"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 23 marzo 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 2 “Il 23 di marzo dell’anno 2011”.



Che ne è stato della Libia? Sparita dalla cronaca del nostro tempo. Rimane il ricordo del suo “conducator”, ferocemente trapassato. Cancellata la Libia dalla nostra memoria, dai nostri interessi. Fino a quando una delle risorse naturali da essa esportata non metterà a grande rischio la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita, il nostro apparente “ben-essere” – l’uso del trattino è decisamente intenzionale -. Per il resto l’”indifferenza”. I più proveranno a dire: ma con tutto ciò che ci coglie in questi giorni di tregenda – che minaccia tempesta in arrivo - vai a ripensare alla Libia? Sono convinto che le cose che accadono in questi giorni abbiano legami profondissimi anche con i giorni che definiamo passati. Sono convinto che di passato, nella storia degli umani, non c’è un bel niente. Tutto si tiene. In quel giorno, il 23 di marzo dell’anno 2011, Barbara Spinelli pubblicava sul quotidiano la Repubblica un Suo editoriale che ha per titolo “Il crimine dell’indifferenza”. Di seguito lo ripropongo in parte. Potrebbe apparire esagerata la titolazione del pezzo. Ma gli esempi che l’illustre opinionista porta al Suo ragionare, rubati alla Storia degli umani, hanno il pregio di richiamare alla memoria fatti e misfatti che solamente l’”indifferenza” – criminale per l’appunto - ha consentito che accadessero. E poi, perché non richiamare alla memoria il comportamento leggero ed equivoco di chi allora era stato posto a capo delle relazioni internazionali? E di tutta una “casta” politica? Del resto il comportamento di questi giorni, truffaldino e maccheronico, dei reggitori della cosa pubblica nei confronti dell’India non è una prova che tutto si tiene? L’idea di questa rubrichetta è, intenzionalmente, quella di non nascondere sotto il tappeto le briciole del vivere e di tornare a riflettere sugli accadimenti della nostra Storia.

(…). Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza. L’Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1.7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7). Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ‘94. (…). Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. (…). È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia. A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie? Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. (…). Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce». Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. (…). Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici. Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

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