"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 24 ottobre 2012

Capitalismoedemocrazia. 30 Il potere belluino.



Scrive Dario Fo – il Fatto Quotidiano, “La brutalità tecnica di Monti” -: (…). Dice Queneau, il filosofo: “Ognuno soffre di un duro trattamento solo in conseguenza della sua collocazione nella società e in seguito alla probabile reazione adeguata che esprime davanti a ciò che considera sopruso”. Quindi è una costante matematica: la violenza del potere si proietta dal basso verso l’alto in rapporto alla potenza economica di cui il colpito dispone. (…). E qualcuno dovrà pur pagare. La situazione drammatica in cui viviamo la si può capovolgere solo se ogni cittadino partecipa al salvataggio. Se poi, in seguito alla reazione di alcuni gruppi economici, chiamiamole lobby, il governo è costretto a ritirare le proposte che imporrebbero a costoro di versare il dovuto, non facciamone una tragedia, spingiamo un po’ di più l’acceleratore su coloro che non possiedono né mezzi, né santi in paradiso o deputati in Parlamento a proprio comando. Saranno loro a pagare anche per quelli che avrebbero i mezzi per risolvere democraticamente ed egalitariamente il loro compito civile. (…). È una dovuta, necessaria anticipazione all’intervista, che di seguito trascrivo in parte, che il professor Marco Revelli ha rilasciato al quotidiano l’Unità – “Potere belluino” – a firma di Jolanda Bufalini. È la “stortura” nei rapporti sociali della quale “stortura” si sono avvantaggiate le classi dominanti per creare quella “melassa sociale” – il termine è mio e fa un po’ il verso alla “poltiglia” del sociologo De Rita -, quell’indistinto zuccheroso che ha reso deglutibile e meno amaro il calice delle diseguaglianze dilatatesi a dismisura nei lustri correnti. È il miracolo del liberismo più sfrenato. Sosteneva Goffredo Fofi – “La vocazione minoritaria”, Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12 -: “Una delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguire ogni esempio. (…)”. E sono così trascorsi gli anni infami dalla “discesa in campo”, che tanto malanno ha arrecato al tessuto sociale ed alla sensibilità etica dell’italico popolo. La “melassa sociale”, zuccherosa quanto mai, ha consentito e facilitato la “dissoluzione degli aggregati sociali” – volgarmente denominati “classi” – che ha determinato la caduta dei principi e, perché no, la caduta del primato della politica come arte suprema di regolazione degli inevitabili, salutari, conflitti sociali. Come simbolo degli anni vissuti pericolosamente sull’orlo di un precipizio etico, morale e di dissoluzione del capitalismo industriale, a tutto vantaggio di un capitalismo di pura finanza creativa, andrebbe preso per l’appunto il mito della Medusa che, per dirla con le parole del professor Revelli, è “ il simbolo di un potere belluino, dallo sguardo pietrificante”. Che ha pietrificato le coscienze.

(…). Professore, ne «I demoni del potere» lei parte dal «genocidio finanziario» della Grecia per avventurarsi in una ricognizione dei miti che accompagnarono la nascita della polis antica, la Medusa e Perseo, le sirene e Ulisse. (…). Il primo mito è quello della Gorgone o Medusa.
«La Medusa è il simbolo di un potere belluino, dallo sguardo pietrificante. Lo scudo di Perseo nel quale quello sguardo si riflette, lo addomestica. Questo addomesticamento del potere è un pilastro dell’incivilimento che nasce con l’invenzione della città. Nel Novecento la funzione di addomesticamento del potere l’ha svolta il conflitto sociale, l’azione collettiva del movimento operaio ha tenuto sotto controllo i demoni del potere. È impressionante guardare le statistiche degli scioperi: le guglie fra gli anni Cinquanta e Settanta che sforano le 100.000 giornate di sciopero. È il periodo che Hobsbawm (di recente scomparso n.d.r.) definisce l’età dell’oro del capitalismo contemporaneo, quando alla crescita dell’economia e del welfare si accompagnò un conflitto sociale esteso e potente. Quella azione collettiva teneva a bada la forza belluina del potere, producendo al tempo stesso solidarietà sociale. Poi il grafico precipita, la curva si fa piatta, si torna a grandezze ottocentesche, come se il Novecento, il secolo del lavoro, fosse stato una parentesi».
Cosa è successo?
«È stato infranto lo specchio di Perseo. Il paradigma neoliberista ha rimosso il conflitto sociale dall’orizzonte pubblico. Il lavoro, che la nostra Costituzione mette a fondamento della repubblica, si è atomizzato, privatizzato, il lavoratore singolo si trova nudo di fronte a questo potere enorme. (…). Credo che all’origine della svolta c’è una sconfitta storica del lavoro, i cui termini si possono pesare: lo studio di Luci Ellis e di Kathryn Schmit per la Banca dei regolamenti internazionali ha messo in evidenza che nei maggiori paesi industrializzati, i salari hanno perso in 30 anni 8 punti percentuali, Luciano Gallino ha calcolato, nel suo bellissimo La lotta di classe dopo la lotta di classe che in Italia 250 miliardi di euro si sono trasferiti dai salari ai profitti».
La famiglia mitologica del potere, scrive, non è molto simpatica: Krato è figlio di Stige, fratello di Bia (la forza), di Nike e Zelo. Di contro c’è la polis.
«La polis è il soggetto collettivo che, al riparo delle sue mura, produce la legge. Nel Novecento la fabbrica ha espresso questa identità collettiva. Non era un’arcadia, non era un mondo armonico, ma il conflitto si sviluppava fra forze alla pari, mentre ora c’è una gigantesca asimmetria, l’individuo si trova in competizione con un’infinità di potenziali nemici in concorrenza fra loro, allo stesso grado della piramide sociale. La crisi della politica è dentro questa dissoluzione degli aggregati sociali. I grandi poteri non hanno volto, non si sa dove siano ma si sentono quando cala la scure, come ad Atene, dove le maestre raccontano che gli allievi svengono in classe per la fame».
Lei usa un altro mito, quello di Ulisse che con l’astuzia ascolta ma resiste al canto delle sirene. «Nell’orrore in cui siamo precipitati c’è la perdita del racconto. Ulisse trasforma le sirene da cantanti in canto, in una ricapitolazione di senso. È la parabola della civilizzazione che, con la storia, dice all’uomo chi è. Oggi il racconto non c’è più, al suo posto c’è uno zombie, qualcosa che assomiglia alla storia ma non lo è. Lo story telling che viene dall’alto non racconta l’esperienza del passato ma disegna i comportamenti futuri».
Viene in mente una canzone di Francesco De Gregori, «La storia siamo noi». Non è più così? «Con lo story telling è il potere che riconfigura la storia degli uomini, cominciò Ronald Reagan ad utilizzare questa tecnica del marketing. Con Bill Clinton sono arrivati gli spin doctors alla Casa Bianca. Nel libro ricordo la performance di Colin Powell alle Nazioni Unite, durante la presidenza di Bush Junior, che usò la menzogna delle armi di distruzione di massa per motivare l’attacco all’Iraq. E i media non sono innocenti, sono un pezzo di questo dispositivo, che usa simulacri, frammenti della storia, cose morte in funzione del potere».
(…). Lei ragiona sulla polis ma il mondo si è fatto più grande, si è globalizzato.
«La polis è lo spazio ordinato che respinge fuori dalle sue mura il caos esterno. Noi abbiamo giustamente gioito quando sono caduti tutti muri, compreso quello principale, con la M maiuscola. Ma abbiamo sottovalutato le conseguenze, l’irruzione del caos, il ritorno di forme primordiali del potere. I demoni del potere, che la Grecia antica conosceva bene e sapeva dominare: lo specchio di Perseo, le corde che legano Ulisse all’albero sono delle tecniche che pongono un diaframma fra noi e il potere nudo. Consentono di dominare il racconto anziché esserne dominati. D’altra parte il Novecento è disseminato di indizi, sulla fine del racconto. Fu Primo Levi a parlarci della Medusa. La fine del racconto è nella inenarrabilità dell’esperienza limite, di Auschwitz».

Nessun commento:

Posta un commento