“Nessuno dei miei sogni nel cassetto si è realizzato. Avrei voluto fare la cantante ma sono stonata, avrei voluto giocare nella nazionale di pallavolo ma sono nana, avrei voluto conoscere Michael Jackson ma è morto troppo presto. Tra questi sogni non c’era quello di fare la presidente del Consiglio, perché sono una persona troppo lucida…”. Dunque, Giorgia Meloni è premier per caso. Sta governando l’Italia non perché lo ha voluto, ma per fare un favore a noi. Eppure l’Underdog sprizza da ogni poro la sua “volontà di potenza”: sono qui, a Palazzo Chigi, perché è esattamente quello che volevo, e soprattutto ci resterò a lungo, che vi piaccia o no. L’impudenza romanesca con cui celebra traguardi fantasiosi, l’arroganza proterva con la quale sorride agli amici, la truce iattanza con la quale irride i nemici: tutto suggerisce l’idea di un potere invincibile, inscalfibile e inaffondabile. (…). Il film è (…) Roma, santa e dannata, dichiarazione d’amore che Roberto D’Agostino dedica alla Città Eterna, frullando nello stesso inafferrabile “sembiante” le sue innumerevoli e inafferrabili facce, dalla “ricotta” di Pasolini alla Grande bellezza di Sorrentino. Anche il magnifico affresco di Dago, tratteggiato lungo il Tevere o sulle terrazze vista Colosseo, è un monumento all’estrema volatilità dell’esistenza: ricchi potenti e poveri cristi, ministri e cardinali, santi e peccatori. «La Città Eterna è questa, un luogo che aspetta l’arrivo dei barbari da tempo immemore e allo stesso tempo non gliene frega nulla. Perché quando arriveranno li porteremo da Checco er Carrettiere…». Dago cita giustamente Flaiano, a partire dalla memorabile scena in cui, dopo essere atterrato a Roma nello stupore generale, dopo appena un paio di mesi il Marziano entra in un bar nella speranza che qualcuno lo noti, e un avventore gli dice «a Marzia’, facce ride…». Insomma, cara Meloni: Roma resta lì, siamo noi che siamo di passaggio. Anche se siamo presidenti del Consiglio. (Tratto da “Un libro e un film per Giorgia Meloni” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” dell’8 di marzo 2024).
“La politica ci ha reso apatici. Ormai non ci si indigna più”, intervista di Antonello Caporale a Gennaro Carillo – professore ordinario di “Storia del pensiero politico” nella Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 15 di gennaio 2024: Non ci si indigna più. Nulla sconcerta, nulla stupisce. Professore, cos’è l’indignazione? - L’indignazione è una passione. Per Hobbes è il dolore che si prova davanti a chi goda di una fortuna immeritata. È il contrario dell’indifferenza: presuppone un’attenzione e una capacità di giudizio che non sono più moneta corrente. E implica che la dignità sia un valore. Tuttavia, perché non resti una passione triste ma diventi una passione politica, l’indignazione deve tradursi in azione collettiva -. L’astenia sociale è una causa del degrado pubblico oppure ne è l’effetto? - Credo sia un circolo vizioso. Parlerei di apatia. Il massimo teorico della democrazia moderna, Tocqueville, vedeva nell’uomo democratico un individuo senza grandi passioni, a-patico, disinteressato alla sfera pubblica. E notava che in democrazia, dove l’opinione pubblica non riesce a colpire, il sentimento dell’onore s’indebolisce. Di conseguenza, anche l’indignazione. Nonostante la Costituzione la menzioni espressamente, la parola “onore” è ormai desueta, la si sente solo quando si parla di mafia. Ma è evidente che l’atomismo sociale e la disaffezione crescono anche per il senso d’impotenza davanti a una classe politica impegnata a eternarsi o per l’effetto-loop generato dai talk, dove tutti i santi martedì le stesse maschere ripetono la stessa parte -.
La società non è più turbata dai comportamenti di chi dovrebbe governarla. Ha il sapore della resa. È così? - Certo che c’è il rischio della resa, della rassegnazione cinica. Una democrazia è tanto più in salute quanto più intenso è il controllo dei governati sui governanti, obbligati a rendere ragione del proprio operato. Per ottenere questo risultato occorre una società civile vigile. La scarsità del capitale sociale è un’emergenza di cui si parla poco o alla quale ci si è assuefatti. Quando il capitale sociale è scarso, il Principe gioca sul velluto. Come pure quando l’opinione pubblica ha memoria corta -.
Si avvia una riforma elettorale che vorrebbe premiare ancora più decisamente la sovranità popolare. E allo stesso tempo non si tiene cono che – per esempio – candidarsi alle europee senza avere la minima intenzione di andare a Strasburgo è un modo per tradirne la fiducia. - Ci si candida per lucrare sul capitale simbolico accumulato in Patria, magari dopo anni spesi a delegittimare le istituzioni comunitarie. È un modo per sabotare legalmente il meccanismo della rappresentanza. Ed è anche un modo provinciale di intendere le elezioni europee: non guardando all’Europa, peraltro in una fase della sua storia che richiederebbe ben altre assunzioni di responsabilità, ma al proprio italico ombelico, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul fronte interno -.
Alle ultime regionali in Lazio e Lombardia ha votato poco più del 40 per cento degli aventi diritto. Cos’altro deve accadere per ritenerla un’emergenza democratica? - Se la retorica di questi anni è contrassegnata dal primato della governabilità sulla rappresentanza, pensiamo davvero che la partecipazione interessi a qualcuno? -.
I cosiddetti governatori decidono di cambiare le regole e candidarsi per il terzo mandato, come se dieci anni di gestione del potere non fossero sufficienti e non fossero stati per questo ritenuti inderogabili. Sono i nuovi satrapi. Eppure silenzio assoluto. - Già nel chiamarli “governatori” c’è il sentore della hybris, oltre che l’ossequio reso al Principe. Sposterei l’accento sull’inconsistenza di partiti sotto ricatto, sulla fragilità della loro democrazia interna, sulla pochezza del personale politico. Qui alligna il potere personale del capo: nell’assenza di un contrappeso che freni le sue ambizioni e nel deserto delle alternative. Di qui il passo per il “dopo di me il diluvio” è breve -.
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