Hai voglia di “sbianchettare”,
come in un tempo passato di scandali istituzionali – “Mitrokhin” e dintorni - si
disse. Oggi soccorre, nell’immaginario collettivo, l’immagine consolatoria del
giaguaro debitamente “smacchiato”. Quale colpa ha il nobile
animale se la sua livrea non ha il candore che gli smacchiatori di professione
prediligono? È che gli sbianchettatori o gli smacchiatori di turno hanno in
definitiva sbianchettato o smacchiato il pensiero politico e civico del bel
paese. C’è poco da scherzare e da stare allegri. Oggi domina il pensiero
semplice, sbianchettato o smacchiato per l’appunto. Come in tutte le società
complesse si tende ad eliminare la complessità del pensare sbianchettando o
smacchiando, ché fa lo stesso. Donde la felice intuizione del nostro: via i
partiti. Una semplificazione così è difficile da pensarsi. Lo sarà pure da
realizzare? Scrive Gad Lerner nel Suo editoriale “La democrazia senza partiti” – sul quotidiano la Repubblica del 4
di marzo 2013: Beppe Grillo non è un improvvisatore quando proclama, a pagina 79 del
libro scritto con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio (Il grillo canta sempre al
tramonto, Chiarelettere): “Noi vorremmo che i partiti scomparissero
radicalmente”. E difatti prosegue: “Lo so, molti potrebbero domandare: ma in
Parlamento se non ci sono i partiti chi ci sarà? Come può esistere un
Parlamento senza i partiti? Ci saranno i movimenti, i comitati, tutte
espressioni di esigenze che provengono dalla società civile”. Bene. Ma
tutto ciò può accadere quando nella storia di un paese si è preferito
sbianchettare o smacchiare ma giammai affrontare i problemi che abbisognano
d’essere affrontati e non lasciati marcire. Ne ha scritto saggiamente sul
quotidiano l’Unità del 28 di febbraio Michele Ciliberto nella riflessione che
ha per titolo “La vittoria di Grillo e
il nodo della democrazia diretta”: Il
punto principale da cui partire è questo: nel nostro Paese è aperto ormai da
quasi mezzo secolo il problema delle fonti e dei caratteri della sovranità: in
altre parole è sul tappeto il problema delle forme e dei soggetti della
democrazia. (…). Ed è allora avvenuto che nel paese dell’amorale
principio del “tengo famiglia”, ovvero nel paese del pensiero semplificato se
non annichilito e dello stupefacente “io l’avevo detto” si siano riaperte
strade percorse e ripercorse da sempre, nel passato remoto e nel presente della
sua storia, per le quali così scrive l’illustre opinionista: in
questa prospettiva va situato il berlusconismo che non è stato, come a lungo si
è pensato specie a sinistra, la performance teatrale di un bravo attore, ma il
tentativo più organico compiuto in Italia di risolvere in chiave reazionaria il
problema delle fonti e delle forme del potere, della sovranità: in una parola,
della democrazia. Lo ha fatto, certo, con un uso sapientissimo dei media e
interpretando e rappresentando interessi, bisogni, aspettative sociali di ceti
assai vasti e non interpretabili alla luce delle vecchie nomenclature, a
cominciare da quella di classe. (…). Ecco un pensiero “pesante”,
e pensante, non sbianchettato né tanto meno smacchiato. Di quei pensieri che la
nostra mala politica ha preferito non affrontare con e tra la gente né, tanto
meno, con e tra gli addetti ai lavori. E si è lasciato che le cose
proseguissero per inerzia lungo un pendio che ha portato alle deplorevoli
condizioni attuali della nostra democrazia. Continua Michele Ciliberto nella
Sua analisi: (…). …Berlusconi ha proceduto (…) imponendo un modello di demagogia
dispotica imperniata su un individualismo esasperato stabilendo su queste basi
una egemonia culturale forte e di vasta portata. (…). Ma in generale il
distacco tra dirigenti e diretti nel ventennio berlusconiano si è approfondito,
non è venuto meno. (…). Ed è a questo punto che l’illustre Autore
contestualizza il Suo ragionare: La forza della proposta di Grillo sta qui:
ha intercettato ed enfatizzato questa esigenza di mutamento, ma curvandola – ed
è questo il suo limite – nella direzione di una democrazia diretta, con una
netto rifiuto della democrazia rappresentativa e dei suoi organi. Grillo parla
infatti di «comunità» contrapponendola al termine «società»; e alla figura del
rappresentante sostituisce quella del delegato, revocabile in ogni momento da
parte del popolo, cioè dal capo carismatico. Fra Stato e popolo per Grillo non
devono esserci mediazioni di alcun tipo: il rapporto deve essere diretto,
secondo i canoni della democrazia diretta di matrice ottocentesca. È naturale
che in una concezione di questo tipo ci siano pulsioni dispotiche, (…).
Come non scorgere in questa successione di fatti la colpevolezza di quella che
da tempo vado definendo come l’”antipolitica” al potere che ha
scacciato la “politica buona” sbianchettando e smacchiando quanto di
pensiero complesso sia sopravvissuto nel bel paese. A ben ragione Gad Lerner
scrive: Prima di liquidarlo come velleitario utopista o, peggio, come eversore,
dobbiamo riconoscere che il suo pensiero si inscrive in un filone movimentista
di antica tradizione giacobina, anarchica, pansindacalista: da Saint Just a
Bakunin, a Sorel. Per oltre un secolo i movimenti rivoluzionari sono stati
percorsi da questa contrapposizione fra partiti e anti-partito che talora ha
assunto forme violente. (…). …nei giorni scorsi è stato diffuso su Internet un
filmato di Hitler che nel 1932 adoperava contro i partiti della Repubblica di
Weimar un linguaggio molto simile a quello grillino: “Noi non siamo come loro!
Loro sono morti, e vogliamo vederli tutti nella tomba!”. (…). La difesa di una
democrazia rappresentativa, come tale fondata sul pluralismo delle formazioni
politiche, ma capace di dare voce nelle istituzioni alla partecipazione dei
cittadini, nei prossimi anni si configura come l’unica risposta possibile ai
diktat autoritari sempre in agguato, quando esplode la rivolta. (…). E
siamo alle tribolazioni dell’oggi. Scriveva Nadia Urbinati sul quotidiano la
Repubblica del 25 di febbraio – “Il
populismo in Parlamento” - molto tempo prima di conoscere i risultati dello
tsunami elettorale: La demagogia non si traduce facilmente in rappresentanza parlamentare.
Vive di politica diretta e il suo più grande ostacolo è la normalità che segue
il voto. Si adatta meglio ad una permanente campagna elettorale perché retta
sull’espressività e sull’arte affabulatrice del leader, la ricerca
dell’applauso e del contatto diretto con il pubblico. La demagogia si avvale di
una retorica spesso aggressiva. E rinasce ogni qual volta la distanza tra chi
sta dentro e chi sta fuori i luoghi del potere si allarga fino ad aprire una
falla nella quale si fa strada questa forma alternativa di espressione
politica, la cui linfa vitale sono emozioni di opposizione, come la rabbia o
l’esasperazione. La demagogia prende energia dalla relazione di vicinanza del
leader con la folla: egli porta la massa dove vuole e deve farsi portare da
essa per meglio eccitarla e averla sua. La demagogia non vive di azione
differita, vuole un rapporto fisico diretto, come quello tra Beppe Grillo e le
folle che si assembrano ai piedi del suo palco inscenando una drammatizzazione
delle vicende politiche più problematiche e delle difficoltà sociali ed
economiche che le accompagnano. (…). E, come sorprendente profezia,
inverata nelle cronache barbare di questi giorni, si scopre che, – nella felice
intuizione fatta emergere nella pregevolissima riflessione -, la
demagogia che riempie le piazze e i siti Internet ha il potere di attrarre
consenso ma non ha probabilmente alcun interesse a creare stabilità nel dopo le
elezioni. La sua forza (…) può essere di impedimento alla formazione di una
maggioranza duratura. La stabilità del governo è del resto il nemico dei
movimenti demopopulisti, la cui aspirazione sono piazze piene di scontenti (che
restino tali). La democrazia consente di tenere i giochi aperti; a questo serve
la regola della ciclicità elettorale, a mediare stabilità e mutamento, apertura
del contenzioso e sua temporanea chiusura. È questa regola fondamentale che la
demagogia mal digerisce e fa di tutto per sovvertire, per essere forza mobilitante
permanente. Inoltre la demagogia non è rappresentabile; rabbia e indignazione
sono emozioni difficili da tradurre in progetti politici condivisi. (…). Nel
paese dell’amorale “tengo famiglia”, dell’inutile e presuntuoso “io
l’avevo detto” concorrere nella democratica disputa elettorale non ha
il fine che si configura da sempre in ogni angolo di mondo a democrazia se non
compiuta almeno avanzata: quello di proporsi per il governo della cosa
pubblica, per il raggiungimento del cosiddetto “bene comune”. No! Si
concorre per far vincere la propria parte (a)politica, la propria
confraternita, per stendere gli avversari come nel più becero – come del resto
è stata l’ultima tornata elettorale - dei giuochi agonistici. Che sono
tutt’altra cosa della democrazia e delle responsabilità alte che da essa ne
derivano. È la cronaca amara di questi giorni.
Nessun commento:
Posta un commento