Scrive Dario Fo – il Fatto
Quotidiano, “La brutalità tecnica di
Monti” -: (…). Dice Queneau, il filosofo: “Ognuno soffre di un duro trattamento
solo in conseguenza della sua collocazione nella società e in seguito alla
probabile reazione adeguata che esprime davanti a ciò che considera sopruso”.
Quindi è una costante matematica: la violenza del potere si proietta dal basso
verso l’alto in rapporto alla potenza economica di cui il colpito dispone. (…).
E qualcuno dovrà pur pagare. La situazione drammatica in cui viviamo la si può
capovolgere solo se ogni cittadino partecipa al salvataggio. Se poi, in seguito
alla reazione di alcuni gruppi economici, chiamiamole lobby, il governo è
costretto a ritirare le proposte che imporrebbero a costoro di versare il
dovuto, non facciamone una tragedia, spingiamo un po’ di più l’acceleratore su
coloro che non possiedono né mezzi, né santi in paradiso o deputati in
Parlamento a proprio comando. Saranno loro a pagare anche per quelli che
avrebbero i mezzi per risolvere democraticamente ed egalitariamente il loro
compito civile. (…). È una dovuta, necessaria anticipazione
all’intervista, che di seguito trascrivo in parte, che il professor Marco
Revelli ha rilasciato al quotidiano l’Unità – “Potere belluino” – a firma di Jolanda Bufalini. È la “stortura”
nei rapporti sociali della quale “stortura” si sono avvantaggiate le
classi dominanti per creare quella “melassa sociale” – il termine è mio
e fa un po’ il verso alla “poltiglia” del sociologo De Rita -,
quell’indistinto zuccheroso che ha reso deglutibile e meno amaro il calice
delle diseguaglianze dilatatesi a dismisura nei lustri correnti. È il miracolo
del liberismo più sfrenato. Sosteneva Goffredo Fofi – “La vocazione minoritaria”, Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12
-: “Una
delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i
poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la
volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva,
anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che
peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene
dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una
cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non
ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come
maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguire ogni esempio. (…)”. E
sono così trascorsi gli anni infami dalla “discesa in campo”, che tanto
malanno ha arrecato al tessuto sociale ed alla sensibilità etica dell’italico
popolo. La “melassa sociale”, zuccherosa quanto mai, ha consentito e
facilitato la “dissoluzione degli aggregati sociali” – volgarmente denominati
“classi”
– che ha determinato la caduta dei principi e, perché no, la caduta del primato
della politica come arte suprema di regolazione degli inevitabili, salutari,
conflitti sociali. Come simbolo degli anni vissuti pericolosamente sull’orlo di
un precipizio etico, morale e di dissoluzione del capitalismo industriale, a
tutto vantaggio di un capitalismo di pura finanza creativa, andrebbe preso per
l’appunto il mito della Medusa che, per dirla con le parole del professor
Revelli, è “ il simbolo di un potere belluino, dallo sguardo pietrificante”.
Che ha pietrificato le coscienze.
(…). Professore, ne «I demoni del
potere» lei parte dal «genocidio finanziario» della Grecia per avventurarsi in
una ricognizione dei miti che accompagnarono la nascita della polis antica, la
Medusa e Perseo, le sirene e Ulisse. (…). Il primo mito è quello della Gorgone
o Medusa.
«La Medusa è il simbolo di un
potere belluino, dallo sguardo pietrificante. Lo scudo di Perseo nel quale
quello sguardo si riflette, lo addomestica. Questo addomesticamento del potere
è un pilastro dell’incivilimento che nasce con l’invenzione della città. Nel
Novecento la funzione di addomesticamento del potere l’ha svolta il conflitto
sociale, l’azione collettiva del movimento operaio ha tenuto sotto controllo i
demoni del potere. È impressionante guardare le statistiche degli scioperi: le
guglie fra gli anni Cinquanta e Settanta che sforano le 100.000 giornate di
sciopero. È il periodo che Hobsbawm (di recente scomparso n.d.r.) definisce l’età dell’oro del
capitalismo contemporaneo, quando alla crescita dell’economia e del welfare si
accompagnò un conflitto sociale esteso e potente. Quella azione collettiva
teneva a bada la forza belluina del potere, producendo al tempo stesso
solidarietà sociale. Poi il grafico precipita, la curva si fa piatta, si torna
a grandezze ottocentesche, come se il Novecento, il secolo del lavoro, fosse
stato una parentesi».
Cosa è successo?
«È stato infranto lo specchio di
Perseo. Il paradigma neoliberista ha rimosso il conflitto sociale dall’orizzonte
pubblico. Il lavoro, che la nostra Costituzione mette a fondamento della
repubblica, si è atomizzato, privatizzato, il lavoratore singolo si trova nudo
di fronte a questo potere enorme. (…). Credo che all’origine della svolta c’è
una sconfitta storica del lavoro, i cui termini si possono pesare: lo studio di
Luci Ellis e di Kathryn Schmit per la Banca dei regolamenti internazionali ha
messo in evidenza che nei maggiori paesi industrializzati, i salari hanno perso
in 30 anni 8 punti percentuali, Luciano Gallino ha calcolato, nel suo
bellissimo La lotta di classe dopo la lotta di classe che in Italia 250
miliardi di euro si sono trasferiti dai salari ai profitti».
La famiglia mitologica del
potere, scrive, non è molto simpatica: Krato è figlio di Stige, fratello di Bia
(la forza), di Nike e Zelo. Di contro c’è la polis.
«La polis è il soggetto
collettivo che, al riparo delle sue mura, produce la legge. Nel Novecento la
fabbrica ha espresso questa identità collettiva. Non era un’arcadia, non era un
mondo armonico, ma il conflitto si sviluppava fra forze alla pari, mentre ora
c’è una gigantesca asimmetria, l’individuo si trova in competizione con
un’infinità di potenziali nemici in concorrenza fra loro, allo stesso grado
della piramide sociale. La crisi della politica è dentro questa dissoluzione
degli aggregati sociali. I grandi poteri non hanno volto, non si sa dove siano
ma si sentono quando cala la scure, come ad Atene, dove le maestre raccontano
che gli allievi svengono in classe per la fame».
Lei usa un altro mito, quello di
Ulisse che con l’astuzia ascolta ma resiste al canto delle sirene. «Nell’orrore
in cui siamo precipitati c’è la perdita del racconto. Ulisse trasforma le
sirene da cantanti in canto, in una ricapitolazione di senso. È la parabola della
civilizzazione che, con la storia, dice all’uomo chi è. Oggi il racconto non
c’è più, al suo posto c’è uno zombie, qualcosa che assomiglia alla storia ma
non lo è. Lo story telling che viene dall’alto non racconta l’esperienza del
passato ma disegna i comportamenti futuri».
Viene in mente una canzone di
Francesco De Gregori, «La storia siamo noi». Non è più così? «Con lo story
telling è il potere che riconfigura la storia degli uomini, cominciò Ronald
Reagan ad utilizzare questa tecnica del marketing. Con Bill Clinton sono
arrivati gli spin doctors alla Casa Bianca. Nel libro ricordo la performance di
Colin Powell alle Nazioni Unite, durante la presidenza di Bush Junior, che usò
la menzogna delle armi di distruzione di massa per motivare l’attacco all’Iraq.
E i media non sono innocenti, sono un pezzo di questo dispositivo, che usa
simulacri, frammenti della storia, cose morte in funzione del potere».
(…). Lei ragiona sulla polis ma
il mondo si è fatto più grande, si è globalizzato.
«La polis è lo spazio ordinato
che respinge fuori dalle sue mura il caos esterno. Noi abbiamo giustamente
gioito quando sono caduti tutti muri, compreso quello principale, con la M
maiuscola. Ma abbiamo sottovalutato le conseguenze, l’irruzione del caos, il
ritorno di forme primordiali del potere. I demoni del potere, che la Grecia
antica conosceva bene e sapeva dominare: lo specchio di Perseo, le corde che
legano Ulisse all’albero sono delle tecniche che pongono un diaframma fra noi e
il potere nudo. Consentono di dominare il racconto anziché esserne dominati.
D’altra parte il Novecento è disseminato di indizi, sulla fine del racconto. Fu
Primo Levi a parlarci della Medusa. La fine del racconto è nella inenarrabilità
dell’esperienza limite, di Auschwitz».
Nessun commento:
Posta un commento