"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 25 ottobre 2012

Capitalismoedemocrazia. 31 L’ultima classe.



“L’ultima classe” è il titolo dell’interessante riflessione del professor Luciano Gallino – la Repubblica, 22 di settembre 2012 – scritta in occasione della pubblicazione del volume “Precari. La nuova classe esplosiva” di Guy Standing (il Mulino editore, pagg. 304, € 19,00). Una nuova “classe”, anzi l’ultima delle “classi” a detta dell’illustre sociologo, ma senza la consapevolezza della sua condizione. Scrive infatti l’illustre recensore che “essendo pressoché priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico, e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente difficili”. È il grande smarrimento artatamente creato affinché dalla “melassa sociale” così composta si potesse ottenere il massimo dei vantaggi in fatto di globalizzazione e di arretramento sul piano dei diritti faticosamente acquisiti dai prestatori d’opera. Poiché la mancata coscienza di “classe” diffusa ha determinato anche l’arretramento dell’azione della politica in gran parte del mondo occidentale e la trasformazione – di quell’azione – in un mercanteggiamento al ribasso in fatto di diritti e di difesa del lavoro che oggigiorno non è più “considerato dignitoso” non offrendo “al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali”. È su questo aspetto non secondario che si è giocata, e forse perduta, la battaglia delle cosiddette forze della “sinistra”. Scrive Ètienne Balibar – in “La cittadinanza” Bollati Boringhieri Editore (2012), pagg. 178, € 9 – alla pagina 61 del Suo pregevolissimo lavoro: “(…). Non sembra necessario dilungarsi (…) su come la lotta di classe abbia svolto un ruolo democratico essenziale nella storia della cittadinanza nazionale moderna. Ciò è dovuto al fatto che le lotte organizzate dalla classe operaia (…) hanno portato al riconoscimento e alla definizione da parte della società borghese di alcuni diritti sociali fondamentali, che lo sviluppo  del capitalismo industriale rendeva al tempo stesso più urgenti e più difficili da imporre, contribuendo con ciò alla nascita di una cittadinanza sociale. (…)”. Scomparsa l’idea della lotta - e per giunta di “classe” - ne è sopravvissuta una forma alienante di (non)-partecipazione alle problematiche del lavoro che vede l’ultima delle classi “diventare tra non molto la maggioranza” dei prestatori d’opera, e pur divenuta “maggioranza”, senza un risveglio delle coscienze, quella moltitudine permanere nella condizione asfissiante dell’anonimato e della solitudine, così come è vissuta oggigiorno dai milioni e milioni di esseri umani sprofondati in una condizione oggettivamente amarissima “di frustrazione, rabbia, disperazione”. Ne viene fuori una allarmante verità per la quale, laddove sia regredita la “lotta di classe” è in pari tempo regredita l’idea stessa “di una cittadinanza sociale” matura e consapevole, poco incline quest’ultima a concedere deleghe facili al ceto politico del momento e sul quale poi essa non cessa di mantenere una costante azione di vigilanza, essendo la mancata azione di vigilanza causa prima dell’arretramento della politica nella forma attuale dell’”antipolitica” al potere. 

(…). Il lavoro viene considerato dignitoso quando offre al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali. (…). La precarietà, intesa soprattutto come una prolungata sequenza di lavori di breve durata, non offre nessuna di tali sicurezze, e dove esse esistono le distrugge. La prima sicurezza che il lavoro precario viene a negare è ovviamente quella del reddito. Pur nei casi in cui un singolo periodo di occupazione sia ben retribuito, è raro che un precario arrivi a mettere insieme più di otto o nove mensilità l’anno. Ma la sua condizione non è gravata soltanto dell’ammontare del reddito. Ciò che rabbuia la vita dei precari è il non sapere se, dove, quando troveranno un’altra fonte di reddito, una volta scaduto il contratto in essere. Altre pesanti insicurezze derivano dal potere arbitrario di cui un datore di lavoro dispone nei confronti del precario in tema di costi che questi deve sopportare e regole che deve seguire; di possibilità di mantenere il proprio ruolo professionale; di potersi esprimere per mezzo di una rappresentanza collettiva sul mercato del lavoro. Per tacere della protezione dai rischi di incidente e malattia, e della sicurezza di ricevere una formazione adeguata. Nessuna impresa investe volentieri un euro in tali ambiti, quando sa che la lavoratrice che dovrebbe esserne oggetto se ne andrà presto perché ha un contratto in scadenza. I precari costituiscono ormai una grossa minoranza dei lavoratori nel mondo, e potrebbero diventare tra non molto la maggioranza. Sono il prodotto della globalizzazione, del conflitto che è stato scientemente provocato tra i lavoratori dei paesi sviluppati con salari da 25 euro l’ora e quelli dei paesi emergenti che ne guadagnano uno e fanno orari doppi. Nonché delle forti pressioni che i politici come le imprese hanno esercitato per rendere più flessibile l’occupazione, dando a intendere sin dagli anni Ottanta che in tal modo sarebbe cresciuta. Formano una classe in sé, i precari, in quanto condividono tutte le insicurezze sopra ricordate; tuttavia, (…), sono lungi dal formare una classe per sé, ossia una collettività consapevole della propria situazione e capace di intraprendere adeguate iniziative politiche al fine di migliorarla. Rappresentano una classe pericolosa (…) per diversi motivi. Essendo attraversata da sentimenti di frustrazione, rabbia, disperazione, essa tende a scaricarli sugli immigrati, le minoranze etniche, o coloro che ancora godono, forse non per molto, di un’occupazione stabile. Inoltre, essendo pressoché priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico, e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente difficili. (…). Tra le fila dei precari ha poca presa la convinzione che l’uscita dalla precarietà potrebbe essere un ritorno al lavoro che offre sì stabilità di occupazione di reddito, e però consiste nello svolgere ogni ora, giorno, settimana, per anni e anni, la stessa stupida mansione che si impara in due giorni e si svolge, sotto il controllo implacabile di un capo o di un computer, in due minuti. Per essere poi ripetuta sempre uguale. Che è il tipo di lavoro imposto dalle imprese a milioni di persone in tutti i paesi sviluppati, e con ancora maggiore durezza a decine di milioni di altre nei paesi emergenti, in forza delle moderne tecniche organizzative. Perciò, se a qualcuno venisse in mente di proporre alla classe sociale dei precari di guardare a un futuro diverso, e ad organizzarsi politicamente per realizzarlo, dovrebbe provare a disegnare con loro un lavoro che oltre a garantire le sicurezze che lo rendono dignitoso, permetta di esercitare mentre lo si svolge intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà di muoversi e di inventare. Un tema di cui si discuteva molto, ricorda (…) chi scrive, forse mezzo secolo fa, prima che la ristrutturazione produttiva e l’ideologia della flessibilità distruggessero, insieme con la stabilità dell’occupazione, anche la capacità di pensare il lavoro. (…).

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