Sopra. Bruegel: "La parabola dei ciechi".
Quando penso a qualcosa che mi trascende penso all’umanità. Rifletto sulla storia dell’umanità. Una storia a cui io stesso appartengo. Una storia che ha un senso tragico che cerco di capire nonostante la sua complessità. Tutto è per me tanto umano al punto che io ritengo che la stessa religione sia un prodotto dell’uomo. La fede nell’uomo è tutto. Noi siamo uomini in mezzo agli uomini. Dobbiamo trovare lì il bene e il male. La lotta per la vita, che poi si trasferisce nella storia dell’uomo è una storia di violenza. (…). L’uomo di fede conserva la sua fede anche di fronte all’evidenza contraria. Per questo diffido degli uomini di fede. La fede acceca. È una luce talmente potente che acceca. Quando sei accecato non vedi più nulla. Quando invece lasci da parte la fede e cominci ad usare la ragione, vedi l’insopprimibile male del mondo. (Tratto da “Dialogo intorno alla Repubblica” di Norberto Bobbio).
“LetteraSeconda”. Gentile Serra, nella città metropolitana partenopea esistono due associazioni palestinesi: una confessionale e l’altra laica. Il leader di quest’ultima, amico e collega, passaporto israeliano e moglie italiana, mi diceva che la separazione è voluta solo dall’altra. Eppure, nonostante presso quei musulmani faccia aggio la fede sull’etnia, il loro leader, imam di un paesone dell’hinterland, è uno stimato architetto di cui io pure fui soddisfatto committente, amabile intellettuale a 360 gradi sulla filosofia araba laica, amico del parroco ecc… Ma tant’è. Niente da fare: la religione! Ciò dimostrerebbe però un dato di fatto: che bisognano due fanatici contrapposti per litigare. Né io, né il parroco di Marano di Napoli, né il presidente dei palestinesi atei in Napoli offendono e grossolanamente provocano l’architetto, come farebbe Oriana Fallaci, Borghezio, Calderoli e Ariel Sharon. G.G. (Napoli)
(…). “LetteraTerza”. Caro Michele, la tua Amaca mi ha fatto venire in mente quello che ha scritto Yuval Noah Harari nel suo Sapiens, da animali a dei. All’inizio l’homo sapiens viveva in piccole tribù sparse sul Pianeta, già allora esisteva un sistema gerarchico che teneva insieme il gruppo ma non era sufficiente a gestire più di 100/150 individui, per cui si rese necessaria l’invenzione della religione. A differenza di un umano, un Dio ti vede sempre e quindi devi stare attento a come ti comporti e seguire le regole. Penso che la fede, cioè la cieca fiducia in qualcosa di impalpabile e poco definibile, che sia religiosa, politica o morale fino ad arrivare al tifo per una squadra, sia l’unico collante che può tenere insieme una società sempre più numerosa come la nostra, e non saprei come porvi rimedio. C. T.
“LetteraQuarta”. Caro Michele, tu parli di «uso discriminante e oppressivo della religione» ed è proprio qui il nocciolo della questione. Un individuo appartenente ad una qualunque credenza religiosa deve necessariamente compiere un atto di fede e quindi credere in qualcosa che non è assolutamente dimostrabile al di fuori, appunto, del suo atto di fede. Questa convinzione è “di per sé” discriminante, perché lo separa da tutti coloro che non la possiedono o peggio ancora ne possiedono un’altra, per forza di cose uguale e contraria. Se fosse dimostrabile l’universalità di Dio, non ci sarebbe bisogno delle religioni, che viceversa campano proprio su questa indimostrabilità. E di conseguenza, è proprio la differenza tra “noi e loro” il collante ultimo di tutte queste ignobili organizzazioni. In poche parole, non è l’uso ma l’essenza della religione ad essere discriminante e oppressiva. Bisognerebbe farsene una ragione. E. C.
“LetteraQuinta”. Gentile Serra, tempo fa, chiamando al telefono il Collegio Salesiano di Gorizia, in attesa di risposta, si sentiva John Lennon che cantava Imagine… nothing to kill or die for/And no religion too (Immagina se non ci fosse motivo per uccidere o per morire/ e anche nessuna religione). Chissà se i frati avevano la padronanza della lingua inglese sufficiente per capire le parole della musichetta telefonica. Lei ci chiede, nella sua Amaca, di provare di immaginare lo scenario mediorientale attuale depurato del fattore religioso. Ho paura che sia tardi. John Lennon ce l’aveva chiesto, ma non siamo riusciti a immaginare un mondo diverso. R. B.
“Ci salveranno i monaci?”, testo di Michele Serra pubblicato – assieme alle lettere sopra riportate – sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 22 di marzo 2024: (…) …ci si era abbastanza illusi, almeno nell’Occidente laicizzato, che il fattore religioso avrebbe progressivamente perduto il suo peso politico-identitario, conservando solo quello che mi permetto di definire il suo core business: il contenuto spirituale. Illusioni della modernità: non è quello che sta accadendo nel primo scorcio del Terzo Millennio. E anzi… Le due lettere che hanno aperto questa rubrica aggiungono al mio breve ragionamento – ma forse era più un’invettiva che un ragionamento – due sviluppi critici. Finazzi Agrò mi segnala che l’universalità del messaggio religioso, il suo rivolgersi a tutti gli esseri umani e non ai Popoli o alle Nazioni, già era contenuta nel messaggio evangelico; poi tradito lungo i secoli da credenti “non all’altezza delle proprie fonti di ispirazione”. Gragnaniello racconta, da Napoli, di un imam che è molto imam, eppure “amabile intellettuale”; e suggerisce implicitamente di rimettere in primo piano il fattore umano, quello che conta sopra ogni pregiudizio e ogni limite culturale: se nessuno offende intenzionalmente “l’altro”, forse riusciamo tutti quanti a portare a casa la pelle. A queste due osservazioni ne aggiungerei una terza, anch’essa fonte di qualche speranza: esiste, tra monaci di differenti religioni (i monaci, per attitudine più spirituali, sono portati a superare le differenze politiche e dogmatiche) un fervido dialogo. Forse una goccia nel mare, rispetto alla parola odiatrice menzionata da Gragnaniello; ma una goccia che permette di sperare in qualche passo in avanti (anche associativo) di quelli che chiamiamo, in genere, “uomini e donne di buona volontà”. Poi ci sarebbero infinite altre cose da dire, che né la mia limitata competenza né il poco spazio disponibile permettono di affrontare degnamente. (…).
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