“StoriediSicilia”. 2 “Vento e silenzio il respiro di Alicudi racconta storie di un altro mondo” tratto da “Una voce dal profondo” di Paolo Rumiz pubblicato, nella edizione di Palermo, sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, mercoledì 22 di novembre: Cominciò verso le due di notte, con un lamento di cani. Lungo, esasperante, come un canto di anime perse. Venne da più parti dell’Isola: dal molo traghetti ma anche dalla direzione del cratere. In quel momento ero sulla terrazza, perfettamente sveglio. Con Irene avevo trascinato il materasso all’aperto per stare sotto le stelle con la brezza di ponente. Ma non avevamo ancora preso sonno. Per dei nuovi arrivati, era difficile dormire stando aggrappati a un vulcano in mezzo al mare. Ad Alicudi, la più remota delle Eolie, le distanze si misurano in scalini, e quel giorno ne avevamo saliti mezzo migliaio, per un dedalo di sentieri e terrazzamenti infuocati, con l’aiuto di un mulo per i bagagli, fino a una microscopica casa giallina in contrada Pianicello; «un pertuso», dicono in Sicilia. Un buco. Ma anche una tana ideale. La cagnara durò per uno, massimo due minuti. Cominciava a far freddo, e tra noi e il cielo non c’era che una coperta di lana grezza. Stromboli mandava lampi intermittenti, trenta miglia a est, e in quel momento pensai che le isole davanti a noi punteggiavano la superficie del mare in modo curiosamente simile ai Colli Euganei, la terra veneta dove era nata Irene. Antichi vulcani anch’essi, piantati in mezzo a una Pianura Padana che era stata a sua volta mare. Dopo gli ululati tornò il silenzio. Un silenzio tale che i grilli quasi ci assordarono e nelle orecchie il sangue prese a battere come un tamburo. Dopo tre giorni di vento teso, il mare, ripulito, si spalancava a perdita d’occhio sotto di noi, lucido come una lastra d’acciaio. Sopra, lo Zodiaco ruotava con tutto il suo bagaglio di presagi. Vento di montagna, fruscii, mormorii. La voce di un uccello notturno si fece strada nella macchia per poi affievolirsi, spegnersi e ricominciare. Poco prima delle due, l’ultimo quarto di luna – rossastro, immateriale – era uscito dalle Calabrie in un cielo popolato di diademi. Stelle del Sud con l’aureola, sembravano fiaccole ardenti. Dal telefono, nessun segnale. L’isola offriva una lussuosa, frugale irreperibilità. C’era tutto il necessario: acqua, un po’ di cibo, bloc-notes, penna, torcia elettrica. Per colazione, fichidindia, lì a portata di mano, in cima a verdi candelabri naturali. Per un attimo, nel suo immane silenzio, la terra degli Arcudari, ancorata alle fondamenta della Terra, divenne una catapulta che ci sparò come un asteroide che va, senza paura, si allontana dalla sua stella madre con soffio d’ali di falco in picchiata. Lo udimmo rilasciare nel vuoto una scia sonora. Qualcosa di simile a un canto armeno. A sera avevamo cenato con Luciano, pilota d’aereo da qualche mese in pensione. Credo avesse scelto Alicudi per continuare... a volare. E in effetti la sua vita era un lungo, silenzioso atterraggio, come di aliante, e la sua casa in contrada Serro Pagliaro una magnifica cabina di comando. Era abbarbicata al monte a un’altezza dalla quale, diceva, si percepiva la curvatura terrestre. Era arrivato quasi al buio col suo cane, per complicati sentieri a mezzacosta che sapeva a memoria. Viveva lontano dal bestiario del turismo, ma il suo era un eremitaggio relativo. La sua compagna abitava a Filicudi, l’isola di fronte, una straniera che conviveva con un asinello bigio di fenomenale pigrizia. Con un buon binocolo riusciva persino a vederla. Tra loro, mezz’ora di aliscafo; distanza giusta per dar sapore a ogni incontro. Spaghetti con olive, capperi e pomodori secchi: era stata una cena semplice. Luciano aveva portato un bianco freddo liparitano che aveva aperto la strada alle storie di un’isola segnata da prodigi. Ad Alicudi, imparai, il pane può dare alla testa, se il frumento è impastato con una segale cornuta detta Erba Jonica, parente dell’Lsd, e un fungo parassita detto Claviceps Purpurea. Una panificazione psichedelica vecchia di secoli, ormai in disuso, ma sempre capace di propiziare visioni. Eravamo in un mondo a parte, dove le donne «sono capaci di volare», forse perché, durante le incursioni dei Turchi, le ragazze a rischio di rapimento venivano calate con delle corde in una caverna sulla scogliera, chiamata “’u Timpune d’i fimmini”. Viveva ancora da quelle parti la leggenda delle streghe dette “mahare”, megere professioniste della fascinazione e del malocchio, capaci di trasformarsi in animali, attraversare il mare e propiziare (o impedire) il ritorno dei pescatori. Erano, mi dissero, forestiere che avevano conosciuto il Grande Sabba sotto il famoso Noce di Benevento. “Fimmini di fora,” si diceva. Ma anche le donne locali avevano avuto, e avevano ancora, un ruolo importante nel clima misterico dell’isola. Donne forti, donne di pietra. Erano loro a tramandare le antiche credenze. Figure venerate, che facevano di Alicudi un universo femminile. Matriarche come Rosina, che aveva avuto undici figli con diversi mariti, o come nonna Peppa, che, per insaporire le zuppe, le cucinava immergendoci pietre di mare. «A volte qui si prendono spaventi che non ti dico», disse il pilota solitario. «Una notte, mentre ero a casa, nel più completo silenzio ho sentito un’armonica a bocca suonare in giardino. Sono andato a vedere, con un certo tremore... ed era solo la brezza, che filtrava nei fori della mia armonica. L’avevo dimenticata su un muretto». Ad Alicudi è facile sentirsi in un mondo a parte. Anche un forestiero come Luciano è posseduto da un senso di estraneità rispetto a quelli “di fora”. Quando sbarcano in terrafer ma, gli Arcudari li riconosci subito dallo sguardo spaesato, come se venissero da un altro tempo. A influire, oltre all’estremo isolamento, c’è il sapersi arroccati su un vulcano in sonno, la contiguità con il Grande Fuoco. Ma c’è di mezzo anche la dimestichezza con la furia degli elementi e i mostri marini, per non parlare del buio quasi assoluto delle notti. Fino agli anni Ottanta, sull’isola esisteva un unico generatore che, quando veniva chiuso a mezzanotte, ti faceva piombare in una tenebra impenetrabile e foriera di allucinazioni. Efesto era di casa alle Eolie, come del resto Poseidone, signore delle tempeste e dei terremoti. Quanto a Eolo, il dio delle isole, lo sentivi soffiare persino dall’interno della montagna. (...).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 23 novembre 2023
Piccolegrandistorie. 60 Storie di Sicilia.
“StoriediSicilia”. 1 “Il bosco nel cuore” tratto da “Il bosco della memoria” del “compagno”
ed amico carissimo Giovanni Torres La Torre (San Piero Patti, 1937/Capo
d’Orlando, 2021): Il vento del bosco aveva smesso di alitare lasciando le note conclusive
dello spartito agli ultimi orchestrali che in punta di piedi uscivano dai suoni
consueti per entrare in una nuova sinfonia calda di paura e silenzio. Sospesero
il respiro a gran fatica donne e uomini che nell'improvviso smarrimento si
cercavano con gli occhi. Quanti erano rimasti soli negli affetti, per le più
disgraziate sventure, si arrapavano stringendo nelle loro ossa freddo e
ricordi. I vecchi potevano maledire anni di sete, rimpiangere la fanciullezza
dei figli, gli animali, e ricordarli nei loro nomi. Un'Ombra mi cercava, triste
e smarrita; sentiva la mia lontananza, poteva anche morire mentre io chissà
dov'ero, a donne di malaffare per l'addio alla vita rottosi l'incanto che non
aveva retto il tiro alla fune con la signora della grande falce. Eppure, da
passi lontani poteva giungere, ma non fu così, un coro di angeli mandati da Dio
per rincuorare gli afflitti. Nel bel mezzo di quel cielo e terra, quando oramai
nessuna sapeva che pesci pigliare - neanche con l'arte di Pietro che aveva
tuttavia insegnato come tirare le reti, e lo smarrimento oramai mieteva vittime
e anche i fondali erano stati strascicati distruggendo scritture di coralli - la
folla dei pescatori s'aprì per incanto e tra le onde spumeggianti nel biblico
mare del miracolo, incedette con passo spavaldo una figura di donna, che, a
piedi scalzi, anche una capra, attraversò sino all'ultima spuma la folla e
parandosi a gambe divaricate aprì le sottane, stupì il poeta e la moltitudine
con questa rivelazione: «Ferrandino, tu cerchi un sogno». La sciarada di
astanti percepì una lingua meridionale di vocali e a bocca bagnata sotto otri
si scompose in ubriacataggi di gioia e gaudente esclamò: «Ferrandino cerca un
sogno, un sogno». Un indescrivibile iucundare, come sulle aie per buona annata
di frumenti. «Un sogno, un sogno, un sogno, un sogno». Voci che potevano
provenire dalle zone pietrose del monte, foresta gutturale della fame e del
freddo, prendevano dolcezza di suono di vocali. Che sogno potevano fare là, i
poveri? Quando tutti si furono acquetati ed erano pure svaniti gli stupori,
Ferrandino già aveva tra le braccia la donna che vi si era slanciata e come
femmina di liopardo si era ingroppata stringendolo al collo e con l'anche nude
sui fianchi. «Amore, amore», aveva appena esclamato Ferrandino, e lei pure, nello
specchio delle parole udite: «Amore, amore». Una capra si era riunita a far
festa con gli altri animali; sparlottavano i muli, ma quieti. Ma dei sogni che
Ferrandino aveva chiesto, neanche una zimigghia; timore di svelarli? Eppure
qualcosa di importante, non percepita dallo scrivente era accaduta, perché il
Lettore di questa cronica inconclusa - non si lasciano in aria certe storie
d'amore - volle indagare nel grande diario di Don Pedro, il quale in
quell'occasione aveva voluto sapere tutto e tutto aveva messo su carta. L'amplissima
descrittiva dei fatti della nottata a lui era pervenuta per filo e per segno. Niente
brodo, tutta polpa:1° Ferrandino perdeva colpi, il popolo non gli aveva portato
neanche uno straccio di sogno. 2° All'adunata nessuno era armato di schioppi o
forconi o armi da taglio, docili come i monachelli. 3° Gli infiltrati spioni,
invece di fare il loro mestiere se la scialano pure loro. 4° C'erano tante
facce nuove, onest'omini venuti da fuori al richiamo della speranza di
riprendersi le terre rubate. 5° Una piccola fanfara suonava una musica che si
sentiva e non si sentiva, secondo la brezza. 6° Tanti altri volevano declinare
il loro nomi, ma non sapevano né leggere né scrivere e cercavano saggi per
capire la marrella. 7° C'erano tre donne che con quartare davano da bere a chi
chiedeva e c'erano otri di vino che cercavano uomini. 8° C'era un grande odore
di pane e di carbone appena sfornati. 9° C'era il bosco da dove era sbucata
come dal mare e buttandosi tra le braccia di Ferrandino una ragazza bellissima
e dietro ti lei una capra; poteva essere la rediviva che tutti cercavano, la
bella addormentata, con l'animale che l'aveva sfamata col suo latte; poteva
essere strega o zingara. L'epica tracimava passando dalla stupidità della
letteratura alla vita. «Così», riferisce il Lettore, «sono suntizzati i fatti
nel Diarione di Don Pedro». Presa per vero la cronaca nuda e cruda dei fatti,
tocca ora ad altri il compito di indagare e capire chi era veramente l'angelo
apparso a Ferrandino, quando si erano innamorati, quando persi di vista; se era
una presa nei tempi andati in qualche pollaio, o un pizzo di fiandra, o una
mascherata per sviare qualche verità, o un'esca per rendere molliccio
Ferrandino: che la smettesse con la scrittura, che lasciasse perdere le terre
delle mappe truccate e tutte le altre sciarade del cazzo; tanto finirà presto
gioco smanioso. Può essere il nostro mestiere indagare? Certo del caporale
Serramanico che, allarmato aveva sciolto i suoi brakki, lanciandoli a cerca di
impronte di sommosse, di odori, parole, perse da qualcuno con le quali
diagrammare nomi di colpevoli. Non avendo lo scrivente alcuna confidenza con il
bracciarrnato, , chiaro è che se il Caporale vuol fare parte di questa storia,
scopra lo sue carte e noi registreremo; altrimenti saremo costretti a fare congetture
e la storia diventerà storiella, seppure il debole per la menzogna faccia più
bella la realtà.
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