“DiariodaGaza” del 7 di novembre dell’anno 2023 – “Tra le macerie il pianto delle mie figlie per i cuginetti uccisi” - di Sami al-Ajrami, pubblicato, al tempo, sul quotidiano “la Repubblica”: Un mese di guerra ha cancellato il mondo che conoscevamo. Gaza non esiste più, ridotta in macerie. E anche i suoi abitanti sono in frantumi. Solo nell’ultima settimana sono cadute 6mila bombe: un frastuono costante che non fa dormire nessuno. La conta dei morti ha superato i 10mila. Il lutto è in ogni casa. Il pensiero della morte costante, ne parlano grandi e bambini. Noi vivi siamo come zombi. Nessun luogo è sicuro: Israele bombarda ovunque sospetta ci sia un suo nemico. Al Nord come al Sud dove pure ci ha fatto evacuare. A morire però sono soprattutto i civili: e la metà delle vittime sono bambini. Siamo tutti spezzati. È difficile metterlo in parole. Proverò nel modo più semplice, parlandovi di me. Avevo una casa nel quartiere Tel-Zaater: era mia. Ci vivevo dignitosamente con mia moglie e le mie due figlie adolescenti. C’erano i ricordi di una vita, i nostri libri, i piatti, le foto di famiglia. Avevo un ufficio dove ogni giorno andavo a lavorare: una scrivania, una tv, i colleghi. Avevo un ristorante preferito, una palestra, la moschea dove andavo a pregare. Non ho più nulla. Della mia vita non esiste più niente. Le bombe hanno cancellato tutto. Quel 7 ottobre, guardando le news ora dopo ora, lo abbiamo capito subito. Una catastrofe stava per abbattersi su Gaza. E la paura è aumentata man mano che si aggiungevano dettagli su quanto successo. Abbiamo messo nastro adesivo sui vetri come quando sta per arrivare un uragano. E preparato bagagli con l’essenziale per essere pronti a scappare. Le prime bombe sono cadute già quella notte: sventrando anche la nostra porta, mandando in frantumi tutte le finestre. Tre giorni dopo è arrivato l’ordine di evacuare: con l’intera famiglia, 19 persone, siamo venuti a Deir el Balah. Fra i primi, per fortuna. Abbiamo affittato una stanza in una di quelle case dove la gente veniva in vacanza vicino al mare. Un edificio dove conviviamo con 14 altre famiglie. Le donne e i bambini dormono dentro, gli uomini in auto fuori. Ma a tanti è andata anche peggio: dormono in tende bollenti di giorno e gelate di notte. O sono ammucchiati a migliaia negli ospedali e nelle scuole dell’Onu. Ogni giorno pensi sia il peggiore. E il giorno dopo è anche peggio. Ma oggi è stato il più brutto di tutti: due miei cugini con le loro famiglie, sono morti nel bombardamento di stanotte. Le mie figlie, 18 e 16 anni, singhiozzano da ore. Le ho viste piangere ogni giorno, prima perché senza internet non avevano più relazioni col loro mondo. Poi alla notizia della morte di amici e persone care. Ma oggi sono davvero disperate. Fra i morti ci sono i cuginetti cresciuti con loro. Impossibile dar loro conforto. Ogni giorno può essere l’ultimo, eppure continuiamo ad agitarci come formiche per portare nella tana dove siamo rifugiati, quando basta a far sopravvivere la famiglia un giorno di più. Il cibo scarseggia: per procurarsi il pane si fanno file di ore e spesso si resta a mani vuote. Nei mercati sono rimasti solo cetrioli e peperoni, riso e lenticchie. Gli aiuti umanitari entrati nelle ultime settimane non bastano. E comunque alla gente comune non arrivano. Li portano ai magazzini dell’Unrwa, l’agenzia Onu che dopo i saccheggi della settimana scorsa, ora è sotto il controllo della polizia. Ma medicinali, acqua e cibo in scatola vanno dritti negli ospedali e nelle scuole dove i rifugiati sono migliaia. Senza benzina non vanno auto e generatori: ormai la si trova solo al mercato nero, messa in commercio a prezzi folli dai furbi che all’inizio del conflitto ne hanno fatto scorta. E c’è chi ne ha prodotta una con l’olio di soia che puzza terribilmente. La mancanza di combustibile – che Israele non lascia passare, perché, dice, Hamas la userebbe per lanciare suoi razzi - ha già messo in ginocchio gli ospedali allo stremo. Fermato le ruspe necessarie a recuperare i feriti da sotto le macerie che ora muoiono dopo lenti agonie. E bloccato pure i depuratori d’acqua, costringendo la gente a berne di contaminata, tant’è che malattie infettive sono già diffuse. Proprio l’acqua è l’ossessione di tutti. Ne sogniamo di fresca e pulita. Ne parliamo continuamente. Lavorare come giornalista non è mai stato così difficile: non sono più un testimone, faccio parte della storia. Condivido la sorte e i sentimenti di coloro che racconto. Intorno a me la situazione si sta deteriorando. La solidarietà lascia il passo alla rabbia. La gente è terrorizzata e aggressiva. Si litiga continuamente. Abbiamo tutti paura del presente come del futuro. Non abbiamo più case a cui tornare. Non sappiamo cosa ci aspetta. Dove saremo domani. Potremmo ritrovarci tutti in tende nel nulla per gli anni a venire. Una prospettiva che ci fa impazzire.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 7 marzo 2024
Lavitadeglialtri. 27 Sami al-Ajrami: «Un mese di guerra ha cancellato il mondo che conoscevamo. Gaza non esiste più».
“DiariodaGaza” del 7 di novembre dell’anno 2023 – “Tra le macerie il pianto delle mie figlie per i cuginetti uccisi” - di Sami al-Ajrami, pubblicato, al tempo, sul quotidiano “la Repubblica”: Un mese di guerra ha cancellato il mondo che conoscevamo. Gaza non esiste più, ridotta in macerie. E anche i suoi abitanti sono in frantumi. Solo nell’ultima settimana sono cadute 6mila bombe: un frastuono costante che non fa dormire nessuno. La conta dei morti ha superato i 10mila. Il lutto è in ogni casa. Il pensiero della morte costante, ne parlano grandi e bambini. Noi vivi siamo come zombi. Nessun luogo è sicuro: Israele bombarda ovunque sospetta ci sia un suo nemico. Al Nord come al Sud dove pure ci ha fatto evacuare. A morire però sono soprattutto i civili: e la metà delle vittime sono bambini. Siamo tutti spezzati. È difficile metterlo in parole. Proverò nel modo più semplice, parlandovi di me. Avevo una casa nel quartiere Tel-Zaater: era mia. Ci vivevo dignitosamente con mia moglie e le mie due figlie adolescenti. C’erano i ricordi di una vita, i nostri libri, i piatti, le foto di famiglia. Avevo un ufficio dove ogni giorno andavo a lavorare: una scrivania, una tv, i colleghi. Avevo un ristorante preferito, una palestra, la moschea dove andavo a pregare. Non ho più nulla. Della mia vita non esiste più niente. Le bombe hanno cancellato tutto. Quel 7 ottobre, guardando le news ora dopo ora, lo abbiamo capito subito. Una catastrofe stava per abbattersi su Gaza. E la paura è aumentata man mano che si aggiungevano dettagli su quanto successo. Abbiamo messo nastro adesivo sui vetri come quando sta per arrivare un uragano. E preparato bagagli con l’essenziale per essere pronti a scappare. Le prime bombe sono cadute già quella notte: sventrando anche la nostra porta, mandando in frantumi tutte le finestre. Tre giorni dopo è arrivato l’ordine di evacuare: con l’intera famiglia, 19 persone, siamo venuti a Deir el Balah. Fra i primi, per fortuna. Abbiamo affittato una stanza in una di quelle case dove la gente veniva in vacanza vicino al mare. Un edificio dove conviviamo con 14 altre famiglie. Le donne e i bambini dormono dentro, gli uomini in auto fuori. Ma a tanti è andata anche peggio: dormono in tende bollenti di giorno e gelate di notte. O sono ammucchiati a migliaia negli ospedali e nelle scuole dell’Onu. Ogni giorno pensi sia il peggiore. E il giorno dopo è anche peggio. Ma oggi è stato il più brutto di tutti: due miei cugini con le loro famiglie, sono morti nel bombardamento di stanotte. Le mie figlie, 18 e 16 anni, singhiozzano da ore. Le ho viste piangere ogni giorno, prima perché senza internet non avevano più relazioni col loro mondo. Poi alla notizia della morte di amici e persone care. Ma oggi sono davvero disperate. Fra i morti ci sono i cuginetti cresciuti con loro. Impossibile dar loro conforto. Ogni giorno può essere l’ultimo, eppure continuiamo ad agitarci come formiche per portare nella tana dove siamo rifugiati, quando basta a far sopravvivere la famiglia un giorno di più. Il cibo scarseggia: per procurarsi il pane si fanno file di ore e spesso si resta a mani vuote. Nei mercati sono rimasti solo cetrioli e peperoni, riso e lenticchie. Gli aiuti umanitari entrati nelle ultime settimane non bastano. E comunque alla gente comune non arrivano. Li portano ai magazzini dell’Unrwa, l’agenzia Onu che dopo i saccheggi della settimana scorsa, ora è sotto il controllo della polizia. Ma medicinali, acqua e cibo in scatola vanno dritti negli ospedali e nelle scuole dove i rifugiati sono migliaia. Senza benzina non vanno auto e generatori: ormai la si trova solo al mercato nero, messa in commercio a prezzi folli dai furbi che all’inizio del conflitto ne hanno fatto scorta. E c’è chi ne ha prodotta una con l’olio di soia che puzza terribilmente. La mancanza di combustibile – che Israele non lascia passare, perché, dice, Hamas la userebbe per lanciare suoi razzi - ha già messo in ginocchio gli ospedali allo stremo. Fermato le ruspe necessarie a recuperare i feriti da sotto le macerie che ora muoiono dopo lenti agonie. E bloccato pure i depuratori d’acqua, costringendo la gente a berne di contaminata, tant’è che malattie infettive sono già diffuse. Proprio l’acqua è l’ossessione di tutti. Ne sogniamo di fresca e pulita. Ne parliamo continuamente. Lavorare come giornalista non è mai stato così difficile: non sono più un testimone, faccio parte della storia. Condivido la sorte e i sentimenti di coloro che racconto. Intorno a me la situazione si sta deteriorando. La solidarietà lascia il passo alla rabbia. La gente è terrorizzata e aggressiva. Si litiga continuamente. Abbiamo tutti paura del presente come del futuro. Non abbiamo più case a cui tornare. Non sappiamo cosa ci aspetta. Dove saremo domani. Potremmo ritrovarci tutti in tende nel nulla per gli anni a venire. Una prospettiva che ci fa impazzire.
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