Le recrudescenze fasciste di oggi la preoccupano? «Conosce qualcuno che non è preoccupato? Io mi sento un italiano che appartiene a una Repubblica la cui Costituzione è fondata sull’antifascismo e quindi tutti i rigurgiti di fascismo mi preoccupano moltissimo. Ho avuto la fortuna di ereditare dai padri costituenti questo pensiero preciso che dovrebbe mettere al riparo da recrudescenze di ideologie così efferate».
Il fanatismo nasce dalla disperazione e dalla voglia di sentirsi meno soli, (…). «I migranti si aggregano per vincere la solitudine e lo sradicamento. Il fanatismo è una dimensione estrema da condannare, specie quando degenera in azioni violente, (…)».
(…).
Mi dica (…) se anche lei è stato militante da giovane. «Ho sempre militato esclusivamente in gruppi teatrali, non politici».
Ma il teatro è anche luogo di militanza politica. «È sicuramente così, ma sarebbe un discorso troppo lungo in cui addentrarsi. (…). La letteratura e l’arte devono sempre contenere un elemento di scandalo, un richiamo a voltare la testa su qualcosa su cui non avevamo mai riflettuto. L’arte ha sempre avuto la funzione di suggerire al pubblico con cui vuole dialogare un orientamento nell’esistenza».
Pensa che un fascista possa “convertirsi” attraverso la lettura di un grande libro o la visione di un film? «Assolutamente, esistono tanti esempi di persone che devono alla lettura di un libro un cambio di passo radicale nella loro vita. (…)». (Tratto da “Mi preoccupano i rigurgiti fascisti”, intervista di Claudia Catalli a Toni Servillo pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del primo di marzo 2024).
“Uno sfascismo quasi autoritario”, titolo dell’intervista di Carlo Tecce al professor Michele Ainis pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del primo di marzo 2024: Professor Michele Ainis, cosa le viene in mente quando vede i manganelli sfoderati in piazza? «Io non ho ricordi diretti del manganello, per mia fortuna, anche se partecipavo alle manifestazioni negli anni ’70, però allora il manganello era quello dei fascisti, non quello dei poliziotti. Diciamo che il manganello è associato alla faccia violenta dello Stato. Diceva Max Weber che lo Stato ha il monopolio della forza. Questa è l’espressione più truculenta, più violenta, più diretta della forza che diventa forza fisica. L’uso del manganello sancisce una condizione di guerra all’interno delle città, delle strade, delle piazze. Naturalmente ci possono essere delle circostanze che richiedano l’utilizzo del manganello perché la polizia deve difendersi dalle aggressioni, tuttavia si tratta di circostanze particolari e specifiche che possono giustificare il manganello, ma solo come strumento di difesa, non di offesa».
E invece quale sentimento le hanno suscitato i manganelli sui ragazzi di Pisa? «Sdegno, una reazione di sdegno. I ragazzi che vanno in corteo per la pace e la Terra non possono trovarsi manganellati. Io penso ai ragazzi. Non devono aver mai paura di sfilare o avere la percezione di pericolo».
I fatti di Pisa hanno scatenato un cortocircuito istituzionale. Il presidente Sergio Mattarella ha indicato le basi della convivenza civile: «I manganelli sui ragazzi esprimono un fallimento». Il ministro Matteo Salvini si è schierato con i poliziotti. A priori. «La formula “a priori” non è ammessa, è un rifiuto dialettico, un rifiuto a misurarsi con le ragioni dell’altro. Non prevede argomentazioni, bensì dogmi. Peraltro la democrazia dovrebbe tollerare persino gli intolleranti. Spesso ho difeso la libertà di manifestazione dei neofascisti: in assenza di incitazione alla violenza, qualsiasi parola deve avere diritto di cittadinanza. Quello che si va creando qui in Italia, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, è un clima pesante. Rammento che il primo decreto legge del governo Meloni era un decreto sui rave party, che sono anche occasioni di aggregazione. C’è una continuità nella repressione. Noi non abbiamo gli oppositori politici che finiscono deportati in Siberia, però c’è questo clima pesante. Questo clima pesante in qualche modo si propaga anche nei comportamenti delle forze dell’ordine o di alcuni esponenti delle forze dell’ordine. Succede anche in altri contesti pubblici. C’è sempre un cameriere più realista del re».
Questo potrebbe essere un effetto collaterale di ciò che lei definisce “Capocrazia”. «La “Capocrazia” segnala una qualche mutazione antropologica. Non accade soltanto in Italia. Se ci guardiamo attorno, il verticismo e il leaderismo, l’affidare i propri destini a un capo, a un salvatore, i cui poteri crescono perché deve salvare i popoli dal male, è un fenomeno frequente, avviene dappertutto. Le maggiori potenze mondiali sono autocratiche, è il caso della Cina o della Russia, oppure altre stanno diventando delle democrature, come le chiamava Eugenio Scalfari, cioè delle democrazie autoritarie in cui vengono prosciugati i diritti di libertà, viene emarginato, a volte anche criminalizzato il dissenso. Questo indica una crisi generale della democrazia. D’altra parte la democrazia è una scheggia della storia, è un’eccezione che si è realizzata alla fine del Settecento e che adesso soffre. Ebbe una parentesi nell’Atene del V secolo avanti Cristo, ma per tutto il resto dei secoli dei secoli ci sono stati sempre regimi monarchici, autoritari, dittatoriali, imperiali».
La presidente Meloni, dopo giorni silenzi e veline, ha risposto in qualche modo al Quirinale: «È pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni alla polizia». «In un regime democratico la dialettica è fisiologica fra le istituzioni. Ed è normale che un’istituzione di garanzia, come la presidenza della Repubblica, sanzioni verbalmente un abuso di forza riferendosi a un singolo episodio. Questo non vuol dire togliere il sostegno delle istituzioni alla polizia. Ribadisco che porsi “a priori” con uno o con l’altro, senza discernere, non è consono a un regime democratico».
Oggi come sta la democrazia in Italia, quanto bisogna preoccuparsi? «Bisogna preoccuparsi e bisogna anche occuparsi delle questioni. C’è un vento della storia e adesso soffia verso la solitudine del potere, la consegna dei poteri a un Capo. Questo va contro la lezione del costituzionalismo che limita il potere. Però se questo è il vento della storia, io non sono tra quelli che considerano il premierato voluto da questo governo una variante del fascismo. Non lo è. L’elezione diretta di chi governa c’è in America come in Francia, e parlo dei due Paesi che hanno battezzato il ritorno della democrazia alla fine del Settecento. Perciò l’elezione diretta non è antidemocratica in sé, anche se potrebbe non piacere. Il problema è come limitarla. Quali contrappesi affiancare. Il lavoro va svolto sui contrappesi accettando comunque un nuovo sistema di governo. In parte è così da tempo. Il potere legislativo è già in mano al presidente del Consiglio con i decreti legge e ancora di più con i famosi dpcm, i decreti del presidente del Consiglio dei ministri usati in abbondanza durante la pandemia: sono un atto individuale che porta la firma dell’uomo o della donna al comando. E le stesse assemblee regionali o gli stessi Consigli comunali non contano nulla rispetto ai presidenti di Regione e ai sindaci di ogni Comune».
(…). …un esempio suggestivo di «quasismo» italiano: la riforma costituzionale che propone un modello quasi presidenziale e quasi parlamentare perché il capo del governo eletto deve ottenere la fiducia del Parlamento. «Il pericolo, di nuovo, non è il fascismo, è lo sfascismo. In un regime sfasciato, che ha un sistema istituzionale contraddittorio, è più facile che venga qualcuno e dica ci penso io. Ci sono segni ambivalenti anche nella politica del governo Meloni e dei suoi ministri».
Quindi c’è una svolta autoritaria o quasi? «Per il momento c’è una svolta quasi autoritaria».
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