È fortunosamente sopravvissuta,
nel mio e-book, una sezione del defunto blog che aveva per titolo Tatze-bao. Ho
così “ripescato” – alle pagine 2542 e 2543 - il primo post (16 di giugno 2010) di
quella sezione che ha per titolo “Il wcm
e le nuove povertà”. Mi ha spinto a farlo la visione del film “Le
couperet” – uscito in Italia il 10 di febbraio dell’anno 2006 col titolo “Cacciatore di teste” – del grande regista
Costa-Gavras. Il film è dell’anno 2005: si era ancora ben lontani dalla crisi
dei mutui “sub-prime” e dalla crisi
finanziaria globalizzata. Ma uno dei protagonisti – riferisco a memoria – ad un
certo punto chiede: a chi saranno vendute le merci se si impoveriscono le
grandi masse del ceto medio dell’Occidente? Una profezia? No. Una banalissima
constatazione. E siamo all’oggi, con la crisi dei consumi. Scrive Étienne
Balibar nel Suo lavoro “Cittadinanza”
– (2012) Bollati Boringhieri, pagg. 178 € 9 -: “(…). …il neoliberalismo non è
soltanto una ideologia, è una mutazione della natura stessa della politica,
veicolata da attori che si collocano in tutti i comparti della società. In
realtà si tratta della nascita di una forma altamente paradossale dell’attività
politica, perché non soltanto tende a neutralizzare quanto più possibile
l’elemento di conflittualità insito nella sia figura classica, ma vuole
privarla preventivamente di ogni significato, e creare le condizioni di una
società in cui le azioni degli individui e dei gruppi (anche quando sono
violente) rientrano oramai in un unico criterio: quello dell’utilità
quantificabile. Non si tratta dunque tanto di politica quanto di antipolitica,
di neutralizzazione o di abolizione preventiva dell’antagonismo sociopolitico.
(…)”. E l’Italia ha rappresentato un ottimo laboratorio di
sperimentazione socio-politica. Ed il governo dei “tecnici” è stato
pedissequamente nella scia del neoliberalismo che è il progenitore
dell’antipolitica al potere.
“Chi poteva immaginare, solo una
decina di anni addietro, che il cosiddetto capitalismo finanziario avrebbe
messo in pericolo l’esistenza del capitalismo stesso? Che avrebbe messo così a
nudo le sue contraddizioni?”. Predrag
Matvejevic, nato a Mostar nella Bosnia-Erzegovina, è professore ordinario di
slavistica all'Università la Sapienza di Roma. È guardando l’eterno respiro del mare, il suo avanzare e poi il
suo indietreggiare incessante, incurante degli esseri umani e dei loro affanni,
che l’idea si è fatta prepotentemente strada. L’idea è però trasferita ed
applicata alle quotidiane cose degli umani. Che non hanno un respiro eterno.
L’onda avanzante della globalizzazione non ha risparmiato angolo alcuno del pianeta
chiamato Terra. È avanzata prepotente, dirompente, quasi senza ostacolo alcuno.
Ma da quell’atto dell’avanzare ne sta seguendo un altro di arretramento, che
trascina con sé la sorte e la morte dei “diritti sociali“ prima faticosamente
conquistati. Era scritto nelle cose. Sarebbe stato giusto e segno di
lungimiranza guardarci dentro con più attenzione. Nel riflusso dell’onda lunga
della globalizzazione si pretende di estendere, per ogni dove, le nuove regole,
quelle imposte prima ai paesi poveri di un tempo: pochi diritti in cambio di un
lavoro che sia. L’onda lunga del capitalismo globalizzato ritorna così con il
suo “eterno” fluire, flusso e
riflusso, cercando di imporre, in tutti i contesti sociali ed economici, le
regole delle nuove povertà, povertà nei diritti se non ancora nei salari, in
tutti gli anfratti produttivi del pianeta Terra. Vorrà significare ciò
Pomigliano e la sua storia? Diverranno tutti i luoghi di produzione dell’Occidente
del pianeta Terra tante “pomigliano”,
con un lavoro che sia, ma senza diritti? E se poi si imponesse alle nuove “pomigliano”, sempre in cambio di un
lavoro che sia, anche salari più bassi e meno diritti ancora? Vincerà su tutti
i fronti l’onda del riflusso della globalizzazione? A chi dice che è sempre
meglio un lavoro che sia, anche senza i diritti faticosamente conquistati dalle
masse operaie dell’Occidente avanzato, un lavoro che sia magari, in un avvenire
ormai prossimo, con remunerazione sempre più bassa, come nella fase del flusso
originario della globalizzazione nei paesi non avanzati, a chi asserisce tutto
ciò, cosa rispondere? “(…) … la
riduzione delle pause da 40 a
30 minuti giornalieri. Un'inezia? Per molti sì, non per le tute blu. Facciamo
un esempio: sulla linea della futura Panda (nella nuova catena di montaggio
della Panda di Pomigliano n.d.r.) la
differenza di 10 minuti equivale a 8,3 operazioni in più per turno, quante se
ne fanno in 600 secondi. Che diventano 25 automobili in più nell'arco della
giornata. In un anno quei piccoli dieci minuti sono diventati 6.650
automobili.(…)”. “6.650”
auto in più prodotte. Così scrive Paolo Griseri sul quotidiano “la
Repubblica” – “La fabbrica che non
spreca un minuto così nasce l’operaio a ciclo continuo” - a proposito del World
class manufacturing – il Wcm -, ovvero la cronometrizzazione computerizzata del
lavoro umano in quel di Pomigliano. Auto in più, tante, tantissime, da vendere
a chi, se gli operai saranno sempre di più depredati non solo di diritti ma
anche del salario? Questo surplus di produzione, troverà uno sbocco nel mercato
globale impoverito? O forse poi, attaccando sempre sulle stesso fronte, per
smaltire il surplus produttivo, si richiederanno altri sacrifici ancora per un
lavoro che sia? Senza diritti e poco salario? Non diviene tutto ciò una
stortura, una contraddizione? L’immagine del cane che cerca di mordere la
propria coda; è forse l’immagine di un capitalismo senza più una via d’uscita? Ne ha scritto il sociologo del lavoro Luciano
Gallino sul quotidiano “la Repubblica” col titolo “La globalizzazione dell´operaio”. Di seguito lo trascrivo in parte.
“(…) …19 pagine sulle 36 del
documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla
‘metrica del lavoro’. Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i
movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e
dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo.
Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei
tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è
l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma
soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World
Class Manufacturing (Wcm, che sta per produzione di qualità o livello
mondiale). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due
scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture
anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo
di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta
di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza
produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi
puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo
del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa
di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere
il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si
stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la
metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile
come robot. È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita
fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del
Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il
primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più
basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là
da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia
neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere
verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinché si
allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi
economica esplosa nel 2007
ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici,
industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è
quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti:
sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al
loro livello. (…). Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di
lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro
i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio
paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la
mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla
politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte
con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla
politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative
esistono, per le persone non meno per le imprese”.
Nessun commento:
Posta un commento