"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 15 marzo 2024

Uominiedio. 44 Michele Serra: «Se fossi un prete, un rabbino, un imam, un sapiente indù…».


(…). Niente galvanizza le masse come i terribili, primitivi “noi” e “loro” stratificati nei secoli dalle diverse appartenenze religiose. Il primo scorcio del terzo millennio (dalle Torri Gemelle in poi) è un ribadire ostinato, direi forsennato, dell’identità religiosa come smentita evidente di ogni illusione che l’umanità sia una sola. Non lo è; e per sommi capi, fatta eccezione per una minoranza temo trascurabile, non ha alcuna intenzione di esserlo. Provate a immaginare il tragico scenario mediorientale depurato dal fattore religioso; i palestinesi senza l’islamismo di Hamas e Israele senza i suoi ministri ortodossi; uno dei principali ostacoli, forse proprio il principale, alla comprensione reciproca e alla pace sarebbe infine rimosso. Che questo uso discriminante e oppressivo della religione sia avversato e disprezzato dagli agnostici, i libertari, i non confessionali, è ovvio. Mi chiedo però come facciano a tollerarlo i credenti di ogni fede, per i quali l’universalità di Dio dovrebbe rendere oscena e ridicola la sua riduzione a protettore di un popolo, di una Nazione, di uno Stato. L’idea stessa della religione è super-umana, guarda all’infinito e al cosmo, frantuma ogni confine. Che cosa c’è di più miserabile, e di più irreligioso, di un uso politico di Dio? Se fossi un prete, un rabbino, un imam, un sapiente indù, starei architettando una Internazionale di Dio, che maledica e combatta ogni forma di nazionalismo religioso. (Tratto da “Il Dio cattivo delle Nazioni” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, giovedì 14 di marzo).

“La Messa è finita”, testo di Enzo Bianchi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di lunedì 11 di marzo 2024: Sono un monaco anziano che diffida dei sondaggi, delle percentuali di fallimento e di successo calcolate troppo superficialmente, ma resto attento a confrontare i dati che pervengono dalle inchieste con le mie esperienze dirette e personali che con attenzione vivo e di conseguenza ripenso. Ormai vivo, soprattutto le situazioni ecclesiali con una certa distanza, quella che si assume a volte per ridere ma a volte anche per piangere. E in questa stagione, nella quale è ritornata con prepotenza la barbarie specie in politica e nella vita della società, certamente mi assale la tristezza per l’inadeguatezza della chiesa, o meglio dei cristiani, la loro incapacità di reagire, di insorgere con una coscienza che dovrebbe essere nutrita dal Vangelo. E invece devo constatare che la crisi attraversa anche la chiesa e si manifesta come diminutio: una chiesa sempre più ridotta alla diaspora e a piccole comunità che devono decidere se essere significative in un mondo di indifferenza, o diventare realtà sfilacciate fino a scomparire, o ancora rimanere come mere manifestazioni tradizionali, folcloristiche, da alcuni chiamata “religione popolare”. Uno degli obiettivi della recente inchiesta condotta da Demos, (…), era quello di mettere a fuoco le passioni degli italiani, cioè quel che agli italiani sta a cuore e ciò che è ancora significativo, importante per loro. Dai dati raccolti si evince che rispetto al 2016, dunque in otto anni, sono avvenuti alcuni mutamenti significativi, tra i quali si registra una forte caduta di interesse per il fenomeno religioso: da 72 a 60 punti su 100. Da annotare che la realtà religiosa è l’unica “passione degli italiani” a perdere quota, mentre risalgono la squadra di calcio e persino il partito politico. Tutti concordano ormai su questa diminuzione di adesione e partecipazione di uomini e donne alla chiesa, ma l’accelerazione del fenomeno negli ultimi due decenni non può non destare una certa ansia nei credenti e soprattutto suscitare domande che esigono una risposta da parte dei vescovi, dei presbiteri e anche da parte del popolo chiamato “popolo di Dio”. Resta comunque vero che la chiesa, mediatrice di fatto del Vangelo e della Pasqua di Gesù Cristo, non ha più una capacità di attrazione di ascolto delle sue parole. Solo Papa Francesco ha una voce, ma i vescovi stessi appaiono afoni e nessuno tra loro, almeno in Italia, ha acquisito in questi ultimi due decenni l’autorevolezza di cardinali come Pellegrino, Martini, Ursi, Siri, Pappalardo: una sola voce e le altre spente, o comunque senza performance, inascoltate. Ora il Papa con il suo carisma e la sua profezia raggiunge molti, ma per un’appartenenza ecclesiale ci vuole una parola nella chiesa locale, una soggettività della comunità. La chiesa dei movimenti ha perso la sua propulsione e sta per scomparire, ma se non si ritorna a una comunità locale dove si ascolta la Parola e si diventa un solo corpo nell’Eucaristia lo sfilacciamento continuerà. Una chiesa con una “Messa sbiadita”, dice l’autorevole sociologo cattolico Diotallevi, una “Messa che è finita” e una comunità che è tale di nome ma non conosce la sua essenza, che è la fraternità, non può attraversare l’attuale mutamento di portata epocale. Una chiesa al cui interno si combatte una guerra sui riti della Messa con un’epifania di cattiveria e violenza, con una nebulosa neotridentina che sui social attacca il Papa in modo indecente, e una chiesa che appare incapace di manifestare la differenza cristiana e di annunciare la buona notizia della vittoria di Cristo sulla morte. Questo induce molti a lasciarla perché non trovano più in essa né il lievito del Regno di Dio né il sale della sapienza.

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