“Ci levano i campi che producevano olio e alimenti per tutta Gaza”, testo di Sami al-Ajrami – corrispondente da Rafah per il quotidiano “la Repubblica” – pubblicato oggi, domenica 28 di gennaio: Alla porta del misero edificio dove convivo con 24 parenti, in una delle notti più fredde e piovose che ci sia stata finora, ha bussato un vecchio amico appena arrivato a Rafah da Khan Yunis dove in queste ore i combattimenti si stanno facendo sempre più violenti. I militari israeliani lo avevano costretto a sloggiare nella notte con moglie, quattro figli e padre anziano dalla tenda dove si riparavano in ciò che resta del campo profughi di Maghazi, già in parte distrutto dalle bombe. Non gli hanno permesso di portar via con loro nulla: abiti, coperte, materassi, pentole, scorte di cibo. Si sono dovuti lasciare tutto alle spalle. Mi ha chiesto ospitalità per sé e la famiglia. Ma da noi che già dormiamo gli uni su gli altri in una stanza e mezzo, anche volendo non c’era posto. Ho potuto solo dargli dei teli di nylon che uso per le finestre i cui vetri sono stati spazzati via dai bombardamenti. Ha bussato a ogni porta: nessuno ha potuto dargli aiuto. Questo padre di famiglia, costretto a far dormire i suoi figli sul marciapiede lercio e bagnato di pioggia e liquami, ha pianto a lungo sulla mia spalla. Ma qui ormai non c’è più spazio nemmeno umanità e solidarietà. Ciascuno ha l’immenso problema di sopravvivere un giorno dopo l’altro con la propria famiglia. Tutti soffrono. E più di tutti soffrono i bambini il cui sorriso è ormai spento, terrorizzati da ogni rumore, affamati e sempre più smunti, gli abiti sporchi di quella diarrea che ormai è diventato un male normale. E soffrono gli anziani che ogni giorno apprendono nuove cattive notizie: amici e familiari uccisi, una vita che non tornerà mai quella di prima. Che non hanno più voglia di vivere me lo hanno detto anche i miei genitori, che sono andato a visitare a Deir el Balah l’altro ieri, perché non li vedevo da oltre un mese. Sono accampati con mio fratello e la sua famiglia in un rifugio dove ci sono più di 300 persone, in buona parte troppo vecchi per affrontare un’ulteriore evacuazione. Hanno pochissimo da mangiare e contano solo su quei pochi aiuti umanitari che ricevono sempre più saltuariamente. Ho corso dei grandi rischi per vederli: ma sapevo che riabbracciare uno dei loro figli sparsi nella Striscia gli avrebbe dato l’energia per andare avanti ancora un pochino. Se l’esercito israeliano deciderà di chiudere la strada impedendo agli aiuti di raggiungerli, moriranno di fame. Se non saranno prima perite di freddo, perché non c’è nemmeno più niente da bruciare. Neanche l’idea che un giorno la guerra possa finire, d’altronde, li solleva più. Se pure quel giorno arriverà molti sanno che Israele sta realizzando lungo il perimetro della Striscia una buffer zone, area cuscinetto, che renderà Gaza ancor più piccola e ancor più dipendente dagli aiuti. Perché quelle aree che oggi vengono rase al suolo coi bulldozer, distruggendo interi villaggi come Beit Hanun e sradicando alberi di olivo, erano quelle agricole più fertili: dove veniva coltivato buona parte del cibo fresco disponibile nei mercati. È straziante vedere la tua famiglia, i tuoi amici, la tua gente soffrire così tanto. So che oggi sui giornali di tutto il mondo si racconta della decisione della Corte Internazionale di Giustizia: ma noi non crediamo che Israele si fermerà. Fra un mese dovrà tornare a L’Aia a rispondere di quel che ha fatto negli ultimi 30 giorni. Ma sapete quanta gente può morire in un mese? Ai palestinesi di Gaza le decisioni politiche non interessano più: vogliono che le cose cambino sul terreno, adesso e non domani. Perché domani potremmo essere già morti. Vogliamo smettere di sentire il rombo delle bombe e gli annunci dell’ennesima famiglia di tuoi cari sterminata. Vogliamo smetterla di vivere coi morsi della fame e nel gelo che neanche stringendosi gli uni agli altri di notte si placa. Qui non si muore più solo sotto le bombe ma anche di fame, di freddo, di dissenteria. E anche per mancanza di energia. Senza benzina non si mettono in moto i macchinari delle fogne: e in giornate di pioggia come questa le acque reflue si mischiano al fango ed entrano ovunque. Penetrano e insozzano le tende dei più sfortunati accampati sul mare in balia di ogni soffio di vento, penetrano nelle case sovraffollate, nelle scarpe. Portando con sé malattie. Ci hanno uccisi, umiliati, annullati. Non c’è più tempo.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 28 gennaio 2024
CosedalMondo. 08 Sami al-Ajrami: «Ai palestinesi di Gaza le decisioni politiche non interessano più: vogliono che le cose cambino sul terreno, adesso e non domani. Perché domani potremmo essere già morti».
Ha scritto Furio Colombo in occasione delle
celebrazioni per la “Giornata della Memoria” - in “Il grande equivoco su Israele” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, sabato 27 di gennaio 2924 – che: (…). Diciamo per prima cosa che
la storia non cambia. Le distese di campi intrisi di sangue e di morte, intorno
ad Auschwitz e dovunque sia giunta la mano assassina e potente del nazismo e
del fascismo, che si erano prefissi di sterminare il popolo ebraico, sono lì
come allora, in una pace tremenda che non sarà mai oltrepassata e cancellata. Chi
vi ha partecipato (gli infiniti scrupolosi Eichmann di tutta un’Europa
complice) continua a portarsi sulle spalle e a testimoniare che è accaduto
davvero, tutti quei morti sterminati da una follia ideologica come se lo porta
sulle spalle ogni italiano che combatte con sprezzo l’antifascismo, cioè la
Liberazione e la fine dell’immensa mattanza. Qui, (…), si incastra l’equivoco
che contamina la percezione e persino il senso di tutti gli eventi che stiamo
vivendo. È un equivoco diffuso con tenacia e bravura da tutto l’antisemitismo
del mondo e accolto con tragica ingenuità persino da molti antifascisti. Penso
in particolare ai nostri studenti, agli studenti americani, bastioni fino a
poco fa della difesa di Israele, erroneamente convinti che un filo di morte
colleghi ed equipari la strage che ha travolto per cinque anni l’Europa con la
terribile guerra di Gaza, lasciando indietro lo spaventoso evento del 7
ottobre. Ma non si tratta di confrontare la brutalità delle guerre, o la
orrenda potenza che esprimono in modi spaventosi e diversi le guerre
contrapposte. Da dove nasce dunque l’equivoco? Pur sapendo tutto quello che so
della guerra di Netanyahu, leader politico pericoloso, so che, avendo vissuto
il tempo che ho vissuto, non posso che stare fuori e lontano dalla selva di
bandiere palestinesi sventolate da ex compagni perché sembrano non rendersi
conto che in palio non c’è il procedere di questo momento terribile bensì la
sopravvivenza di Israele. Tutto nasce quando l’Onu e Israele, nel 1947 dissero
sì ai due Stati contigui, ma la Palestina venne indotta a dire no dalle potenze
arabe che intendevano rifiutare la nascita di Israele. Quel rifiuto ideologico
continua oggi a perdurare nel mondo di tutti quegli estremisti e terroristi - come
Hamas - che perseguono la distruzione dello Stato ebraico e l’eliminazione di
ogni ebreo. Ecco perché l’orrore del pogrom del 7 ottobre contro i villaggi del
Negev mi riporta alla mente, (…), la scritta che campeggia sul cancello di
Auschwitz “Arbeit macht frei”.
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