“L’ultima classe” è il titolo dell’interessante riflessione del
professor Luciano Gallino – la Repubblica, 22 di settembre 2012 – scritta in
occasione della pubblicazione del volume “Precari.
La nuova classe esplosiva” di Guy Standing (il Mulino editore, pagg. 304, €
19,00). Una nuova “classe”, anzi l’ultima delle “classi” a detta
dell’illustre sociologo, ma senza la consapevolezza della sua condizione.
Scrive infatti l’illustre recensore che “essendo pressoché priva sia di un’efficace
rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico, e meno che mai
di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di
oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla
scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni
facili e immediate per problemi terribilmente difficili”. È il grande
smarrimento artatamente creato affinché dalla “melassa sociale” così
composta si potesse ottenere il massimo dei vantaggi in fatto di
globalizzazione e di arretramento sul piano dei diritti faticosamente acquisiti
dai prestatori d’opera. Poiché la mancata coscienza di “classe” diffusa ha
determinato anche l’arretramento dell’azione della politica in gran parte del
mondo occidentale e la trasformazione – di quell’azione – in un
mercanteggiamento al ribasso in fatto di diritti e di difesa del lavoro che
oggigiorno non è più “considerato dignitoso” non offrendo
“al
lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza
che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali”. È su
questo aspetto non secondario che si è giocata, e forse perduta, la battaglia
delle cosiddette forze della “sinistra”. Scrive Ètienne Balibar –
in “La cittadinanza” Bollati
Boringhieri Editore (2012), pagg. 178, € 9 – alla pagina 61 del Suo
pregevolissimo lavoro: “(…). Non sembra necessario dilungarsi (…)
su come la lotta di classe abbia svolto un ruolo democratico essenziale nella
storia della cittadinanza nazionale moderna. Ciò è dovuto al fatto che le lotte
organizzate dalla classe operaia (…) hanno portato al riconoscimento e alla
definizione da parte della società borghese di alcuni diritti sociali
fondamentali, che lo sviluppo del
capitalismo industriale rendeva al tempo stesso più urgenti e più difficili da
imporre, contribuendo con ciò alla nascita di una cittadinanza sociale. (…)”. Scomparsa
l’idea della lotta - e per giunta di “classe” - ne è sopravvissuta una
forma alienante di (non)-partecipazione alle problematiche del lavoro che vede
l’ultima delle classi “diventare tra non molto la maggioranza” dei
prestatori d’opera, e pur divenuta “maggioranza”, senza un risveglio
delle coscienze, quella moltitudine permanere nella condizione asfissiante
dell’anonimato e della solitudine, così come è vissuta oggigiorno dai milioni e
milioni di esseri umani sprofondati in una condizione oggettivamente amarissima
“di
frustrazione, rabbia, disperazione”. Ne viene fuori una allarmante
verità per la quale, laddove sia regredita la “lotta di classe” è in
pari tempo regredita l’idea stessa “di una cittadinanza sociale” matura
e consapevole, poco incline quest’ultima a concedere deleghe facili al ceto
politico del momento e sul quale poi essa non cessa di mantenere una costante
azione di vigilanza, essendo la mancata azione di vigilanza causa prima dell’arretramento
della politica nella forma attuale dell’”antipolitica” al potere.
(…). Il lavoro viene considerato
dignitoso quando offre al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per
poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei
suoi rapporti sociali. (…). La precarietà, intesa soprattutto come una
prolungata sequenza di lavori di breve durata, non offre nessuna di tali
sicurezze, e dove esse esistono le distrugge. La prima sicurezza che il lavoro
precario viene a negare è ovviamente quella del reddito. Pur nei casi in cui un
singolo periodo di occupazione sia ben retribuito, è raro che un precario
arrivi a mettere insieme più di otto o nove mensilità l’anno. Ma la sua
condizione non è gravata soltanto dell’ammontare del reddito. Ciò che rabbuia
la vita dei precari è il non sapere se, dove, quando troveranno un’altra fonte
di reddito, una volta scaduto il contratto in essere. Altre pesanti insicurezze
derivano dal potere arbitrario di cui un datore di lavoro dispone nei confronti
del precario in tema di costi che questi deve sopportare e regole che deve
seguire; di possibilità di mantenere il proprio ruolo professionale; di potersi
esprimere per mezzo di una rappresentanza collettiva sul mercato del lavoro.
Per tacere della protezione dai rischi di incidente e malattia, e della
sicurezza di ricevere una formazione adeguata. Nessuna impresa investe
volentieri un euro in tali ambiti, quando sa che la lavoratrice che dovrebbe
esserne oggetto se ne andrà presto perché ha un contratto in scadenza. I
precari costituiscono ormai una grossa minoranza dei lavoratori nel mondo, e
potrebbero diventare tra non molto la maggioranza. Sono il prodotto della
globalizzazione, del conflitto che è stato scientemente provocato tra i
lavoratori dei paesi sviluppati con salari da 25 euro l’ora e quelli dei paesi
emergenti che ne guadagnano uno e fanno orari doppi. Nonché delle forti
pressioni che i politici come le imprese hanno esercitato per rendere più flessibile
l’occupazione, dando a intendere sin dagli anni Ottanta che in tal modo sarebbe
cresciuta. Formano una classe in sé, i precari, in quanto condividono tutte le
insicurezze sopra ricordate; tuttavia, (…), sono lungi dal formare una classe
per sé, ossia una collettività consapevole della propria situazione e capace di
intraprendere adeguate iniziative politiche al fine di migliorarla.
Rappresentano una classe pericolosa (…) per diversi motivi. Essendo
attraversata da sentimenti di frustrazione, rabbia, disperazione, essa tende a
scaricarli sugli immigrati, le minoranze etniche, o coloro che ancora godono,
forse non per molto, di un’occupazione stabile. Inoltre, essendo pressoché
priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento
politico, e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed
elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di
Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra
che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente
difficili. (…). Tra le fila dei precari ha poca presa la convinzione che
l’uscita dalla precarietà potrebbe essere un ritorno al lavoro che offre sì
stabilità di occupazione di reddito, e però consiste nello svolgere ogni ora,
giorno, settimana, per anni e anni, la stessa stupida mansione che si impara in
due giorni e si svolge, sotto il controllo implacabile di un capo o di un
computer, in due minuti. Per essere poi ripetuta sempre uguale. Che è il tipo
di lavoro imposto dalle imprese a milioni di persone in tutti i paesi
sviluppati, e con ancora maggiore durezza a decine di milioni di altre nei
paesi emergenti, in forza delle moderne tecniche organizzative. Perciò, se a
qualcuno venisse in mente di proporre alla classe sociale dei precari di
guardare a un futuro diverso, e ad organizzarsi politicamente per realizzarlo,
dovrebbe provare a disegnare con loro un lavoro che oltre a garantire le
sicurezze che lo rendono dignitoso, permetta di esercitare mentre lo si svolge
intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà di muoversi e di inventare. Un
tema di cui si discuteva molto, ricorda (…) chi scrive, forse mezzo secolo fa,
prima che la ristrutturazione produttiva e l’ideologia della flessibilità
distruggessero, insieme con la stabilità dell’occupazione, anche la capacità di
pensare il lavoro. (…).
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