Ha scritto il professor Umberto
Galimberti sul settimanale “D” del 16 di febbraio 2013 - “Vent'anni alla fine del mondo” -: Apocalisse non è la fine. È
svelare ciò che è stato tenuto ipocritamente nascosto. (…). Apocalisse (dal
greco apo-kalypto) vuol dire "togliere il velo" "svelare quel
che era nascosto". E quest'opera di verità la stanno facendo i giovani,
per farci sapere che mondo abbiamo creato per loro. Un mondo senza sogni, un
mondo senza desideri che abbiamo estinto ogni volta che davamo loro una cosa
prima ancora che la desiderassero. Piacerebbe anche a me fare mia
questa affermazione/intuizione dell’illustre Autore. In verità dubito assai in
una meritoria “opera di verità” delle masse giovanili dell’Occidente opulento.
Mi sovviene invece un pensiero, a proposito dei giovani, dell’indimenticabile
segretario di quello che è stato il più grande e forte partito comunista
dell’Occidente, Enrico Berlinguer. Diceva: - Se i giovani si organizzano, si
impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli
oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e
sull'ingiustizia -. Mi pare di cogliere nella grande maggioranza dei
giovani d’oggi ben poca spinta ad impadronirsi “di ogni ramo del sapere”
e di lottare “con i lavoratori e gli oppressi”. “Privilegio e ingiustizia” sono
tornati ad essere la caratteristica proprio di questo tempo che ci è dato di
vivere. Continua nella Sua riflessione il professor Galimberti: I
giovani non ci succedono come sempre è avvenuto nel ritmo delle generazioni, i
giovani di oggi divaricano da noi, se ne vanno da un'altra parte, cercano
un'altra terra, perché questa è per loro inospitale. E in questa ricerca
sentono su di loro il destino dei Maya, estinti con l'avvento degli
occidentali. Perché è l'Occidente, che si crede la punta più avanzata di
civiltà, ad aver creato questo mondo senza speranza, con la terribile
sensazione della sua fine, che per il momento chiamiamo semplicemente
"crisi". Ma non è una crisi. Come dice la parola
"Occidente", è un tramonto. Ecco, mi pare che l’illustre
Autore operi una generalizzazione che in verità non mi sento di accettare. I
giovani, o meglio una grossissima parte di essi, al pari dei loro genitori, di
quello che è stato il ceto medio del benessere, hanno spento qualsivoglia
desiderio di contrastare lo stile di vita propugnato nell’Occidente opulento,
non avvertendo la strapotenza di una civiltà edonisticamente malata che, forse
col senno del poi, sarà individuata in futuro come la società che ha “creato
questo mondo senza speranza”, società della finanza e delle banche che
hanno spinto di recente un premier-tecnico dell’Occidente a riconoscere ed a
dichiarare “perduta” tutta una generazione. Ben pochi sono stati, negli
anni recenti, i “maestri” che abbiano orientato il cammino sociale ed economico
in una ben diversa direzione. Oggigiorno i giovani, soprattutto essi, vivono “con
la terribile sensazione della fine” di una società malata e divenuta
arrogantemente ingiusta ed in perenne “crisi", “crisi" che è
anticamera di “un tramonto” di un distorto modello di sviluppo. La
lettura della riflessione citata mi ha spinto a ricercare tra i miei ritagli
una riflessione del professor Galimberti che ha per titolo “L'egemonia del mercato e i giovani”, riflessione pubblicata sempre
sul settimanale “D” del 12 di giugno dell’anno 2010. La ripropongo in parte. Scrive
Franco Totaro: “I fini dell'economia sono anche i nostri fini?”. Sull'atmosfera
nichilista che caratterizza il clima in cui vivono i giovani d'oggi mi sono
espresso più volte… (…). La loro sfiducia, la loro vita più notturna che
diurna, l'alcol e la droga, assunti più per anestetizzarsi che per divertirsi,
sono sintomi di una crisi non tanto esistenziale quanto culturale, da riferirsi
al fatto che la nostra cultura conosce come unico generatore simbolico di tutti
i valori esclusivamente il denaro, da conseguire con ogni mezzo, ivi compreso
lo sfruttamento del lavoro dei giovani, che non hanno alcun potere contrattuale
se non quello del prendere o lasciare. “L'uomo va trattato sempre come un fine
e mai come un mezzo”, diceva Kant nel formulare il principio fondamentale della
sua morale. Ma chi non è mezzo di profitto, sia che si tratti dell'immigrato o
di uno qualunque di noi che lavora in una fabbrica o in un ufficio a qualsiasi
condizione gli venga imposta, non ha diritto di cittadinanza. E tutto questo
perché l'economia globalizzata ha reso concorrenziale anche il costo del lavoro
sempre più al ribasso. Oggi i giovani vivono erodendo la ricchezza dei padri,
ma non avranno ricchezza da far erodere ai loro figli, che saranno la prima
generazione veramente senza futuro. Ma siccome lo sguardo dei governanti non si
allunga oltre la propria biografia, di questa mancanza di futuro al momento
nessuno si occupa. Invocare che l'economia non sia più egemone, ma venga
subordinata alla vita delle persone, oggi ha del patetico. Ma a questo si dovrà
pervenire, se non si vuole assistere a quella profezia che Spengler, Heidegger,
Jaspers, Anders nel secolo scorso, con largo anticipo, andavano annunciando
sotto il titolo Tramonto dell'Occidente. A tutto ciò, a questa
disastrosa deriva politica, morale e sociale ben poca cosa è stato opposto
nelle ubertose contrade del bel paese. In altre contrade di questo pianeta una
fuggevole forma di “protesta” e di “azione” di contrasto la si è
tentata, regimi e governi sono stati spodestati se non minacciati nella loro
sopravvivenza. Nulla di tutto ciò si è potuto registrare nel bel paese. Se non
l’ultima “fiammata” dello tsunami elettorale che rappresenta più che
altro l’azione ultima possibile di disperati. Quale peso essa potrà avere per
la storia futura? Può essere bastevole, per una presa di coscienza delle
gravissime malattie proprie di un Occidente pericolosamente al “tramonto”
– come preconizzato nell’anno 2010 – la “rabbia” di chi ha visto sfuggirgli
la vita presente e con essa il futuro? La “cecità sociale” ha un prezzo
altissimo che immancabilmente ricadrà sui più poveri e sugli individui e gruppi
socialmente indifesi. Ed allora, la risposta giusta è quella scaturita dalle
elezioni politiche recenti? Ha scritto Ezio Mauro all’indomani delle elezioni –
su la Repubblica del 27 di febbraio col titolo “La sede vacante” -: (…). In una parola, è come se il governo
della fase che viviamo fosse impossibile, per una fetta di pubblica opinione. O
peggio, inutile. Dentro questa rinuncia ipnotica, si scavano percorsi a breve,
abitati da illusioni politiche, fantasmi culturali. Nazionalizziamo le banche,
anzi chiudiamole. Ignoriamo lo spread, che importa se cresce? Non badiamo ai
mercati, tanto sono un po’ pazzi. Se la Germania pretende troppo, usciamo
dall’euro. Sciocchezze che funzionano come false rassicurazioni, perché non
esistono risposte banali a problemi complessi. Ma funzionano, come le false
promesse sulle tasse che si possono restituire, i soldi che arrivano dalla
Svizzera, il magnate-demiurgo che in ogni caso, se mancano i miliardi, li
metterà di tasca sua. (…). …la politica è in sede vacante, e qualcos’altro di
confuso, semplice ed elementare, consolatorio e primordiale ne ha preso il
posto. Un negazionismo autarchico, insieme orgoglioso e compassionevole, che è
un prodotto non secondario della crisi sociale del nostro tempo. I populismi
diventano l’espressione compiuta ed organizzata di tutto questo.(…). A
questo punto avrei forse trovato la risposta alla mia domanda.
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