"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 16 maggio 2020

Ifattinprima. 63 «Togliete l’uomo da quel mondo, e perderemo il paradiso, per sempre, per tutti».

Tratto da “Virus in Amazzonia, è il genocidio degli indigeni", intervista di Michele Smargiassi a Sebastiao Salgado pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di maggio 2020:
(…). Salgado, cosa perdiamo se perdiamo gli indios dell’Amazzonia? «Vite umane, prima di tutto: trecentomila persone indifese, esposte deliberatamente al contagio, già questo sarebbe abbastanza per parlare di crimine contro l’umanità. Ma perderemmo molto di più. Perderemmo noi stessi».
La nostra umanità? «La nostra storia, le nostre origini. In Amazzonia esiste forse la più alta concentrazione al mondo di culture diverse in uno spazio circoscritto. Lì vivono 290 comunità, tra cui 102 gruppi etnici che non hanno mai avuto contatti con il resto del mondo, parlano duecento lingue differenti e custodiscono una sapienza nel rapporto con la natura che noi abbiamo perduto. Abbiamo un privilegio enorme e non ce ne rendiamo conto: stiamo ancora vivendo assieme al nostro passato più remoto. Quando ho camminato fra loro, ho visto il me stesso di ventimila anni fa. Se perdiamo loro, uccidiamo noi stessi».
Tutto questo davvero può finire? «Più rapidamente di quanto possiamo pensare. Bisogna fare presto, prestissimo. L’assalto è imponente. Ventimila cercatori d’oro penetrano nella foresta senza autorizzazione, uccidono gli indios, ogni settimana avevamo notizie di omicidi, ma adesso il pericolo è più grave, è la pandemia micidiale. Poi ci sono le sette religiose evangeliche, che hanno mezzi enormi a disposizione, senza alcun permesso arrivano in elicottero, atterrano, portano il morbo ovunque. Tutti vogliono rubare qualcosa agli indios: la terra, il sottosuolo e perfino l’anima. Siamo sull’orlo della catastrofe. Più ancora di cinquecento anni fa, quando le malattie decimarono le popolazioni native, da cinque milioni a poche centinaia di migliaia di persone. Ora rischiano l’estinzione totale».
Il vostro manifesto fa appello a un presidente in cui lei non ha fiducia… «Non è così, il nostro manifesto si rivolge a tutti e tre i poteri istituzionali del Brasile. Non c’è solo un esecutivo, ora in mano a un politico reazionario. C’è un parlamento, ci sono i magistrati. Ciascuno di questi poteri può fare qualcosa, e subito, per fermare il genocidio».
Ritiene che sia opportuno usare questa parola, genocidio? «Sta succedendo esattamente questo. Tutti in Brasile sanno che gli indios sono vulnerabili da malattie di cui non possono elaborare anticorpi. Consentire a quelle malattie di raggiungerli, significa volerlo fare. Bolsonaro, fin dall’inizio, è contro gli indios. Ha abolito tutti i filtri all’ingresso nei loro territori. Sta dalla parte dell’agro-business, degli allevatori di bestiame, dei cercatori di metalli preziosi, delle sette religiose, sono tutti questi che lo hanno eletto. Quello che succede deriva da una volontà politica, non da una distrazione».
Quanto è drammatica la situazione? «Il virus ha colpito centinaia di indios a Manaus, la capitale dell’Amazzonia, si sa di una trentina di decessi, ma il vero pericolo è molto più grande e non riguarda le comunità che vivono vicino alle città. Può colpire fin nel profondo della foresta. Contrariamente a quel che pensiamo, la foresta amazzonica non è così impenetrabile, non per loro che si spostano, vanno da un villaggio all’altro, per cercare moglie, per scambiare oggetti».
Che cosa si può fare? «Ordinare all’esercito di fermare l’invasione. L’esercito, in Brasile, è l’istituzione più vicina agli indios. Le vaccinazioni, l’assistenza sanitaria, sono state sempre fornite dall’esercito. Perfino la Fundação Nacional do Índio, l’ente governativo che dovrebbe proteggere quelle popolazioni, fu fondata da un militare, il maresciallo Candido Rondon. Ma l’esercito non può agire da solo, ha bisogno di un mandato. Gli si dia quel mandato, si metta in piedi una task force ben attrezzata, e in due settimane la foresta può essere ripulita dagli invasori».
Il Funai, la fondazione, sta facendo qualcosa? «No. Il Funai è stato messo alle dipendenze del ministero della Giustizia e adesso segue la politica di Bolsonaro, sta con gli agricoltori».
Chi rappresenta gli indios, adesso? Chi parla per loro? «Ci sono centinaia di organizzazioni locali, riunite da un coordinamento nazionale, l’Apib, a cui sono molto vicino. C’è una resistenza a questa aggressione, bisogna aiutarla».
Se non accadesse nulla? Lei ha prospettato una denuncia di Bolsonaro davanti alle corti internazionali di giustizia. «Se non accadesse nulla, sarebbe l’ultima carta, Ma non deve accadere. Sarebbe una sconfitta, un disastro per tutto il Basile. Io sono brasiliano. Non voglio questo per il mio Paese, come non chiedo sanzioni o boicottaggi, la mia gente è già abbastanza in difficoltà. Ma credo che ci siano le risorse per farcela, se il mondo ci aiuta».
Come è riuscito a condurre il suo lavoro fotografico, come ha avuto accesso ai territori indios? «Non ho mai incontrato i gruppi che non vogliono avere contatti con l’esterno. Ho incontrato le comunità che hanno accettato di accogliermi, con la mediazione delle loro associazioni. Ho chiesto l’autorizzazione al Funai, l’ho attesa 17 mesi. Ho visitato dodici comunità nel corso di sette anni. Prima di ogni viaggio, mi sono sottoposto ad approfondite analisi cliniche e ho trascorso un periodo di quarantena».
Che impressione ha ricavato da quegli incontri? «Di persone meravigliose. Ricche di umanità e di intelligenza. Non c’è nulla di primitivo nel loro rapporto con l’ambiente e la natura, che è estremamente sofisticato e profondo. Sono popoli altamente civilizzati, capaci di relazioni umane straordinarie».
Hanno compreso i suoi scopi? Li hanno accettati? «Non solo sanno cosa intendo fare con le loro immagini, ma mi hanno detto di averne bisogno. Sanno che la loro scelta di isolamento dipende dal rispetto del resto del mondo: hanno un’idea di questo pianeta molto più complessa e autentica di noi che crediamo di possederlo. E sono orgogliosi di questo. Nella mostra, otto capi di tribù parleranno attraverso un video ai visitatori».
E cosa ci chiederanno? Lasciateci in pace? Aiutateci? «Hanno la perfetta consapevolezza di vivere dentro un mondo complesso, diranno che l’unica possibilità per loro di sopravvivere e conservare il proprio mondo è l’appoggio di chi vive fuori dalla foresta. Il sostegno, l’empatia, il rispetto della comunità internazionale non solo per le vite ma per l’ecosistema della foresta pluviale. Per questo non ho fotografato solo persone».
Che cosa, anche? «Un universo. L’Amazzonia brasiliana è grande sei volte la Francia, e sconosciuta. L’ho vista dall’alto, da dentro, ho viaggiato nelle terre Yawanawa, Yanoman, nella Vale du Javari, ho passato settimane navigando sui fiumi, ho ascoltato la musica della foresta, gli uccelli che cantano invisibili fra gli alberi, le piogge, ho visto i fiumi in cielo…».
In cielo? «Li chiamiamo rios voadores, rios aéreos… L’incredibile quantità di vapore acqueo che la foresta produce è maggiore di tutta l’acqua del Rio delle Amazzoni. E poi le montagne, alte come le Alpi, che galleggiano su un mare di verde, e le savane, chi sa che ci sono le savane in Amazzonia? A volte mi sembrava di essere in Mongolia. È un mondo che toglie il fiato, c’è davvero il cuore della nostra genesi. Togliete l’uomo da quel mondo, e perderemo il paradiso, per sempre, per tutti».

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