Mi dice: - Ha telefonato D. -.
Taccio. Da per scontato, forse, un certo mio disinteresse all’argomento?
Incalza: - D. ha visto alla televisione l’incendio -. Abbozzo una risposta
onomatopeica: uhm! È che sul luogo dell’incendio noi c’eravamo. D. l’aveva
visto solo alla televisione. Aggiunge: - E noi non abbiamo visto nulla -. Provo
a replicare: - Ma come non abbiamo visto nulla, se siamo sul posto? -. La
televisione rende tutto più reale. Eppure il vastissimo incendio che ha lambito
il centro abitato di ****** ha ricoperto strade, piazze e piazzette, terrazze e
balconi di un velo di scorie che si è dovuto spazzare con fatica. E per chi si
fosse avventurato per le vie di ***** è stato d’obbligo dismettere magliette e
quant’altro impregnati com’erano dall’acre odore dell’incendio. Il reale
vissuto direttamente è ben poca cosa rispetto a ciò che la televisione
trasmette. Lo ha detto la televisione! Quante volte ci è toccato ascoltare tale
apodittica affermazione. Quel che avviene all’interno del “piccolo mostro” è
più reale anche della realtà vissuta. Ritrovo, alle pagine 793 e 794
dell’e-book del “cavalierdelamancia”, il post numero ventinove – del 4 di
febbraio dell’anno 2009 – che ha per titolo “Il mondo e la sua rappresentazione”: che abbiano ragione i
cosiddetti post-modernisti che il reale non esiste ma ne esiste solamente una
individuale interpretazione? Ripropongo di seguito l’interessante post allora
inserito nella rubrichetta “Mediaculturapotere”.
Ho ammesso più volte la mia assoluta
incompetenza in materia. Ma, pur facendo questa mia franca e doverosa
ammissione, sento la necessità di pormi e di proporre inquietanti
interrogativi. E di proporre doverosamente alla riflessione letture importanti
che siano illuminanti. È lo scopo primo di questa rubrichetta senza pretese.
L’interrogativo di fondo, alla luce delle più recenti acquisizioni delle
neuroscienze – ma non per tutti i cervelli della politica del bel paese valgono
ahimè le ultime acquisizioni di quelle strabilianti scoperte – che affermano
essere il cervello in continua e costante evoluzione e trasformazione negli
individui umani, sfatando così una radicata convinzione della sua
immodificabilità dopo la maturità raggiunta, l’interrogativo di fondo dicevo è
in quale misura e per quali vie neuronali e per quali inconsuete sinapsi la
comunicazione tra gli esseri umani possa determinare le ammesse ed ora
riconosciute trasformazioni ed evoluzioni delle strutture cerebrali nell’arco
dell’intera esistenza degli umani. Del resto, i fatti della storia stanno lì a
stimolare inquietanti interrogativi. In quale misura la comunicazione di massa
debitamente strutturata e magnificamente orchestrata ha condizionato un popolo
tutto, quello tedesco per la storia – per tacere pietosamente di un altro
popolo, si fa per dire, aduso al trasformismo e pronto a saltare sul carro del
vincitore del momento -, in quale misura quella comunicazione ha favorito o
indotto la trasformazione delle persone
di quel popolo grande in carnefici e vittime al contempo della tragedia
nazista? Ecco il punto primo. E sì che allora si era nel bel mezzo del
ventesimo secolo, e non era pervenuta, la comunicazione di massa, alla sue
attuali dimensioni intrusive e pervasive nella vita degli individui singoli e
delle collettività planetarie. Io non ho competenza in materia. Posso solo fare
tesoro di esperienze, ahimè banali anzi banalissime, e riproporre le stesse non
certo con la cifra della scientificità. Affondo nei miei ricordi scolastici,
d’insegnante. E di quando sollecitavo i bimbetti di una prima classe,
dell’allora scuola media, sulle loro conoscenze lessicali. E di come una
bimbetta di allora, alla mia richiesta di declamare il nome di un pesce di loro
conoscenza, mi rispondesse “bastoncini
findus”; o quando, volendo accertare quelle loro competenze linguistiche
sollecitando loro a declamare parole che iniziassero con la lettera “d”, mi sia
sentito rispondere “super dash”! La
lettera “d” richiesta vi era contenuta, ma l’esito della esposizione
incontrollata e nella preadolescenza ai pervasivi mezzi di comunicazione e di
persuasione occulta e di massa aveva segnato un punto a suo favore. Avevo di
già raccontato questa banalissima mia esperienza in uno dei post della
rubrichetta “Dell’educare”. Da par Suo ne scrive, con dotta padronanza, Umberto
Galimberti in una Sua corrispondenza pubblicata su di un supplemento del
quotidiano “la Repubblica” col titolo “Il
mondo e la sua rappresentazione”. Ove si parla di un mondo svuotato per
l’appunto della sua intrinseca realtà, per sovrapporvi o meglio sostituirvi il
mondo reso artificiosamente reale e quindi onnicomprensivo del piccolo schermo
e dei mezzi di comunicazione in generale.
“I media, istituendoci come
spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento, ci
consegnano messaggi che veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi
non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini. Da sempre, ma in
modo esponenziale oggi, i fatti non sono significanti in sé, ma dipendono dalla
risonanza che i media concedono loro. Questa risonanza dipende a sua volta
dall'interesse del pubblico (di solito più incuriosito dal gossip che dagli
eventi che turbano il sentimento sociale) e dalla convenienza politica di dare
risalto o meno a un evento. Da questa sequenza risulta che la convenienza
politica viene al primo posto, l'interesse del pubblico al secondo, e il fatto
in sé e per sé all'ultimo posto. Quando il mondo si risolve nella sua
rappresentazione, codificata dalla politica e dai media (questi ultimi proni
all'interesse, quando non alla semplice curiosità del pubblico), chi vi assiste
non ha voce in nessuno degli avvenimenti rappresentati. Questo non aver voce fa
di ciascuno di noi un semplice spettatore che, pur avendo accesso a tutti gli
avvenimenti del mondo, lo ha a quella distanza dove qualunque cosa accada lo
lascia inviolato, per l'assenza di un reale contatto con i fatti, riassorbiti
interamente nella rappresentazione mediatica. Una volta che un evento è risolto
nella sua rappresentazione mediatica, la cui confezione dipende dalla
convenienza politica, qualsiasi notizia, qualsiasi informazione, soprattutto
quando è articolata in immagine, indipendentemente dal suo valore veritativo,
segnala il punto di vista da assumere per prendere in considerazione l'evento,
per cui noi non abbiamo mai a che fare con l'evento, ma sempre e solo con il
suo allestimento. E allora ciò che informa codifica, e l'effetto-codice diventa
criterio interpretativo della realtà, modello induttore dei nostri giudizi, che
poi ci portano a reagire all'evento come abbiamo appreso dal modello induttore.
(…). Ci veniamo così a trovare in una condizione analoga a quella descritta da
Günther Anders in quel racconto per bambini dove si narra questa storia: - Il
re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade
controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo;
perciò gli regalò carrozza e cavalli: 'Ora non hai più bisogno di andare a
piedi' furono le sue parole. 'Ora non ti è più consentito di farlo' era il loro
significato. 'Ora non puoi più farlo' fu il loro effetto –.“
Nessun commento:
Posta un commento