Ha scritto Sami al-Ajrami – corrispondente dalla Striscia di Gaza – in “A cena sotto le bombe ricordando la felicità. Il Capodanno di Gaza così lontano dalla festa” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di gennaio 2024: (…). Prima della guerra, a Gaza si festeggiava il nuovo anno e i ristoranti, i caffè sulla spiaggia erano pieni. La gente usciva a cena con le famiglie e rimaneva a celebrare l’arrivo del nuovo anno, come tutti i popoli del mondo. A volte Hamas ha provato a imporre uno stile tradizionale e islamico, ma la gente non l’ha mai rispettato. L’ultimo dell’anno abbiamo deciso con i bambini di provarci comunque: abbiamo cucinato e siamo rimasti fino a mezzanotte a parlare, ricordando le feste trascorse nonostante i 17 anni di blocco. Abbiamo deciso di riprenderci un po’ la nostra vita e di far riaffiorare un pizzico di felicità in casa.
“Il trauma collettivo degli israeliani che l’Occidente libero non riesce a capire”, testo di Menachem Gantz – secondo il quotidiano “la Repubblica” “l’autore è un analista israeliano” – pubblicato ieri martedì 2 di gennaio 2024: Il mondo ieri (primo di gennaio 2024 n.d.r.) ha strappato un'altra pagina dal calendario. L’anno gregoriano si è spostato al 2024. In Israele, invece, l’orologio si è fermato. La data per i cittadini israeliani rimane il 7 ottobre 2023. Un abisso profondo separa il modo in cui gli israeliani percepiscono la realtà della loro vita e la visione che il mondo occidentale e libero ha di Israele. Esiste una mancanza di comprensione, una reale disconnessione, tra le continue difficoltà e traumi in cui vivono i cittadini di Israele e la percezione che viene ritratta nei loro confronti dalla gran parte dell'opinione pubblica nei Paesi democratici. (…). I dati recentemente pubblicati dal ministero della Salute israeliano parlano chiaro: sono aumentate di sei volte le richieste di aiuto da parte dei cittadini per problemi legati a traumi e ansia. "Siamo una società di 9 milioni di persone che hanno subito traumi personali e collettivi. Non c'è quasi nessuno tra di noi che non conosca qualcuno che è stato assassinato, caduto, rapito, disperso, ferito, sfollato" dice la scrittrice e giornalista Anat Lev Adler, che dal giorno del massacro ha dedicato tutti i suoi articoli all'argomento. Un evento su larga scala che può potenzialmente essere traumatico per l’intera comunità è chiamato trauma collettivo. E poiché l’evento sta ancora accadendo in Israele, tutti coloro che vi vivono si trovano in una realtà traumatica condivisa e continua. Un'altra definizione di trauma collettivo è quando sia i terapeuti psicologi che le vittime richiedenti aiuto appartengono alla stessa comunità. Secondo la psicologa Nurit Sela, "in un attimo gli israeliani sono andati nel panico, ora credono nella possibilità che da un momento all'altro un terrorista possa venire a casa tua, nel tuo letto ed eliminarti". E ancora: "Ciò continua a influenzare l'intero corso della vita in tutto il Paese, anche tra coloro che non sono stati coinvolti negli orrori: molti vanno in giro nauseati, persone che controllano dieci volte che la porta sia chiusa, o si addormentano solo con la luce accesa; bambini che hanno sviluppato ansie; donne che ancora non riescono a fare sesso a causa delle descrizioni degli stupri. Gli uomini hanno perso la dimensione romantica. Non è un caso che il tasso di gravidanza da ottobre sia diminuito, e molte persone vivono con ansia l'illusione del disastro ci si aspetta possa accadere". Ci vorranno anni prima che Israele stesso documenti, studi e riconosca la portata delle atrocità. Non si tratta di un disastro naturale o di un incidente stradale, ma di un massacro deliberato da parte di esseri umani, il cui orrore, la cui malvagità e crudeltà sono indigeribili. Inoltre, il massacro del 7 ottobre ha smantellato alle fondamenta l’essenza dello Stato di Israele, il cui scopo principale è quello di proteggere il popolo ebraico da un Olocausto simile a quello che lo ha colpito in Europa. In effetti, queste atrocità sono avvenute, e sono avvenute qui, nello Stato di Israele, all’interno di casa. Ciò ha creato una vera spaccatura e la sensazione che il mondo non sia protetto, ma anche una sensazione ancora più difficile: molti israeliani sentono di essere stati abbandonati, che lo Stato li ha traditi, che la fama dell’esercito protettivo e forte è stata minata. Molti israeliani hanno perso la fiducia nel governo e soprattutto nel suo leader che, già prima della guerra a Gaza, era visto come un leader corrotto e controverso da metà della popolazione. Netanyahu, che è sostenuto dall’estrema destra, per molti rappresenta di per sé un pericolo per il futuro del Paese, e aumenta l’ansia che la leadership non sia qualificata per il compito che deve affrontare. È importante capire che Israele non è ancora nella fase post-trauma. È ancora nel trauma. E anche se l'inno nazionale si chiama "Speranza", molti non la trovano. Gli israeliani si chiedono: quando finirà? Temono che i tanti sacrifici pagati con la vita non portino necessariamente a un risultato che cambierà la realtà. Gli israeliani dopo il 7 ottobre, quando il loro Paese è stato attaccato su sette fronti, sentono una minaccia esistenziale per la loro vita. Lottano per sopravvivere perché hanno imparato dalla storia che non c’è nessun altro posto sulla terra che sia pronto ad accettarli come cittadini con pari diritti, e in Israele, la terra dei loro antenati, hanno ricevuto il loro diritto storico di fondare uno Stato. Molti israeliani ritengono che, con il pretesto della tecnologia avanzata del 21° secolo, siamo tornati a una battaglia per la sopravvivenza simile a quella che gli ebrei della Diaspora dovettero affrontare nel Medioevo. Anche i comportamenti degli israeliani sono tratti in modo agghiacciante dall'esperienza storica: la partecipazione del destino, la garanzia reciproca, si esprimono come si esprimevano nei tempi più difficili della Storia di Israele. Poiché anche i terapeuti sperimentano il trauma, il trattamento viene creato in spazi di guarigione, dove la comunità si riunisce per ascoltare, sentire e dove il dolore e l'angoscia possono essere condivisi. Il messaggio è chiaro: nessuno di noi è solo. Ognuno ha un circolo solidale, amorevole e premuroso, c'è una famiglia biologica o meno che è lì per prendersi cura di te. Come si ridurrà, allora, il divario tra il trauma di Israele e coloro che nel mondo libero manifestano contro di noi, in molti casi con odio antisemita? Purtroppo anche qui esiste un precedente storico. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al processo Eichmann, che si svolse a Gerusalemme, dovettero trascorrere 16 anni, in cui il mondo fu esposto ai terribili crimini dell'oppressore nazista e l'umanità fu chiamata a fare il punto sulle proprie responsabilità storiche. Avvenne assai poco, fino alla cattura dell’architetto della Soluzione Finale. (…).
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