“L’intelligenza artificiale era fuggita da Roma”, testo di Nicola Mirenzi pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di marzo 2024: (…). Si chiamava Nils Aall Barricelli. Era un biologo antidarwiniano e un matematico critico con la matematica del proprio tempo, odiato perciò sia dai biologi sia dai matematici. «Era un vero scienziato pazzo. Totalmente folle». (…). Nato a Roma, figlio del pittore Maurizio Barricelli e della scrittrice norvegese Marna Aall, era senz’altro un tipo eccentrico. All’idea che l’evoluzione si muova attraverso la selezione del più forte contrapponeva la dottrina della simbiogenesi, secondo la quale è dalla collaborazione che nascono le più significative evoluzioni. Ma anche dal punto di vista umano era un tipo particolare. Raccontano i testimoni che pagava i collaboratori di tasca sua, e che prendeva a lavorare con sé solo gente che riusciva a trovare un difetto nascosto in una teoria matematica. «La comunità scientifica avrebbe bisogno di un paio di Barricelli ogni secolo», ha detto Simen Gaure, un assistente che aveva ingaggiato. Il controllo di Mussolini. Barricelli aveva studiato fisica all’Università La Sapienza di Roma con Enrico Fermi e lasciò l’Italia per la Norvegia nel 1936. Nel libro che l’ha strappato per primo all’oblio, La cattedrale di Turing. Le origini dell’universo digitale (Codice Edizioni), George Dyson scrive che «fu un fervente oppositore di Mussolini, la cui ascesa al potere lo indusse a trasferirsi in Norvegia». All’Archivio centrale dello Stato Il Venerdì ha consultato il Casellario politico, dove sono conservati i documenti con cui la polizia fascista schedava tutti gli oppositori del regime: ma la prova documentale della sua attività antifascista non c’è. Se Barricelli è stato contro il regime, lo è stato in privato. Perché difficilmente negli anni 30 qualcuno poteva sfuggire al controllo poliziesco mussoliniano. Ciò che conta, tuttavia, è che tra il 1953 e il 1954 Barricelli condusse degli esperimenti leggendari all’Institute for Advanced Studies di Princeton (IAS), dopo aver presentato le sue ipotesi di ricerca a John von Neumann, che lo aveva invitato subito a raggiungerlo negli Stati Uniti, offrendogli l’accesso al suo calcolatore – il MANIAC, (…). Era l’unico ad avere il permesso di utilizzarlo senza la supervisione di un ingegnere, ma poteva lavorarci solo di notte. Introduceva nella macchina degli organismi numerici, dandogli delle regole riproduttive che rendevano la vita «difficile, ma non impossibile». Il suo obiettivo era verificare la possibilità di un’evoluzione simile a quella degli organismi viventi in un universo creato artificialmente. Quello che riuscì a dimostrare è che gli organismi numerici si evolvevano in maniera autonoma, creando una forma di vita digitale, ma non complessa come quella degli organismi viventi. Allora in pochi capirono realmente cosa avesse immaginato, né le tecnologie a disposizione permettevano di andare oltre quel che aveva ottenuto (il MANIAC aveva una memoria strepitosa per l’epoca, ma inconsistente se paragonata a quella degli attuali computer: appena 5 kilobyte). Ma, in seguito, Julian Bigelow, pioniere dell’ingegneria informatica, disse che Barricelli era stato «l’unico della sua epoca a intravedere la strada verso l’intelligenza artificiale». Di questa visione conserva una traccia preziosa la rivista Civiltà delle Macchine, oggi diretta da Marco Ferrante. Nel numero 3 del giugno 1955 c’è un articolo dal titolo 5.400 generazioni. Esperimenti di evoluzione realizzati su organismi numerici nel quale Barricelli in persona racconta i risultati raggiunti dai suoi esperimenti negli Stati Uniti. L’articolo è illustrato dalle riproduzioni della memoria del MANIAC, ovvero il documento che prova l’evoluzione degli organismi numerici nell’universo artificiale da lui creato. Immagini che ancora oggi, presso gli scienziati che le conoscono, costituiscono un prodigio. «Non bisogna credere» scrive BarricellI, «che tutti questi organismi debbano necessariamente rassomigliare alle forme di vita che conosciamo sulla Terra né che la Terra debba necessariamente essere l’ambiente migliore per lo sviluppo di siffatte forme di vita». Testi profetici. Ciò che colpisce del testo è che Barricelli non menzioni mai John von Neumann, l’uomo che aveva accolto la sua ricerca e gli aveva dato la possibilità di svilupparla usando il suo calcolatore. D’altra parte, nemmeno von Neumann cita mai gli esperimenti di Barricelli nel suo libro Theory of Self-Reproducing Automata, oggi considerato uno dei testi profetici dell’intelligenza artificiale, sebbene sia chiaro il debito che aveva maturato. La differenza tra i due è che nessuno potrebbe mai dimenticare il contributo di John von Neumann al mondo digitale odierno, mentre quello di Barricelli lo sarebbe stato se il succitato George Dyson – storico della scienza e figlio di Freeman Dyson, fisico quantistico che aveva lavorato allo IAS con von Neumann – non avesse tirato fuori dagli scantinati, all’inizio degli anni Duemila, le scartoffie di Barricelli, documentando scrupolosamente che in esse era prefigurato concettualmente il mondo di oggi. «L’universo di Barricelli» scrive, «adesso è il nostro universo. I suoi organismi digitali primitivi erano gli antenati dei multimegabyte che continuano a replicarsi e a ricombinarsi nell’odierno e sconfinato universo digitale». Peccato che all’avvento dell’era dell’intelligenza artificiale, in pochi conoscano il suo profeta.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 5 marzo 2024
CosedalMondo. 11 Michele Serra: «Temo che la spinta fondamentale per le applicazioni “umanoidi” di IA sia di ordine squisitamente economico. Si spende di meno. Si licenzia un bel po’ di gente. Si fanno più profitti».
(…). …secondo me il vero aspetto pericoloso
di IA, il suo “lato oscuro”, non è il predominio distopico della macchina. È il
rischio di uniformità e, aggiungo, di mediocrità. Un pensiero lineare e piatto,
esente da errori e sbavature così come da impennate e intuizioni. La mia storia
oramai quasi cinquantennale di scrittura mi ha insegnato che se le parole e le
frasi procedono, come dire, per sequenze prestabilite solo dalla prassi e
dall’esperienza, ne sortisce un linguaggio inutile, perché prevedibile. Ad
aggiungere (o levare) qualcosa, a “segnare” la scrittura, è sempre lo scarto,
il cortocircuito, il dubbio a tradimento, l’argomento imprevisto. E perfino
l’errore. L’inconscio, con il suo bagaglio insondabile di sogni, memoria,
immagini spesso sfocate o imprecise, e però fortemente espressive, è autore a
pieno titolo della scrittura, specie quella letteraria. E l’inconscio, così
diverso da persona a persona, come potrebbe essere “imitato” da IA? Nel nostro
cervello, (…), la stratificazione e la complessità sono formidabili e
irripetibili – anche perché differenti in ogni singolo individuo. Non ricordo
chi disse che “la natura è un esperimento scientifico in corso da 14 miliardi
di anni”, ovvero dal Big Bang in poi. Piuttosto che imitarlo, credo che
dovremmo continuare a studiarlo, questo esperimento, che nel cerebro di Homo
sapiens, il cui funzionamento è noto solo in piccola parte, trova una spettacolare
rappresentazione. Non stiamo parlando, ovviamente, degli utilissimi e
molteplici usi di AI nelle attività materiali dell’uomo (senza IA la mia auto
sarebbe molto più faticosa e pericolosa da guidare; e la mano del chirurgo
troverà in IA un magnifico supporto). Stiamo parlando dell’idea di poterla
sostituire all’uomo nelle attività intellettuali e creative, creando
“linguaggi” che potrebbero essere (ma non lo sono ancora) formalmente
impeccabili, ma svuotati di umanità, ovvero di singolarità e imprevedibilità. Temo, per giunta, che la spinta fondamentale per le
applicazioni “umanoidi” di IA sia di ordine squisitamente economico. Si spende
di meno. Si licenzia un bel po’ di gente. Si fanno più profitti. Se il
risultato fosse Shakeaspeare o Mahler o Picasso, potremmo anche rassegnarci. Ma
se il risultato fosse una specie di normalizzazione mondiale delle espressioni
intellettuali e artistiche? (Tratto da “Artificialmente mediocri” di Michele Serra, pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di marzo 2024).
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