(…). Mussolini non fu soltanto l'inventore del fascismo, il fondatore dei Fasci di combattimento e del Partito nazionale fascista; fu anche l'ideatore di quella prassi, comunicazione e leadership politica che noi oggi chiamiamo populismo sovranista. Questo fa sì che la discendenza dal Mussolini populista non debba essere necessariamente una discendenza consapevole, biografica, cioè scritta nelle vite politiche di questi leader, dichiarata o rivendicata, ma può anche essere una discendenza inconsapevole, indiretta. In taluni casi una paradossale forma di successione che percorre a ritroso il corso del tempo, configurando una filiazione per ascendenza. Si tratta, nondimeno, di una parentela che, se noi analizziamo le forme della prassi politica attuata dai leader dei movimenti populisti e sovranisti odierni, ritroviamo a chiare lettere, ben leggibile nei loro pensieri, parole, azioni e omissioni. (…). (Tratto da “Fascismo e populismo” di Antonio Scurati, Bompiani editore, 2023).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 24 gennaio 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 54 “Il delitto Matteotti”. 2
“IlDelittoMatteotti”. 2 “Matteotti, l’auto rivela i rapitori”, testo di Claudio
Fracassi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 di gennaio 2024: Mentre
l'intera politica italiana era attraversata - a due giorni dalla incomprensibile
scomparsa (il 10 giugno 1924) del giovane leader dei socialisti - da chiacchiericci,
funeree previsioni, pettegolezzi, drammi privati e voci di ogni tipo che
avevano al centro il nome "Matteotti", l'Italia ufficiale, quella
delle istituzioni politiche, della magistratura e della polizia, ufficialmente
taceva. Il primo a fare il punto del misterioso evento, con un comunicato
ufficiale peraltro non pubblico, ma inviato riservatamente ai sommi vertici
della magistratura, fu il Questore (reggente) di Roma, Epifanio Pennetta. Costui,
che fino ad allora non aveva ritenuto di immischiarsi né di aprire una formale
indagine criminale, così si rivolse rispettosamente all'"Illustrissimo
Procuratore del Re" con una lettera datata martedì 12 giugno 1924, in cui
era stato annotato a matita "Ore 17". Diceva la lettera,
miracolosamente oggi conservata negli Archivi (anche se piena, come si capì
poi, di imprecisioni): "Verso le venti di iersera questo ufficio fu
informato dall'on. Modigliani (Giuseppe Emanuele Modigliani era il portavoce dei
parlamentari socialisti, ndr) che dalle ore 16 del 10 corrente si era assentato
da casa senza dare più notizie, l'On. Matteotti Giacomo, qui abitante in via
Giovanni Pisanelli n. 40 (Quartiere Flaminio). Successivamente L’on. Modigliani
avvertiva per telefono la Questura che il di lui segretario aveva visto l'On. Matteotti
alle 19.15 del dieci corrente attraversare la piazza Campo Marzio nei pressi
del caffè del Napoletano. In seguito ad indagini eseguite da questo ufficio è
risultato che, alle ore 16, del dieci corrente, al Lungotevere Arnaldo da
Brescia, nei pressi del villino Almagià, cinque individui avevano sollevato e
caricato su di una automobile un uomo, che si divincolava e chiedeva aiuto: Ciò
farebbe ritenere che si possa trattare dell'On. Matteotti e che sia inesatta la
circostanza riferita dal segretario dell'On. Modigliani. Continuano le indagini
in proposito e mi riservo ulteriori comunicazioni ''. p. Il Prefetto reggente
la Questura, Epifanio Pennetta. Giacomo Matteotti era noto come un tipo
combattivo, che tuttavia non amava fare la vittima. Pochi giorni prima della
sua misteriosa scomparsa in quei giorni di giugno aveva pronunciato, il 30
maggio a Montecitorio, un durissimo discorso contro le "prepotenze"
di Mussolini, ricevendo in cambio una raffica di insulti da parte della
imbestialita stampa fascista. Ai suoi compagni, che gli chiedevano una
immediata pubblica replica (oppure, all'opposto, un po' più di cautela) aveva
risposto schermendosi, e sorridendo: "Grazie. Ma adesso per favore
preparatemi l'elogio funebre". Tuttavia, dalle analisi degli storici
emerge, su quei giorni cruciali, un quadro certo drammatico ma - secondo la
valutazione di alcuni - ancora aperto a una possibile battaglia
politico-parlamentare. Secondo un osservatore il delitto Matteotti costituì,
anche per questo, un terrificante punto di svolta: "L'assassinio brutale
aprì gli occhi alla maggioranza degli italiani, che arretrò, non tanto commossa
dal misfatto, quanto attonita e sgomenta" (La Rivista d'Italia, cit. da
Renzo De Felice). Questo clima spiega forse anche l'incomprensibile atmosfera
di attesa, da parte di alcuni fra i più popolari cervelli in campo a sinistra,
in quei giorni tragici e convulsi: "La successione è aperta", si
spinse a prevedere a un certo punto Filippo Turati, pronosticando una vincente
svolta anti-mussoliniana nell'opinione pubblica e persino nelle alte sfere
parlamentari, economiche e politiche (re compreso). Giacomo Matteotti era un
ragazzone di 39 anni. La sua cattura non era stata una cosa semplice, anche se
la banda degli assassini - tutti poi identificati -, radunati dal fascismo per
compiere il colpo era stata scelta tra i picchiatori neri più forti e spietati.
I banditi furono descritti e più tardi riconosciuti da un gruppetto di ragazzi
di nove-dieci anni. Il primo testimone era stato tuttavia un abitante della zona
tra la via Flaminia e il lungotevere, fuori Porta del Popolo. Era un posto
generalmente deserto, che il deputato attraversava quando, d'estate, si proponeva
di raggiungere Montecitorio a piedi. Quel martedì 10 giugno "alle 15.55
precise", il testimone trentenne Eliseo De Leo, dopo essere risalito sulla
scalinata che portava al lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva visto accanto a
un'automobile "quattro giovani vestiti di chiaro, dei quali uno aveva un
paio di pantaloni rigato", i quali sostenevano "due per la testa e due
per i piedi, un individuo vestito di chiaro che gridava aiuto". Prima di
scaraventarlo a forza dentro l'auto, uno dei quattro gli aveva assestato
"due pugni nel basso ventre". Poi la macchina "a tutta
velocità" si era "diretta a Ponte Molle" (cioè verso Ponte Milvio).
Uno degli aggressori, che non era entrato nell'abitacolo, era restato a fare la
guardia sul predellino destro. La scena fu confermata da uno degli inquilini
delle case sul lungofiume. Raccontò: "Ho visto, all'angolo tra il
Lungotevere e via Stanislao Mancini... cinque uomini che sorreggevano
orizzontalmente un individuo mezzo scamiciato, che mi pare fosse vestito di
grigio e che tentava di divincolarsi, gridando aiuto". Ma il racconto più
dettagliato, evidentemente risistemato dai poliziotti in italiano-burocratese,
fu quello di due ragazzini - Mascagni Amilcare e Barzotti Renato - dinanzi agli
agenti del commissariato di PS di Flaminio: "Martedì 10 corr. Verso le 17
circa ci trovavamo entrambi a Lungo Tevere Arnaldo da Brescia a giocare.
Vedemmo una automobile Lancia chiusa, verniciata scura, ferma a via Antonio Scialoia
angolo Lungo Tevere, dalla quale poco prima erano scesi cinque individui. Noi
ci avvicinammo alla macchina, ma essi con tono brusco ci imposero di allontanarci.
Poco dopo vedemmo venire verso Lungo Tevere, sbucando dalla via Mancini, l'On.
Matteotti che noi abitanti conoscevamo di vista. Allora i due che erano fermi
insieme gli saltarono addosso, cercando di trattenerlo, ma l'On.le si divincolò
dalla stretta buttandone uno a terra. Sopraggiunse allora un altro vestito di
grigio, robusto, alto, elegante, che gli diede un pugno in faccia facendolo andare
a terra e contemporaneamente accorsero gli altri due che sollevandolo sulle
braccia lo misero dentro l’automobile che era ferma. Mentre ciò facevano, dato
che l'On.le si dibatteva e gridava aiuto, uno dei tre vestito di scuro,
piuttosto grasso e basso gli assestò un altro pugno sulla pancia... Letto
confermato e sottoscritto... Mascagna Amilcare, Barzotti Renato". Ma il
contributo più notevole all'inchiesta su rapimento e morte di Matteotti i due
ragazzini lo diedero fuori verbale, descrivendo così bene la lussuosa macchina
del delitto (una splendida Lancia Lambda Limousine, con guida a destra) che i
poliziotti non fecero nessuna fatica a rintracciarla anche grazie a un portiere
della zona, il quale si era preso cura di segnarsi su un foglietto il numero di
targa di quella meraviglia: "55.12169". Questo era dunque il numero
che portava ai rapitori - e naturalmente agli assassini - del povero Giacomo
Matteotti. Ora bisognava individuare gli esecutori materiali e i mandanti
politici del delitto. E bisognava arrestarli, processarli, condannarli,
imprigionarli.
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