(…): “Se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila, non vi pare? Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace. La stessa cosa vale anche per voi: chi non rinunzia a tutto quel che possiede non può essere mio discepolo”. (…). (Dall’Uomo di Nazareth, riportato in “Aggiornamento liste” di Marco Travaglio pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di marzo 2024).
“Debole e senza cure. Mohamed è morto per un’influenza. Era il mio papà” di Sami al-Ajrami pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di febbraio 2024: Rafah. Mio padre era leggermente malato. Aveva febbre e influenza, un po’ come tutti qui a Gaza. Ma era piuttosto vecchio, 80 anni. Mancano le cure negli ospedali, le cose più basiche. È stato portato al pronto soccorso nella notte. Ma i medici non potevano certo trattenersi troppo con lui: gli hanno dato delle medicine e lo hanno rimandato a casa. Ovviamente non doveva essere mandato via. È morto due ore dopo, alle due di domenica mattina. Si chiamava Mohamed al-Ajrami. Le persone anziane sono così: deboli. Lo siamo tutti a dire il vero. A causa di circostanze che dilaniano i corpi e uccidono la mente, sono in particolare gli anziani a morire negli ospedali o nelle loro case. Muoiono per malattie banali. È molto triste non essere in grado di prendersi cura dei propri genitori. Ma d’altronde non riusciamo a prenderci cura nemmeno dei nostri figli. Questa guerra è molto dura. A Rafah ci sono solo tre ospedali per curare 1,8 milioni di persone, e alla fine non è mai abbastanza. Mancano medicinali, manca tutto. In più le persone non mangiano bene. Non bevono abbastanza. Non possono essere in salute. La sensazione è che tutti noi saremo presto di fronte al nostro destino. E purtroppo questa guerra non finirà fino a che non perderemo tutto. La mia famiglia è separata dalla guerra. Mia madre e mio padre erano situati nella parte centrale della Striscia a Deir el Balah. Mentre io e uno dei miei fratelli siamo a Rafah. Quando ho sentito che mio padre stava male ho dovuto imboccare la strada costiera insieme a lui. È un percorso estremamente pericoloso perché si passa attraverso la costa di Khan Yunis dove ci sono intensi bombardamenti e operazioni militari di terra in corso. Siamo giunti a Deir el Balah, abbiamo fatto abbastanza in fretta ma era troppo tardi. Era già morto. Lo abbiamo dunque riportato all’ospedale per avere un certificato di morte, la mattina presto. È stato molto duro perché l’obitorio è straripante di corpi senza vita: mettono i corpi fuori sul pavimento. Noi siamo una comunità conservatrice e diamo molta importanza ai rituali per le persone morte: dobbiamo seppellirle subito. Normalmente aspettiamo comunque fino a che tutti possano venire a dire addio. Lo abbiamo seppellito in un gruppo di dieci persone. Successivamente siamo tornati alla casa dove decine di famiglie vivono ammassate, rifugiate, dove anche i miei genitori stavano. Fortunatamente abbiamo molti parenti e amici nello stesso rifugio, dunque ci sono state molte persone intorno a noi. Ci siamo seduti con la famiglia, a piangerlo. Abbiamo offerto caffè agli ospiti. Normalmente il lutto dura tre giorni ma abbiamo dovuto farlo in un solo giorno perché non è sicuro e le famiglie cercano di non stare tutte nello stesso posto per non estinguersi, se colpite. Sfortunatamente la mia sorella maggiore, che è ancora nella parte settentrionale della Striscia, non è potuta venire. Era molto frustrata e arrabbiata. Ha pianto a lungo al telefono. È difficile organizzare un funerale. Il problema principale è la comunicazione, informare tutti è praticamente impossibile. Manca internet, mancano i telefoni. Siamo stati fortunati perché mio fratello lavora alla Croce rossa e quindi abbiamo potuto organizzare il trasporto del corpo con un’ambulanza. Ma normalmente si vedono le persone che caricano i corpi sulle schiene degli asini o sul retro dei pick-up, nella migliore delle ipotesi. La cerimonia si è svolta accanto all’ospedale stesso e il dramma è stato che Deir el Balah è stata bombardata tre volte durante la funzione: arrivavano corpi di morti e di feriti costantemente davanti ai nostri occhi. Mentre le bombe cadevano eravamo in coda per ottenere l’ultimo lavaggio del corpo. Eravamo i quinti della fila. Ci abbiamo messo un’ora e poi siamo andati con una piccola processione al cimitero. Ieri sono tornato a Rafah. Mentre scrivo mi trovo di fronte all’ospedale del Kuwait, nel centro della città. Sono venuto a vedere alcuni amici. Erano loro che volevano vedermi per condividere il dolore. Molti colleghi giornalisti si rifugiano qui di fronte all’ospedale. Generalmente tutti gli amici e i colleghi partecipano al lutto e alla tristezza. Ma non c’è posto in cui io li possa ricevere per una cerimonia vera e propria. Per non parlare del cibo. Quindi il minimo che potevo fare era venire qui per salutare. Mohamed al-Ajrami è morto che aveva 80 anni. Era stato un taxista a Gaza, prima della pensione. Stava a casa ora e noi fratelli ci prendevamo cura di lui. Era un uomo divertente, simpatico. Rideva spesso. Era critico. Di tutto, in ogni conversazione. Era “l’oppositore”, sempre, di fronte a qualsiasi interlocutore. Criticava Hamas con delle battute, li chiamava “gli idioti”, li accusava di volerci portare a tempi oscuri. Tutti lo amavano in famiglia. Era uno dei pochi anziani rimasti. Amici e famigliari venivano spesso a visitarlo, per farsi raccontare storie del passato. Aveva una grande memoria. Mi piaceva portarlo alla spiaggia, insieme a mia madre. Battibeccavano spesso e noi fratelli ridevamo di questo. Durante la guerra era molto triste e arrabbiato. Odiava essere via da casa, dalla tv e dalla radio, dai suoi amici e vicini. Era furioso e critico verso la situazione. Cercavamo di calmarlo, gli dicevamo di avere pazienza. Ma non c’è stato tempo.
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