Scriveva (1977 ) quel grande Maestro che è stato Norberto Bobbio in «Italie
’77. Le mouvement et les intellectuels» : (…). Lascio volentieri ai
fanatici, cioè a coloro che vogliono la catastrofe, e ai fatui, cioè a coloro
che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti. Il
pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un
dovere civile. Un dovere civile, perché soltanto un pessimismo radicale della ragione
può destare qualche fremito in coloro che, da una parte o dall’altra, mostrano
di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri. (…). Ed il
Suo pessimismo ha motivo e ragione d’essere oggigiorno, gli sopravvive come amorevole
lascito Suo, nello spaventevole spettacolo che, dalle Alpi a Capo Lilibeo il
bel paese offre all’intero globo terracqueo. Poiché dal suo orizzonte, intendo
dire del bel paese, è definitivammente scomparso il senso proprio e profondo di
cosa possa intendersi, di cosa voglia « dire che una cosa è pubblica ».
Ripesco nel mio e-book, alle pagine 712 e 713, un post del 15 di luglio
dell’anno 2006 che ripropongo nella sua sempiterna attualità.
Mi è capitato solo l’altro giorno, al mio rientro dalla solatia isola
di Trinacria, di utilizzare come pubblico mezzo di trasporto i famosi traghetti
dello stretto. Sistemati comodamente nel salone grande della nave, ben
refrigerato giusto per contenere il caldo afoso della stagione, si deplorava
con la mia consorte il poco corretto atteggiamento di due gaglioffi che
ineducatamente stendevano le estremità dei loro arti calzati sulle poltrone
loro prospicienti. All’improvviso un piccolo miracolo di efficienza: un addetto
della nave compariva inopinatamente e redarguiva con energia i gaglioffi in
questione. Straordinario! Inatteso! Inimmaginabile! Non ci era mai capitato di
assistere a tanto zelo da parte di un addetto alla cosa pubblica. Ma più
straordinario ancora è stato vedere un altro passeggero, più a noi prossimo,
stendere le sue estremità calzate sulle prospicienti poltrone non appena
sparito lo zelante addetto. Una sfida! Per non tediare più di tanto, la
questione si è risolta al ricomparire dell’addetto e al pronto ritiro in
posizioni più ammodate degli arti del balordo di turno. Al capitolo
ventinovesimo, “Danni da tutti”, del
bel libro di Raffaele Simone “Il paese
del pressappoco”, fonte inesauribile o quasi della rubrichetta “Mal
d’Italia”, si discetta per l’appunto di cosa pubblica e di come la stessa venga
percepita e considerata dagli abitatori del bel paese.
“…che vuol dire che una cosa è pubblica? Significa che non appartiene al
singolo individuo ma alla collettività, quindi che è di tutti. Ma in che senso
è di tutti? La risposta a questa domanda è fondamentale per capire il Mal
d’Italia. Vedo almeno due interpretazioni possibili. Una cosa è di tutti nel
senso che ognuno può farne quel che gli apre: quindi nel senso che è esposta
all’arbitrio di ciascuno, perfino al rischio di essere distrutta nel corso del
suo uso. Ma può esser di tutti anche nel senso che ognuno può farne un uso
libero, ma limitato dall’obbligo di non danneggiarla e di lasciarla integra
perché anche gli altri la usino. Si converrà che l’interpretazione giusta è la
seconda. E lo è, se non altro, per un motivo pratico: è l’unica che lasci che
il bene pubblico sopravviva all’uso che ne viene fatto e possa offrirsi a usi
ulteriori da parte di altri, più tardi e sempre ancora. Quindi, non prevede la
distruzione del bene a seguito del suo impiego, ma ne contempla la
sopravvivenza e il prolungamento nella pubblica fruizione. In questo senso,
direi, quell’interpretazione è più intelligente della precedente. Ma, ahimè,
l’accezione di pubblico che prevale da noi è la prima: una cosa pubblica può
essere usata da tutti senza limiti e può finanche non sopravvivere a questo
impiego e rimanere distrutta nell’uso. Questa peculiare interpretazione, che
costituisce uno dei cardini del Pensiero Italiano, è dovuta al fatto che, mancando
l’alleanza, prevale lo spirito di famiglia. Nei paesi in cui manca l’alleanza,
il senso della collettività è basso o nullo e scende in proporzione anche il
significato di ciò che possiamo trattare come patrimonio collettivo. ‘La
mancanza di una sensibilità comunitaria degli italiani – di una idea di patria
se si preferisce – non si è rivelata né consolidata nei cinquant’anni trascorsi’
assicura un libretto recente (“Il
bisogno di patria” di Barberis n.d.r), ma
‘ chiama in causa almeno cinque, se non quindici secoli’. Quindi è una storia
vecchia di cui noi portiamo le conseguenze. Ma l’antichità del dato di fatto ci
assolve e consola solo in minima parte. (…). Per questo da noi è nato un
concetto di bene pubblico fortemente anarchico e dissipativo, coltivato in
specie dall’ampia fascia di praticanti del pensiero plebeo. Ciò che è pubblico
‘all’italiana’ si caratterizza quindi per due tratti che lascerebbero attonito
uno straniero e darebbero parecchio da fare ai filosofi del diritto. Anzitutto,
il bene pubblico è esposto al rischio permanente di ricevere danni da tutti,
quindi è (in senso letterale) comunemente danneggiabile. Capita spesso infatti,
quando si richiama qualcuno al rispetto della proprietà pubblica, di sentirsi
rispondere: - Non è tuo, è di tutti, quindi ne faccio quel che voglio! – Battute
volgari di questo genere offrono la migliore ermeneutica di questa proprietà
costitutiva. In secondo luogo, il bene pubblico è liberamente appropriabile,
perché viene facilmente assimilato alla proprietà privata, nella quale spesso
trapassa per una semplice confusione dei confini. Il paralogismo sottostante è
semplice: se è di tutti è come se fosse di nessuno, quindi può diventare mio. In
questo modo gli italiani mostrano di creder davvero che ‘dal punto di vista
della razionalità individuale il bene pubblico non esiste, è un’entità che
trascende il mondo dell’esperienza individuale‘. Chi glielo fa fare, a loro, di
curarsi di qualcosa che non esiste neppure? ‘I beni pubblici, essendo al di là
di questo mondo, sono perseguiti solo dagli ipocriti o dai folli’, non dai
furbi che noi siamo. (…)”.
È sempre il pessimismo del grande
Maestro che ha ispirato Carlo Galli nello scrivere – su la Repubblica del 19 di
luglio 2012 - “Lo scandalo del
Porcellum”? (…). La pretesa di garantire
tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare
l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé
naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: (…).
È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul
meccanismo del "rilancio": poiché non si può dire semplicemente No al
cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili,
(…) che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile.
Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. (…). Il ceto
politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella
sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna
responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il
Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro
più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di
questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che
parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua
nazionale della politica. (…). Per dirla a muso duro, han ben poca
coscienza di come possa definirsi la “cosa pubblica”. Io resto
irrimediabilmente “pessimista”. E non per un atteggiamento snobistico, per paura
delle “élite”. Se sono queste le “élite”, come non esserlo? Che il
grande Maestro sia stato un impolitico?
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