Scrive Alberto Asor Rosa – oggi
su la Repubblica, “La scomparsa del
popolo” -: (…). …il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti,
spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale,
individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (…).
Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro
che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di
assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo
che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero,
grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe
tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o
del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori,
ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi
famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga
astinenza (…). (…). Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente
corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha
cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi
dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari.
Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e
sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è
effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne
facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare
con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del
potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente. In un Paese
come il nostro dove le peuple non è quasi mai realmente esistito e l’idea di
nazione è sempre stata così fragile e precaria (…), la regionalizzazione ha
aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto
politico improvvisato e parassitario. (…). Se queste considerazioni fossero
minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe
emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione,
diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè
nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di... fioritura. La situazione è
tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume
modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non
solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche,
dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento,
alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il
compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani:
moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la
riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma
economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?
Esisteva nella precedente versione di questo blog una rubrichetta che portava
il titolo “Mal d’Italia”. Scorrendo
i fogli elettronici dell’e-book che le è sopravvissuto – alla precedente
versione del blog -, alla data del 15 di dicembre dell’anno 2005 ho “ripescato”
– alle pagine 725 e 726 - il post numero sette della rubrichetta predetta. Ove
si afferma che “il furbo è un eversore dell’ordinamento”. Eversore. Sette anni
che sembrano non essere trascorsi se ancora oggi ci si dimena nelle spire
assassine della corruzione e della malversazione. Con una estensione del male che,
come scrive Asor Rosa, dilaga impregnando tutte le istituzioni periferiche del
bel (sic!) paese. Mi ritrovo da qualche giorno, nei miei post, a fare cenno al
ventre molle di quello che viene comunemente definito il “ceto medio”. È che da
esso, da quel ventre molle, viene a rifornirsi l’”antipolitica” al potere
– ovvero la cattiva politica condotta con altri mezzi - del personale più
indecoroso che si possa immaginare e meritevole di altre destinazioni. La
lettura della analisi del professor Asor Rosa mi è stata nell’occasione di
conforto e di sostegno ai miei convincimenti. Di seguito ripropongo il post di
quel 15 di dicembre (2005), a sostegno di un’intuizione e di un pensare che è
sotto gli occhi smarriti dei tanti abitatori di questo malandato paese.
“Farsi furbo” è il titolo del capitolo ventesimo del
volume “Il paese del pressappoco” di
Raffaele Simone, volume che è fonte inesauribile di riflessioni sul male che
affligge il bel paese, che è il suo stesso vivere quotidiano, di questa
rubrichetta. “Farsi furbi” è una regola nazionale inderogabile, è uno sport
nazionale praticato a tutte le età ed in tutte le classi (a)sociali del bel paese; è l’istruzione primaria, intendendosi in
tal senso quella tipicamente familistica del bel paese, che pone la conquista
della predetta abilità come propedeutica a tutte le altre abilità, competenze e
qualsivoglia altra astruseria. Ha lasciato scritto nel suo saggio “ Un paese a civiltà limitata “ un
grande maestro quale è stato Paolo Sylos Labini, scomparso di recente: “(…). … in Inghilterra è tenuto in grande
considerazione il carattere, da noi invece l’astuzia. Da quando ho l’età della
ragione dico che, se fossimo un po’ più grulli, vivremmo tutti meglio. È ben
difficile immaginare un paese veramente civile in cui gran parte delle persone
di rilievo sono furbe e in cui chi si fida degli altri è considerato un
ingenuo, ossia uno sciocco”. Aveva ben ragione il grande maestro, e la
piccola incursione operata in questa rubrichetta con la predetta Sua citazione
vuole essere un ulteriore omaggio alla Sua carissima memoria.
“(…). Il furbo è (…) un eversore
dell’ordinamento. Infatti, in chi furbo non è, il furbo suscita un turbine di
valutazioni e confronti, i cui esiti possono essere due. Uno è quello di chi
dice: - Un altro furbo! Che pena! – La chiamerei la ‘risposta istituzionale‘,
perché finisce per confermare in chi la emette un atteggiamento di rispetto delle
regole. L’altro dice: - Sono uno sciocco a non fare come lui! Finirò per essere
un emarginato -. Questa è la ‘risposta eversiva’, perché crea instabilità e
incertezza in chi la pronuncia e lo induce a cambiare linea di condotta per
uniformarsi a quella del furbo. Quale delle due risposte tenderà a prevalere?
In Italia, è chiaro, la seconda. Perché per svuotare di contenuto la risposta
eversiva e imporre quella istituzionale occorre un sistema di law enforcement,
quale noi non abbiamo o abbiamo debolissimo. ( Uso quest’espressione inglese
solo per non sembrare un reazionario. Dovessi usare il giusto termine direi che
occorre ‘un sistema di repressione‘ o ‘di punizione‘. Ma repressione è una
parola ormai inutilizzabile. Law enforcement, ‘imposizione della legge‘, vuol
dire la stessa cosa, ma ne evoca una diversa. ). Se il sistema di law
enforcement operasse fortemente vedremmo i furbi ridotti coram populo al
rispetto di leggi e norme. Filosoficamente, la punizione bene amministrata è
una risorsa di ‘riconduzione forte alla cittadinanza’, ha quindi un essenziale
valore aggregante. Ora invece, siccome il law enforcement non funziona, tendono
a prevalere le risposte destabilizzanti: - Se lui è furbo, mi farò furbo
anch’io -. Uno dei motti basici della nostra morale familiare dice appunto: -
Fatti furbo! – Abbiamo anche il terribile proverbio: ‘Finita la festa, gabbato
lu santo‘, che si appella al medesimo principio. (…). Il furbismo alligna
poderoso presso tutti i ceti, quelli popolari come quelli colti e finanche
presso gli intellettuali. Si presenta soprattutto sotto forma di qualunquismo
plebeo (Franza o Spagna, purché se magna), un atteggiamento che ‘è sempre stato
maggioritario nell’Italia repubblicana‘. Ma appare anche sotto forma di
doppiezza (trasformismo, consociativismo): multipla appartenenza a partiti o
movimenti, sostegno a posizioni antitetiche, propensione alla trama (che non è
la connivenza con chi dovrebbe essere avversario), tutte tendenze che hanno
segnato in profondità la nostra storia della seconda metà del Novecento, dal
Piano Solo alla P2.“
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