"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 23 gennaio 2024

CosedalMondo. 06 Enzo Bianchi: «Il fondamento dell’etica: la relazionalità. È la relazione che impone la responsabilità, la cura dell’altro e impedisce ogni forma di indifferenza».

                                            Sopra. "Profughi da Gaza".
DellaUmanitàNegata”. 2 Ha scritto Enzo Bianchi in “Un antidoto all’indifferenza” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, 22 di gennaio 2024: Ancora una volta Edgar Morin ha denunciato che il male più grande e diffuso, che come una pandemia ammorba la nostra società, è l’indifferenza: questo restare insensibili rispetto a ciò che succede e alle persone che ne sono vittime, questo passare oltre che Gesù ha stigmatizzato. Lo ha fatto in particolare nella parabola del samaritano che vede l’altro, si fa vicino e si prende cura della vittima delle violenze, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre. Sì, noi siamo diventati indifferenti al conflitto tra Russia e Ucraina, alla terribile guerra che Israele continua a combattere contro Hamas nel territorio di Gaza, siamo ormai abituati a leggere notizie di naufragi di poveri migranti nel nostro Mediterraneo e a ricevere informazioni di eventi mortiferi per i popoli del globo. L’indifferenza sta alla radice dell’amoralità, è la linfa che la nutre, è un veleno che penetra nel cuore degli umani fino a renderli insensibili alla sofferenza degli altri, ma dobbiamo anche dire che è vigliaccheria, e quindi complicità con chi fa il male. Sabato 27 gennaio faremo memoria della Shoah, della catastrofe voluta, progettata e realizzata dal nazismo e dal fascismo e sarebbe l’occasione per assumere e confessare l’indifferenza dei nostri popoli, a partire da quello italiano che ha per anni permesso questa persecuzione e questo genocidio senza che si levassero parole di denuncia, o senza che si risvegliasse una responsabilità capace di ribellione. Perché quando si condanna ciò che ha permesso la Shoah si pensa solo a un’ideologia precisa, alla follia di un sentimento di elezione e non si pensa soprattutto all’indifferenza che l’ha resa possibile? Ma anche a livello di relazioni personali oggi è l’indifferenza a determinare il clima sociale: dell’altro non ci sentiamo responsabili, può essere ignorato, non ci riguarda. Diamo importanza all’individuo e obbediamo a un’antropologia individualista che ci induce a guardare solo a noi stessi. Eppure i maestri ci hanno svelato il fondamento dell’etica: la relazionalità. È la relazione che impone la responsabilità, la cura dell’altro e impedisce ogni forma di indifferenza. Non basta sentire, sapere, ma occorre entrare nelle situazioni di sofferenza fino ad abbracciare, toccare le vittime, mano nella mano. Solo quando si arriva alla compassione, a soffrire con l’altro, si può anche assumere la responsabilità dell’altro e ribellarsi, denunciare il male e l’ingiustizia. E questa assunzione di responsabilità, questo prendersi cura, non può riguardare solo i “nostri”, i vicini, ma anche quelli con i quali non entreremo mai in contatto, il “terzo”, come lo chiama Paul Ricoeur. In questo modo l’etica diventa antidoto all’indifferenza, che è sempre negazione delle relazioni sociali e complice di ogni violenza non contrastata. Un giorno si dirà: come è potuto accadere che all’inizio del terzo millennio siamo in guerra in Europa, in Medio Oriente, e ci sia un’ecatombe di migranti nel Mare Nostrum? E si risponderà: per indifferenza.

“Prigionieri del blackout. Tre ore al giorno a piedi per 15 minuti di Internet”, testo di Sami al-Ajrami - corrispondente da Rafah per il quotidiano “la Repubblica” – pubblicato il 21 di gennaio ultimo: Ho camminato per ore per riuscire ad avere qualche informazione. Ho camminato sentendomi cieco, incapace di vedere cosa stava succedendo al mio Paese e ai miei cari. L’ho fatto durante gli otto giorni di blackout delle telecomunicazioni che hanno colpito la Striscia di Gaza, la più lunga interruzione di telefonia e internet dall’inizio della guerra. Non posso più utilizzare l’automobile, non ho i soldi per pagare i 50 dollari che costa oggi un litro di benzina, così ogni giorno ho camminato un’ora e mezza per andare fino al confine con l’Egitto, dove un mio amico riusciva a utilizzare le reti egiziane, per poi camminare un’altra ora e mezza per fare ritorno a casa. Il tutto per leggere per quindici minuti i gruppi WhatsApp e Telegram dove noi giornalisti della Striscia ci scambiamo le informazioni. Ho scoperto così che Israele aveva bombardato le grandi antenne della principale compagnia telefonica di Gaza e che quando i tecnici si erano avvicinati a Khan Yunis per ripararle erano stati colpiti anche loro: due sono morti, due sono rimasti feriti. C’è voluto un accordo tra l’azienda e Israele per riparare finalmente il guasto, e a decidere i tempi sono stati loro. Ho scoperto inoltre dei cimiteri dissacrati a Khan Yunis dove l’Idf ha dissotterrato cadaveri, distrutto tombe, calpestato i nostri morti con i loro carri armati. Hanno preso almeno 21 corpi, li hanno portati in Israele, li hanno analizzati e poi li hanno riportati nella Striscia, lasciandoli senza sepoltura. Lo hanno fatto, dicono, nella ricerca dei resti degli ostaggi catturati il 7 ottobre e perché sostengono che nei nostri cimiteri possano nascondersi miliziani di Hamas. Ho saputo che Israele sta continuando a sfollare persone dal Nord e da Gaza City, qui almeno quattro scuole che ospitavano rifugiati sono state sgomberate: qualcuno è stato arrestato, tutti gli altri sono stati spediti qui al Sud. Ora siamo almeno un milione e 800mila persone nello spazio ridotto della città di Rafah. Tutti sappiamo che questa non è più una guerra temporanea, i più speranzosi immaginano che finirà tra tre mesi, e quello che sentiamo dai discorsi di Netanyahu ci fa capire che Israele non ha fretta nel portare a compimento i suoi obiettivi militari e tantomeno ce l’ha Hamas. Ieri sono stati lanciati a Sud decine di volantini con le foto degli ostaggi ancora in cattività: Israele non è in grado di liberarli, Hamas non vuole farlo, a noi chiedono di fornire informazioni, anche in cambio di denaro, ma nessuno di noi conosce la loro localizzazione. Siamo in guerra da oltre cento giorni, senza più cibo, medicine, senza speranza. Siamo stanchi, arrabbiati all’idea di dover vivere ancora nelle tende. Troppi civili continuano a morire: due giorni fa le vittime sono state 165 in 24 ore, 208 i feriti; ieri venti persone sono state uccise a Maghazi mentre le aree intorno all’ospedale Nasser e al quartier generale della Mezzaluna Rossa a Khan Yunis continuano a essere bombardati senza tregua uccidendo innocenti. Nelle mie lunghe camminate, le persone incontrate mi domandano incessantemente “quando finirà?”. In questi lunghi otto giorni al buio ci siamo ritrovati davanti al fuoco. Un tè, un po’ di latte e qualche biscotto portato grazie agli aiuti umanitari. Ogni sera per ore ad ascoltare i canali radio egiziani e cisgiordani che riuscivamo a intercettare grazie alla radio sul mio cellulare che funziona anche senza internet. Abbiamo seguito e discusso in particolare del processo per genocidio contro Israele, dei tentativi del Qatar di trovare accordi per un cessate il fuoco e di tutte le notizie che arrivano dall’Egitto e da Israele. Le notizie dalla guerra in Ucraina, dalle Nazioni Unite, dai Paesi arabi ora ci interessano meno. Ci siamo sentiti traditi. Ma i più giovani hanno ascoltato con interesse anche le partite di calcio dei campionati europei ed egiziano, discutendo animatamente di allenatori e calciatori con i più anziani. Ognuno a suo modo ha provato a far fronte al blackout. Andando verso il confine con l’Egitto ho scoperto che qualcuno aveva ricreato una sorta di internet cafè, come quelli che andavano di moda decenni fa. Davanti a una casa almeno quindici persone sedevano su sedie in plastica, bevendo tè e godendo del sole e della connessione che il padrone di casa - grazie a una scheda telefonica egiziana - metteva loro a disposizione per uno shekel all’ora, soltanto 20 centesimi. Ma se penso a tutti i chilometri che ho percorso in questi otto giorni, l’immagine che più ricorre nella mia mente è quella di migliaia di persone sedute, senza poter fare niente. Neanche leggere un libro. A Rafah non se ne trovano e nessuno di noi ne ha portato uno con sé. D’altronde siamo tutti fuggiti all’improvviso, senza riuscire a portare via neanche le coperte o gli animali domestici. Se solo potessi tornare indietro, però, al momento in cui ho lasciato casa insieme a mia moglie e alle mie due figlie, allora andrei di corsa verso la libreria e prenderei almeno un romanzo di Dostoevskij. Anzi, prenderei un libro di Jean-Paul Sartre. Ho bisogno delle sue parole per farmi portare via da qui.

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