"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 18 dicembre 2017

Sfogliature. 88 “È l’algoritmo, stupido!”.



La “sfogliatura” che si propone risale al lunedì 22 di agosto dell’anno 2011. Allora si aveva ancora un bel dire di mercati, di finanza che, seppur incorporei, lasciavano sempre intuire che dietro quelle sconosciute identità ci fossero sempre esseri umani – pochi, pochissimi – autoproclamatisi incontrastati decisori del destino delle moltitudini altre di esseri parimenti umani. A distanza da quelle cronache le “cose” sembrano drasticamente cambiate. Non più mercati, non più “padroni delle ferriere” come agli albori del capitalismo gli imprenditori venivano denominati, e non più i “proletari” ovvero i prestatori di braccia. Nulla di tutto ciò ad appena sei anni da quelle cronache. Non esiste più la storica contrapposizione tra quelle figure, contrapposizione che ha scritto la Storia del capitalismo e del genere umano tutto. Non più. Oggi la vita di milioni di esseri umani prestatori d’opera è nelle mani di un imperscrutabile, inafferrabile “algoritmo”. Il passo in avanti c’è stato, ma in quale direzione? Ne ha scritto Alessandro Robecchi su “il Fatto Quotidiano” – “Le aziende non sono cattive: è l’algoritmo che le disegna così” -  del 6 di dicembre 2017: (…). Il mondo del lavoro gira ormai su questo Moloch indecifrabile, dal suono un po’ fantascientifico e futurista, l’algoritmo che tutto può e tutto decide a vantaggio dell’azienda. Ora che le storie del lavoro degradato italiano si diffondono, spuntano fuori ogni giorno, ci rivelano l’offensiva inconsistenza di quel “fondata sul lavoro” che sta scritto nella prima riga della Costituzione, monsieur l’Algoritmo fa la sua porca figura. Dietro quasi ogni storia spunta l’algoritmo, cioè un sistema di pianificazione e controllo accuratissimo. Fai l’assistente di volo e non vendi a bordo abbastanza gratta e vinci, profumi, cosmetici? (Ryanair), ti cambiamo turno in senso punitivo. Un consiglio dell’algoritmo. La signora con due figli (uno disabile) chiede flessibilità e non riesce a rispettare certi turni? (Ikea). Spiacenti, i turni li fa l’algoritmo. Tutto questo vale ogni giorno per migliaia di aziende, per milioni di lavoratori. Quello che vi porta la pizza, quello che vi spedisce il pacco, o che guida per consegnarvelo, quello che vi telefona per offrirvi un servizio e migliaia di altri, lavorano sotto un controllo millimetrico, che segnala i dati a un programma, che può calcolarne la produttività, costi benefici. Scientifico, impersonale. Quando le cose si fanno particolarmente scandalose (i casi citati, e ogni giorno se ne affaccia uno nuovo alle cronache) compaiono solitamente, via comunicato stampa, gli addetti alle relazioni esterne, che allargano le braccia e dicono: eh, è stato l’algoritmo. A volte lo dicono come se il corpo dell’azienda ne fosse posseduto, tipo la ragazzina de l’Esorcista che sputacchia e gira la testa di 360 gradi. Dal punto di vista economico e sociale è il disastro che conosciamo: mini-lavori di faticoso sostentamento, altissima ricattabilità del lavoratore, mansioni inesistenti (quando hai finito alla cassa del supermarket devi lavare i cessi, e infinite varianti), redditi sempre più bassi. Dal punto di vista culturale è forse peggio: per il lavoratore c’è una progressiva perdita di dignità. E da parte imprenditoriale c’è un’estrema spersonalizzazione, al punto quasi grottesco che si cedono responsabilità e schifezze alle macchine. E’ stato il sistema. Non sono cattivo, è l’algoritmo che mi disegna così. Il signore che prende i tempi in officina alle spalle del sontuoso Gian Maria Volonté de La classe operaia va in paradiso ora te lo spacciano per l’inflessibile, ma – ahimé – scientifico e imparziale, algoritmo. Una cosa moderna e bella da dire, fa fico, che spesso significa applicare oggi una parola novecentesca come “cottimo”. In tutto questo – ed è la cosa più strabiliante – si alzano “ohhh” di stupore e meraviglia perché il Censis (rapporto annuale) dice che aumenta il rancore nella società. Ma va? Ma giura? Scemo io che pensavo che invece essere licenziati, intermittenti, pagati due cipolle e un pomodoro, coi turni cambiati all’improvviso, niente ferie e niente malattia, inducesse nella popolazione un garrulo e soddisfatto buonumore. Ma sai proprio una gioia irrefrenabile? Invece no, invece c’è rabbia e rancore, chi l’avrebbe mai detto! Aggiunge il Censis questo rancore sarebbe una “rabbia repressa che non riesce più a sfogare nemmeno lungo le linee del conflitto sociale tradizionale”. Esatto, perfetto. Forse l’invenzione, la messa a punto, la taratura di un buon algoritmo dell’incazzatura potrebbe servire: proletari di tutto il mondo, fatevi anche voi un algoritmo. Così, quando la rabbia supererà certi limiti potrete allargare le braccia e dire: “Oh, è stato l’algoritmo, mica è colpa mia!”. Annotavo a quel tempo:
Scriveva il grande “Moro” di Treviri nel Suo celeberrimo Manifesto (1848) ove si parlava di un “fantasma” aggirantesi per la vetusta e sfiancata Europa: “(…). Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale… La società si trova improvvisamente retrocessa in una condizione di momentanea barbarie… Con quali mezzi la borghesia supera le crisi? Da un lato con la distruzione forzata di una quantità di forze produttive, dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più radicale degli antichi mercati. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi più violente e generali e riducendo i mezzi per prevenirle. (…)”. Lo scriveva quel grande chiamando in causa quella “borghesia” alla quale, lui il “Moro”, affidava volentieri, in quel contesto ed in quel tempo della Storia, le leve di manovra del progresso sociale e politico dell’Europa affinché si superassero definitivamente le “strutture” e le “sovrastrutture” proprie del feudalesimo ancora resistente, e che solo in un secondo tempo sarebbe stata soppiantata, quella “borghesia” illuminata, nella conduzione della società da un proletariato emancipato e trionfante. Una profezia la Sua che si rinnova e che si invera in questa terribile stagione di assalto dei mercati finanziarizzati, dediti alla speculazione più selvaggia e lontani assai da ogni dovere sociale che sia. Troveranno essi, i mercati, come sempre, un equilibrio nuovo: ma su quali basi? Il rischio paventato dagli analisti più attenti e seri è che sia la qualità propria della democrazia a venire messa in discussione, a venire ad essere riveduta e corretta al minimo denominatore. L’esercizio proprio delle democrazie consiste soprattutto nel garantire le opportunità di ciascuno e di tutti, consiste nel sorvegliare l’operato dei mercati stessi ponendosi essa, la democrazia, quale fattore di equilibrio e di redistribuzione della ricchezza; ebbene, quell’esercizio viene messo in crisi, anzi è stato messo in crisi da un bel po’ di anni, accrescendo disparità sociali, economiche e di opportunità. Questi allarmi, queste perplessità, sono emerse nelle analisi di tanti opinionisti di valore che mi sono premurato di accogliere e di proporre alla lettura nei miei post precedenti del 16 e del 13 di agosto, nei quali trascrivevo rispettivamente le analisi attente ed allarmate di Nadia Urbinati e di Furio Colombo. Oggi propongo di seguito la lettura della analisi, che trascrivo in parte, di Aldo Schiavone pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” – il 21 di agosto 2011 - col titolo “Se il crollo dei mercati trasforma la democrazia”. Leggere per riflettere su scenari nuovi e difficili prossimi venturi: “(…). A volte, l´inconcludenza e la debolezza possono essere rivelatrici più della determinazione e della forza. Nella vita delle persone, come in quella delle nazioni. (…). È messo a rischio il principio di sovranità degli Stati, (…), aprendo un fronte d´analisi su cui molti commentatori si sono esercitati in questi giorni. E di sicuro qualcosa di profondo sta mutando nell´equilibrio dei poteri che reggono l´Occidente, mentre l´impressione di un ritrarsi sconfitto della politica – di ogni politica – innanzi all´invasività di un gioco finanziario autoreferenziale, ingordo e tendenzialmente antidemocratico appare sempre di più come un destino comune, e non soltanto italiano. (…). …la rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie. Questo avrebbero dovuto spiegarci gli economisti, se l´economia fosse ancora una scienza sociale e non solo una modellistica matematica. Il tessuto democratico classico aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci materiali – sia dal lato operaio che da quello dell´impresa, dei mezzi di produzione – e aveva come punto di riferimento un capitale industriale poco mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e sociale. Questo mondo è in via di estinzione. Il nuovo lavoro ad alta intensità tecnica e conoscitiva – quello su cui si fonda sempre di più la cittadinanza contemporanea (se vogliamo conservare un rapporto fra cittadinanza e creazione di ricchezza), quello cui affidiamo il nostro futuro – ha bisogno, per svilupparsi, di condizioni che solo capitali molto più duttili, reattivi e versatili sono in grado di assicurare: in altri termini, di una rete di mercati finanziari. Si stabilisce così una relazione strettissima fra innovazione tecnologica e trasformazione finanziaria dell´economia; e dunque, di conseguenza, fra lavoro e capitale finanziario: un nesso che si dimostra sempre di più la base stessa delle società contemporanee, dove la finanziarizzazione diventa parte integrante del quadro democratico. Senza lavoro non c´è democrazia (una Repubblica fondata sul lavoro, come dice la Costituzione). Ma oggi non c´è lavoro senza innovazione tecnologica e intensità di conoscenze. E queste a loro volta non si creano senza capitale e mercati finanziari. Il problema non sta dunque nella separazione – nel presunto abisso – fra politica ed economia, che se ne andrebbero ciascuna per le sue, l´una sempre più armata, l´altra più impotente, ma al contrario si trova nelle modalità del loro intreccio. La verità è che siamo entrati in una nuova epoca, segnata non dalle dicotomie ma dalle integrazioni: l´età della democrazia complessa. (…). …elemento, strettamente connesso al precedente, riguarda l´immodificabilità delle strutture economiche da parte della politica. La vulgata ideologica che ci ha sommerso per oltre un ventennio (altro che fine delle ideologie!) pretendeva che l´anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni fosse l´unica risposta possibile, e che l´assoluta anomia dei mercati coincidesse con il miglior mercato pensabile. Come se la globalizzazione dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo che contasse per dare una forma alle nostre vite. C´è voluta una crisi mondiale per capire che non era così; che tanto selvaggio anarchismo era solo l´esito storico, del tutto provvisorio, della fase d´avvio della rivoluzione tecnologica – esattamente come era accaduto, due secoli fa, con la rivoluzione industriale – e che molte strade, anche assai diverse fra loro, ci si aprono davanti. Esattamente come è già successo di fronte alla rivoluzione industriale, sta alla politica disegnare lo scenario che ci aspetta: aprire una grande stagione di riequilibrio e di assestamento globale, di crescita sostenibile e di riduzione delle diseguaglianze – come è realistico e del tutto alla nostra portata – o rimettersi ostinatamente, come se nulla fosse, sulla via della rottura e della lacerazione. Il modo di produzione capitalistico ha questo che lo rende unico nella storia, e, per ora, insostituibile: di avere confini (empiricamente e concettualmente) inesplorati, dove è possibile coniugare in molti modi, anche inediti, profitto ed equità. Certo, si è creata una dissimmetria fra la pesante localizzazione nazionale del comando politico, e la leggerezza globalizzata della nuova economia. C´è chi ha cercato di incunearsi in questo vuoto. Colmarlo non è impossibile: una nuova sfida per una politica all´altezza dei tempi, e non un ostacolo da trasformare in un alibi. (…).

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