massacro che
ne conseguì, per rimediare all'inefficacia della “soluzione finale” voluta con la crociata da quel vescovo di Roma e per
debellare l'eresia catara sino alle sue ultime fibrille, fu appositamente
creato dal vescovo di Roma Gregorio IX, forse su ispirazione dall’altissimo del
cielo, il Tribunale dell'Inquisizione, che impiegò ben settant'anni per estirpare
il catarismo dal sud della Francia. Intanto lui, il poverello d’Assisi, si
destreggiava abilmente per non incorrere nelle materne ire di quella chiesa e per
non lasciarci prosaicamente la pelle. Dunque: “Francesco”. Ma quale? Qualcuno
ha suggerito che si trattasse di un Francesco Saverio. Sarà. Ha scritto il
teologo Vito Mancuso – su la Repubblica del 9 di marzo, “Adesso la chiesa apra le sue porte” -: La curia romana è considerata
luogo e causa degli scandali morali e finanziari che hanno condotto (…) molti
cattolici a non sentirsi più tali. La curia però non è piovuta dall’alto. Se la
sono disegnata i Papi lungo la storia secondo una determinata concezione del
papato emersa a partire da Gregorio VII con i celebri Dictatus Papae (1075) che
hanno fatto del Romano Pontefice un dictator e del papato una dictatura. Tale
concezione verticistica del papato rispecchia a sua volta la cosmologia del
passato, quella specie di universo a tre piani con amministrazione
centralizzata che abbiamo studiato a scuola con la Divina Commedia. Cosmologia,
ecclesiologia e politica formavano un tutt’uno, ed è in base a quella
concezione ormai in frantumi che ancora oggi vengono pensati il papato e la
curia. La rivoluzione scientifica e le altre rivoluzioni susseguitesi a tutti i
livelli della vita umana hanno distrutto la visione tradizionale del mondo e
per questo oggi tutte le istituzioni verticistiche sono in crisi: lo sono,
perché la mente umana non guarda più in alto per capire cosa fare. E con il
verticismo della tradizione sono in crisi i valori che esso, almeno
formalmente, garantiva, come il primato del diritto sul denaro, della
gentilezza sulla volgarità, dell’onestà sulla furbizia, dell’aristocrazia
dell’animo sulle passioni delle masse, del ragionamento sul populismo. Le
conseguenze di tutto ciò si manifestano oggi come nichilismo delle anime e
anarchia dei corpi, disperazione interiore e lacerazione sociale. La crisi
della Chiesa si salda alla crisi della società, ormai massa anonima di
individui e non più societas di cui ci si sente soci e di cui si tutela il bene
come fosse il proprio. (…). Scriveva Francesco Merlo – la Repubblica del
30 di giugno dell’anno 2012, “Don
Puglisi e gli altri santi che vanno tolti alla mafia” – al tempo della
canonizzazione di quell’uomo coraggioso: Non basta fare santo un eroe dell’antimafia,
la Chiesa deve adesso strappare tutti gli altri santi alla mafia (in
senso lato, come potere criminale n.d.r.), compreso Gesù Cristo che nella devozione
malata dei criminali è reso pari ad ogni malacarne messo ai ceppi dagli
sbirri. Don Puglisi rischia dunque di
sentirsi solo in un Paradiso affollato
dalle troppe preghiere dei boss, dai ceri dei sicari, dai te deum degli
estortori, dalle orazioni degli stragisti, dalle devozioni lautamente
finanziate, dai peccatori sanguinari che hanno fatto della Chiesa (…) il loro
covo, la banca dei loro sentimenti. (…). Ma di certo è ancora troppo poco in un
universo religioso che è dominato e pagato dal devoto violento, dal killer che
prega e spara, dal mafioso che bacia il crocifisso e strangola, dal boss che
domina il delitto e innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia e
allo stadio di Catania fa calare sulla
curva sud un enorme striscione,
venti metri per trenta, con l’immagine di Sant’Agata in carcere, il viso
reclinato verso la finestra della prigione da cui arriva un fascio di luce
divina. Come si può santificare il martirio – la testimonianza - di don Puglisi e non sospendere, come primo
atto di purificazione, le feste religiose che sono esplosioni collettive
dell’anima antica e oscura per un tema liturgico, quello della Passione, in cui
la mafia, bestemmiandolo, si riconosce, si specchia: il tradimento (Giuda),
l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è
vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della
Sicilia spagnola e si capisce che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di
consenso, cerchi la folla. Ma le processioni sono le palestre del rancore
popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana che i boss riciclano
per riaffermare il controllo assoluto del territorio. E nel cappuccio sono
depositate tutte le pratiche più lugubri, precristiane e anticristiane, un
armamentario devozionale che è apparentato con le processioni sciite, con il
peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran. Ma il cappuccio
è anche il nascondersi che in latino si
dice lateo, quindi latitare, quindi latitante, tra fucili e crocefissi, bombe a mano e immagini dei santi, di tutti i
santi. È la chiesa che abbiamo conosciuto e riconosciuto nelle tante
occasioni nelle quali essa ha negato a qualcuno la carità che le dovrebbe
essere propria, volgendo altrove lo sguardo; o quando abbiamo visto i potenti accorrere
per toccare il suo manto ed impetrarne i favori e le indulgenze e sollecitando in
cambio, ad essi, la difesa dei cosiddetti “principi irrinunciabili”, dimentica
delle vergognose tolleranze accordate. È che quei potenti, violenti, malfattori
o politici di turno, hanno assicurato ai vertici di quella chiesa la
possibilità di creare una ricchezza che stride con l’insegnamento che l’uomo di
Nazareth ha speso invano. Quella chiesa è stata sempre schierata da una precisa
parte, e da quella parte ha ottenuto considerazione, protezione, privilegi e
ricchezza. La verticistica struttura di quella chiesa ha bagnato ed intriso la
sua storia, irreparabilmente. Scrive ancora Vito Mancuso: L’ordine scende dall’alto,
l’organizzazione sale dal basso, l’ordine è maschile, l’organizzazione è
femminile, laddove maschile e femminile indicano due modi diversi di stare al
mondo e di considerare gli altri: da un lato un modo dominante, dall’altro un
modo cooperante; da un lato il primato, dall’altro la relazione; da un lato il
dictatus, dall’altro il collegium. Oggi in Occidente nessun sistema complesso
può essere governato dall’alto imponendo ordine in modo direttivo. I popoli e
le società, la scuola e il mondo dell’educazione, le famiglie de iure e quelle
solo de facto, persino le aziende più innovative mettono in discussione il
modello tradizionale di leadership. Ma è soprattutto la mente (…) a non poter
più essere governata dal principio di autorità. (…). L’unica soluzione sta nel
comprendere che il principio che può dare direzione, governo e senso,
trattenendo dal precipitare nel nichilismo interiore e nell’anarchia sociale, è
la fede nella logica relazionale, nell’armonia, nella ricerca del bene, della
giustizia, della pace, non in quanto conosciuti una volta per sempre secondo la
logica verticistica dei “principi non negoziabili” (…), ma quali volta per
volta è possibile realizzare nella situazione concreta alle prese con il
chiaroscuro della vita (…). E Francesco Merlo annota nel Suo scritto: E
pensate al linguaggio che è sempre carne
viva, pensate a quanto c’è di cattolico nelle parole e nel codice della mafia:
cupola, papa, padrino, mammasantissima, e poi il bacio dell’anello, il rogo del
santino nell’iniziazione… E a tutto i latitanti rinunziano ma non ai battesimi,
alle cresime, alle processioni appunto. Finirà tutto ciò con il nuovo
vescovo di Roma?
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