"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 22 marzo 2024

Lavitadeglialtri. 29 Vera Pegna: «Ciò che l'Europa ha perso non è la sua immagine, ma la sua maschera "buona"».


Ormai lo sappiamo. Ai varchi di Gaza oltre milleottocento camion carichi di aiuti umanitari, carburante, materiale medico e sanitario attendono il permesso del governo israeliano per entrare nella Striscia, permesso loro negato tranne poche eccezioni; inoltre, ad assicurarsi che non passi nessuno, all'esterno dei varchi vigilano dei coloni le cui espressioni di fanatismo razzista mettono paura. Intanto i gazawi sono allo stremo delle forze e sappiamo che i più fragili muoiono d'inedia. Dice ad Aljazeera una levatrice del reparto maternità dell'ospedale Al Shifa: Le donne partoriscono bambini morti e quei pochi che nascono vivi muoiono per mancanza dei latte materno. Quello artificiale aspetta nei camion. Di ritorno da Rafah il presidente dell'Arei Walter Massa racconta: «Qui percepisci l'intenzionalità della politica israeliana nel perseguire, oltre all'azione militare devastante, anche la persecuzione umana di donne, uomini e bambini colpevoli solo di essere nati palestinesi. Non ci sono parole che si bloccano in gola quando il responsabile della Mezzaluna Rossa egiziana ci dice che tutti questi materiali sono stati respinti dall'esercito israeliano. Cioccolata compresa perché non ritenuta un bene primario... 30 mila morti che potrebbero diventare presto 85mila per l'aggravarsi della situazione medico-sanitaria nel giro di pochi mesi. Giriamo per questa struttura in mezzo a migliaia e migliaia di tonnellate di aiuti e strumenti, bombole di ossigeno, incubatrici, macchine per il filtraggio dell'acqua, cibo e, appunto, cioccolata. Ieri, al nuovo porto di Gaza, sono state sbarcate 200tonnellate di cibo, acqua e altri aiuti umanitari mentre dal cielo piovevano pacchi di viveri per la popolazione: due imprese costosissime, volute dall'Europa e dalla Giordania, a dimostrazione della loro preoccupazione per la carestia imperante a Gaza. Non dubitiamo del loro buon cuore, ma per chi non vuole chiudere gli occhi davanti alla realtà, tali iniziative (una goccia d'acqua rispetto alla catastrofe umanitaria) assumono il significato di una resa incondizionata al governo israeliano il cui arsenale bellico comprende anche l'arma della fame. Lo hanno dichiarato senza giri di parole alcuni componenti dell'attuale governo. Che le potenze occidentali non abbiano il modo di imporre ad Israele di aprire i varchi è difficile da credere. Non fosse che smettendo di rifornire quotidianamente di soldi, armi e munizioni al governo israeliano. Oppure, per non perdere la faccia, ovvero la propria immagine "buona.., di chi difende i diritti umani, primo di tutti il diritto alla vita. Invece, a ben vedere, arrenden­ dosi alla volontà politica israeliana, ciò che l'Europa ha perso non è la sua immagine, ma la sua maschera "buona", disvelando agli occhi del mondo il suo volto suprematista, intriso degli orrori della sua storia coloniale e delle sue micidiali avventure a seguito della Nato. In realtà, una resa deIl'Europa era scontata poiché, dall'inizio del Novecento, ha assecondato prima il movimento sionista e poi lo Stato d'Israele negli illeciti e nei crimini indispensabili al compimento del progetto di uno Stato ebraico in Palestina deprivato dai suoi abitanti. La complicità ha il suo prezzo. Tutto ciò conferma il divario crescente, a giudicare dall'isolamento di Israele nell'opinione pubblica mondiale, fra i nostri rappresentanti ufficiali e noi cittadini, fra la classe politica chiusa nelle sue squallide logiche di potere interne e internazionali, e chi rifiuta tanto razzismo e tanta crudeltà perché negli altri vede se stesso. «...avere gli altri dentro di sé», cantava Giorgio Gaber. («L’Europa ha perso anche la “sua” maschera buona», testo della scrittrice Vera Pegna pubblicato su “il Manifesto” e pervenuto dalla carissima amica Agnese A.).

“I nostri corpi scavati dalla fame non ci riconosciamo più tra di noi”, testo del corrispondente da Rafah del quotidiano “la Repubblica” Sami al-Ajrami pubblicato il 5 di marzo 2024: In questi mesi ci sono stati diversi giorni come questo, giorni “no” in cui la disperazione prende il sopravvento lasciandomi senza forze e senza speranza. Ho camminato nel tentativo di avvistare almeno qualche lucina colorata di quelle che solitamente si mettono fuori dalle finestre nei giorni che precedono l’inizio del Ramadan: speravo che qualcuno avesse trovato la forza e la gioia di celebrare l’arrivo del mese sacro. Niente, di quelle o dei cibi che siamo soliti cucinare per prepararci al digiuno non c’è traccia. D’altronde a quale digiuno dovremmo dare il via se è ormai da mesi che mangiamo come in un Ramadan forzato. Un pasto al giorno, quando si riesce, e non perché stiamo celebrando qualcosa ma perché ci è stato imposto. Per questo ho sentito tanti amici che hanno deciso di non digiunare, sono troppo deboli e affamati per rinunciare al poco cibo che trovano. Assurdo come questa guerra ci stia ponendo davanti a scelte così profonde anche dal punto di vista spirituale. Le Ong che distribuiscono gli aiuti umanitari a Gaza hanno spiegato che il cibo che entra nella Striscia al momento basta soltanto per soddisfare la fame del 10% della popolazione. Ed è evidente camminando per le strade di Rafah e incontrando gli amici. Siamo tutti dimagriti, scavati nei volti, debilitati nei corpi sui quali gli abiti lisi che ci portiamo dietro da cinque mesi iniziano a caderci addosso come se fossimo spaventapasseri. A stento riuscivo a riconoscere un conoscente per quanto il suo viso è stato stravolto dalla magrezza. Io stesso sono dimagrito sette chili nelle ultime settimane. Il peggioramento della situazione si percepisce anche da questo rapida perdita di peso collettiva. E non voglio immaginare come siano i corpi di chi vive al Nord o a Gaza City, là dove si mangia soltanto cibo per animali o erba, o dove si corre dietro a pasti pronti che piovono dal cielo. Ci sentiamo dei miserabili e iniziamo a vergognarci anche dei nostri corpi. A peggiorare la situazione è arrivato anche l’andamento delle trattative sulla tregua. Eravamo sicuri che l’interruzione dei bombardamenti sarebbe arrivata prima del 10 marzo, la data di inizio del Ramadan, e abbiamo coltivato il sogno di poter trascorrere qualche giorno senza la continua minaccia di morte. Ora invece gli ufficiali di Hamas hanno fatto sapere che non ci sarà nessuna tregua prima di quella data. Qualcuno vuole credere che sia un modo per fare pressione sui negoziati, io non riesco più a essere positivo. Giovedì anche io e la mia famiglia lasceremo Rafah e raggiungeremo le quindici persone della nostra comunità che si sono già trasferite nella tendopoli che tutti insieme abbiamo costruito sul mare per sfuggire alla annunciata operazione di terra che potrebbe abbattersi su Rafah. Avevamo rimandato il momento del trasferimento perché speravamo che si potesse arrivare a una tregua ma ora tutto è cambiato e le notizie parlano di una escalation. Vogliamo muoverci prima dell’inizio del Ramadan. Qui non ci sentiamo più sicuri. Nelle ultime ore i bombardamenti si sono intensificati e la scorsa notte nessuno di noi è riuscito a dormire per il boato delle bombe che cadevano vicinissime. Poco più in là della nostra casa un raid israeliano ha ucciso almeno 17 persone. E così è iniziata di nuovo la corsa contro il tempo: le decisioni devono essere prese velocemente e non è permesso sbagliare. Bisogna calcolare il rischio, valutare le conseguenze e studiare la situazione. È un continuo stress mentale e mi sento molto responsabilizzato per la mia famiglia e per gli altri. Intanto in tanti stanno cercando di lasciare la Striscia facendo ricorso al denaro arrivato dall’estero grazie alle raccolte online. Il problema però è che la richiesta è diventata talmente alta che le partenze sono state posticipate di almeno due settimane. Chi non riuscirà a muoversi prima di un’eventuale invasione di Rafah non sarà in grado di lasciare la Striscia.

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