“Come non lo abbiamo visto arrivare. Berlusconi e la cecità di politici e giornalisti”, testo di Filippo Ceccarelli pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, giovedì 25 di gennaio 2024: Trent’anni orsono la discesa in campo: ma come eravamo? Beh, un po’ stupidi. Succede. Tutti o quasi non avevamo capito nulla. Trascorso il tempo di una generazione lo si può riconoscere perfino con serenità, se non ora quando? Un po’ non avevamo capito per quel malinteso senso di superiorità, oltretutto umanamente sgradevole, che portava la sinistra ad auto-proclamarsi depositaria di chissà quali e quante ammuffite credenze. «Dittatorello sudamericano» sentenziò Achille Occhetto alla guida della “gioiosa macchina da guerra”, già sentendosi la vittoria in tasca. Ma per la verità non furono solo gli altezzosi strateghi post-togliattiani a crogiolarsi nel buio delle proprie strampalate certezze. Bettino Craxi aveva sconsigliato il suo amico dal farsi un partito. Mino Martinazzoli, non proprio un allegrone, si consentì perfino una spiritosaggine: «Dai più recenti sondaggi risulta che il 70 per cento dei cinesi lo vorrebbero come imperatore». Quanto a Mariotto Segni, l’uomo del momento o suppergiù, aveva respinto ogni avance meritandosi dall’imminente trionfatore l’appellativo, tutto milanese, di “capiss-no”. Ma è pur vero che sbuffava anche Indro Montanelli, alzava gli occhi al cielo Carlo Azeglio Ciampi, lo stesso Avvocato Agnelli, richiesto di esplicita benedizione, fece finta di impartirla: «Ci faccia divertire!» congedò il temerario imprenditore; per poi concedere in privato un saggio del suo elegante cinismo: «Se vince, vinciamo tutti. Se perde, perde solo lui». Con il che il Cavalier Silvio Berlusconi può considerarsi – fortuna sua – come il più sottovalutato leader dell’intera storia repubblicana, del tutto minimizzato quale «inventore di cose nuove et insolite» (Machiavelli), l’uomo che avrebbe cambiato per sempre l’arte politica in Italia, e forse non solo. Così, oltre alla più deprecabile presunzione, per altri versi occorre riconoscere che non era facile comprendere il genere di novità che lui incarnava, il particolare rapporto che il berlusconismo avrebbe stabilito con la realtà, la portata dell’incontro fra la tecnologia e l’immateriale simbolico, le risorse dell’istantaneità, il dominio delle immagini e delle rappresentazioni, l’insidiosa fascinazione delle merci e dei consumi applicata alle scelte politiche, la capacità di conquistare attenzione e suscitare desideri, perfino il boato degli stadi e la salmodia dei giocatori del Milan in gloria del loro presidente. Contro Berlusconi, per dire, l’ideona fu di candidare Luigi Spaventa, grande e severo economista: «Ci provi lui, se è capace, a vincere due coppe dei Campioni» lo salutò il Berlusca. Dolce nel fondo, ma amarissima per gli avversari, l’enorme e spregiudicata disponibilità di quattrini. Detto altrimenti: in quell’Italia, rispetto al Cavaliere, la classe politica era rimasta praticamente all’età della pietra. Ancora si sistemavano le sedie e i microfoni per i comizi, si raccoglievano i bollini dei simpatizzanti o fantastici imbrogli con le tessere; la domenica mattina alcuni superstiti militanti vendevano il giornale porta a porta. Mentre il Cavaliere cominciò il suo percorso politico inaugurando un centro commerciale che si chiamava “Shopville” e poi in un altro tempio del consumo, a Grugliasco: sui lunghi tavoli un’abbondanza di torte, pizzette, pasticcini, bevande e fiori, tutto era perfetto compresi i carrelli della spesa pronti a essere ghermiti dai clienti smaniosi di riempirli. Un sacerdote recitò il Padre nostro in stereofonia. A politici e giornalisti di poca fede tutto sembrava immutabile. Una volta al giorno gli italiani apprendevano il verbo dal grigio Tg1 o dalle omelie di Sandrino Curzi a Telekabul. Per i più indignati l’eroe era Tonino Di Pietro che con la barba lunga agitava le manette, per i più spregiudicati Pannella che provocatoriamente si accendeva una Gauloises a Tribuna politica. Inquadratura frontale, moderatore sorvegliatissimo, noia infinita e garantita. D’altra parte si trattava pur sempre di cittadini, elettori e al massimo telespettatori, non essendosi ancora compiuta la metamorfosi in consumatori di spettacoli politici da divano. Anche per noi dei quotidiani la conoscenza della televisione – leggi, meccanismi, effetti - era come minimo approssimativa; schizzinoso e moralistico l’approccio intellettuale alla pubblicità che, secondo la lezione berlusconiana, più che ingannare si poneva semplicemente al di là del vero e del falso facendo leva in una zona intermedia della società che i venditori di Publitalia, da taluni sprovveduti liquidati come “plasticoni”, senz’altro conoscevano molto meglio di sindaci ex democristiani e segretari di federazione del disciolto Pci. Sempre a proposito di sottovalutazione si può aggiungere che al dunque il Cavaliere risultò l’unico a capire e a farsi tornare utile il nuovo sistema elettorale maggioritario; e anche questo, dopo tanti anni, contribuisce a esaltare non solo l’impresa che stava per compiere, ma pure, e di nuovo, il rilievo storico della sua figura: tra evoluzione e regressione, demiurgo e primo esemplare di una nuova razza di animali politici: autodidatti, calorosi, narcisi, esibizionisti e vantaggiosamente senza radici, ma destinati a riprodursi fino ai nostri (sciagurati) giorni. Ma prima, come sempre accade in Italia, si rise tanto e si rise troppo. Del fatto che lui camminava sul palco col microfono in mano e le nuvolette sulla testa, della calza da donna sulla telecamera, del kit del presidente, della spilletta luccicante, del coupon di Sorrisi e canzoni per fondare i club, dell’inno karaoke, della mania dei sondaggi, del “mi consenta”, insomma di tutto. Una festa per bambini, un villaggio vacanze: ed era appena l’inizio - mai sottovalutare uno che si sopravvaluta.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 26 gennaio 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 55 Luca Telese: «Che passaggio di epoca dallo sfavillante sorriso di “L’Italia è il paese che amo!”, al ghigno avvelenato di rancore di “L’Italia è un paese di merda”».
“26digennaio1994.Ladiscesaincampodell’uomodiArcore”.
Scriveva pensosamente Luca Telese quel 3 di sabato del mese di settembre
dell’anno 2011 – anno 17esimo (che già porta male) dalla “discesa in campo”
dell’uomo venuto da Arcore - in “La
tragedia umana di Silvio Macbeth” pubblicato allora su “il Fatto
Quotidiano”: Come Macbeth assediato nel castello, Silvio Berlusconi si avvita su se
stesso e sulla sua storia ucciso dal paradosso. Come Macbeth assediato dai
nemici, abbandonato da tutti, incapace di riconoscere la resa, reso folle
dall’illusione di un prodigio che non si verifica. Quanta malinconia in questo
crepuscolo, che passaggio di epoca dallo sfavillante
sorriso di “L’Italia è il paese che amo!”, al ghigno avvelenato di rancore di
“L’Italia è un paese di merda”. Eppure, in questo salto a distanza, in
questa fine lunga 17 anni, c’è la beffa del ribaltamento estremo, il segno di
un’epoca che si chiude senza appello. Prendete, allora, quella vecchia immagine
velata dal tempo, e trasfigurata dalla trasformazione dei corpi: il
videomessaggio in videocassetta. Fa sempre impressione vedere un Berlusconi più
giovane, e quindi con molti meno capelli di quello più vecchio. Ma fa ancora
impressione vedere che il mago della comunicazione che diceva di avere “il sole
in tasca”, adesso è prigioniero della luna, e dei demoni della notte, del
maledettismo, del tanto peggio tanto meglio, dell’estetica del kamikaze, del
Muoia Sansone con tutti i filistei. Silvio-Macbeth resta sulla scena, perché la
sua figura è grande, anche se è tragica. E Silvio-Macbeth si ostina a non
capire che il suo tempo è finito, anche se il suo castello sta per essere
espugnato: “Io non mi arrenderò – gridava nell’ultimo atto l’eroe scespiriano –
dovrei baciare la terra ai piedi del mio giovane avversario ed essere
bersagliato dalle maledizioni della plebaglia?”. Esattamente come il Macbeth di
Shakespeare pensava di essere salvato dall’incantesimo, così Berlusconi è
convinto che l’unzione del Signore non si sia estinta, e che qualche prodigio
rimetterà le cose a posto. Grida al povero Lavitola, “Giudici talebani!”, ed
espone il suo orgoglio senile al pubblico pagante: “Io scopo, che cazzo
vogliono da me?”. Eppure ci sono due
elementi da tenere ben presenti, anche in questo concitato crepuscolo degli
dei, prima che cali definitivamente il sipario. Anche nel momento in cui perde
lucidità Berlusconi resta il grande comunicatore, attento, consapevole, lucido
nella scelta del mezzo e della lingua in cui esprimersi: “Mi mettano le spie
dove vogliono, mi controllano le telefonate!”. Il Silvio Berlusconi che
distilla la sua invettiva, insomma, è perfettamente consapevole di essere
intercettato. Parla sapendo di essere ascoltato, parla sapendo che il suo
pensiero finirà nelle carte di un’inchiesta, e da quei faldoni su quelle dei
giornali. Il che significa che, per un altro paradosso beffardo, il Macbeth di
Arcore si ritaglia il ruolo di primattore con un monologo che ha per palcoscenico
il luogo metafisico delle carte giudiziarie, il teatro delle toghe che ha
(inutilmente) combattuto per tutta la sua vita. Ma questa consapevolezza
significa anche un’altra cosa: Berlusconi in qualche modo vuole che il suo
monologo disperato arrivi al mondo, susciti ancora una volta consenso, commuova
i cuori. Saltato il senso della politica, insomma, resta quello tutto teatrale
della scena. Certo, l’effetto collaterale dei nani che lo circondano rende vana
questa premonizione. Al fianco del sovrano che ulula, si articola il gergo
periferico dei Lavitola e dei Tarantini: intorno al sovrano che cerca l’ultimo
acuto restano i tradimenti, i raggiri, le creste sugli oboli e sui pizzi. E
l’effetto indesiderato ma ineluttabile è la perdita di credibilità del leader:
se Berlusconi si fa infinocchiare dall’ultimo dei rubapolli, il carisma che
stregò un mondo non può più essere esercitato. Se si prova pietà per lui, non
si può più temere il suo potere di capo, si rompe l’illusione incantata del re
taumaturgo che fu parte fondante del suo potere, fino alla rivelazione del
Satyricon dell’Olgettina. Il tragico, in questo dramma, è continuamente
corrotto dal comico, dal grottesco, dal senso di miseria e di squallore. Ma
sulla scena, il sovrano del regno che un tempo fu azzurro, non rinuncia a
ululare la sua invettiva perché è il ruolo che prevale sul senso di
autoconservazione: “Io tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei da un’altra
parte… e quindi – grida il premier nella cornetta – me ne vado da questo paese
di merda di cui sono nauseato, punto e basta”. Pensare che il destinatario di
questo sfogo tragicamente cupo e spettacolare, possa essere solo l’orecchio
avido di Lavitola vorrebbe dire fare un torto alla grandezza dell’uomo e al suo
innato senso dello spettacolo. Berlusconi parla ai suoi intercettatori, già
pensando ai giornalisti che filtreranno il suo umor nero, ai futuri lettori,
parla a noi. Davvero sembra che Berlusconi stia modellando il suo epitaffio su
quello del sovrano scozzese. In fondo la fase terminale della tragedia è stata
innescata dalla Finanziaria delle tasse, e dal ribaltamento della promessa
delle promesse, quella di non metter mai le mani nelle tasse degli italiani.
Consapevole che quello era il punto di non ritorno che mandava in cortocircuito
la sua narrazione, Berlusconi quasi gridò, nella saletta stampa di Palazzo
Chigi: “Ho il cuore che mi gronda sangue”. Esattamente come il Macbeth di
Shakespeare gridava nella sua ultima scena madre: “Ho già l’anima troppo carica
di sangue”. Qui, alla fine del dramma, il Macbeth di Shakespeare chiude la sua
avventura con la spada in mano: “Non posso fuggire. Ma come un orso combatterò
fino alla fine”. E ancora: “Tento l’ultima carta. Mi copro con il mio scudo di
battaglia. Dai, Mcduff, e sia dannato il primo che grida basta!”. Grande
finale, in cui il liberatore Mcduff rientra impugnando la testa del sovrano e
il bardo di Stratford scrive solo: Trombe. Qui mancano ancora il suggeritore
per avvisare Berlusconi che è arrivato all’ultima battuta. E un liberatore
armato dello scudo del centrosinistra, che lo affronti in duello nel suo
castello, assediato dal ridicolo, ed espugnato dalle inchieste.
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