Che ne è stato della Libia?
Sparita dalla cronaca del nostro tempo. Rimane il ricordo del suo “conducator”,
ferocemente trapassato. Cancellata la Libia dalla nostra memoria, dai nostri
interessi. Fino a quando una delle risorse naturali da essa esportata non metterà
a grande rischio la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita, il nostro
apparente “ben-essere” – l’uso del trattino è decisamente intenzionale -.
Per il resto l’”indifferenza”. I più proveranno a dire: ma con tutto ciò che
ci coglie in questi giorni di tregenda – che minaccia tempesta in arrivo - vai
a ripensare alla Libia? Sono convinto che le cose che accadono in questi giorni
abbiano legami profondissimi anche con i giorni che definiamo passati. Sono
convinto che di passato, nella storia degli umani, non c’è un bel niente. Tutto
si tiene. In quel giorno, il 23 di marzo dell’anno 2011, Barbara Spinelli
pubblicava sul quotidiano la Repubblica un Suo editoriale che ha per titolo “Il crimine dell’indifferenza”. Di
seguito lo ripropongo in parte. Potrebbe apparire esagerata la titolazione del
pezzo. Ma gli esempi che l’illustre opinionista porta al Suo ragionare, rubati
alla Storia degli umani, hanno il pregio di richiamare alla memoria fatti e
misfatti che solamente l’”indifferenza” – criminale per
l’appunto - ha consentito che accadessero. E poi, perché non richiamare alla
memoria il comportamento leggero ed equivoco di chi allora era stato posto a
capo delle relazioni internazionali? E di tutta una “casta” politica? Del
resto il comportamento di questi giorni, truffaldino e maccheronico, dei
reggitori della cosa pubblica nei confronti dell’India non è una prova che
tutto si tiene? L’idea di questa rubrichetta è, intenzionalmente, quella di non
nascondere sotto il tappeto le briciole del vivere e di tornare a riflettere
sugli accadimenti della nostra Storia.
(…). Memorabile fu quel che disse
il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la
Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono
frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo
usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far
terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser
dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia
disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la
banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann
Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza. L’Onu
nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni
unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1.7, ma nello stesso
paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica
l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che
chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla
pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli
consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree,
navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire
la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni,
blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri
delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7). Le Nazioni Unite hanno
commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di
omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi
Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente
nel ‘94. (…). Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che
possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è
impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi
usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur
mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta
sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. (…). È il principio
invocato in questi giorni a proposito della Libia. A partire dal momento in cui
questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe
e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei
Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è
difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle
guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è
in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far
scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È
questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la
domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio,
in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il
mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha
estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri
Michèle Alliot-Marie? Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si
moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza.
In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo
invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale
molti perdono la bussola. (…). Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel
che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di
Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di
rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai
d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre
al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e
ubbidisce». Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da
clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già
la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa
discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. (…). Ha
detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia
fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli
organizzati come i fondamentalisti islamici. Pensando all’Italia, ho avuto
l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa
conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo
qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di
amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi,
come Gheddafi, politicamente immortali.
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