“La Storia mentre si compie” di Simonetta Fiori pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” dell’11 di novembre 2023:
“Quel che resta di Mussolini in questa politica”, testo di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di novembre ultimo: (…). …paghiamo il prezzo, come Paese, di non aver mai fatto davvero i conti con la storia, assumendo la responsabilità di aver inventato il fascismo e di averlo poi seguito senza quel processo di consapevolezza che consente il superamento del passato, a differenza della Germania: che ancora oggi davanti alla tragedia di Israele e al dramma di Gaza si fa carico nelle parole del Cancelliere del peso della storia. Noi invece stiamo assistendo inerti a uno «smottamento del sentimento democratico dei nostri padri e delle nostre madri», dubitando delle promesse della storia che proiettava le speranze nel futuro, anzi ideologicamente nell’Avvenire. Così ci siamo accontentati del presente, accorciando i nostri orizzonti e le nostre pretese. E queste esistenze rimpicciolite, non più attraversate dalla coscienza del tempo grande della storia, rischiano di diventare il recipiente naturale della moderna insidia: il populismo e il sovranismo che sfidano le democrazie liberali, cavalcando la potenza delle crisi diverse ma congiunte che devastano la fase. (…). …Mussolini non è soltanto l’inventore del fascismo, ma è anche il primo interprete dell’eterno populismo italico, scorciatoia e tentazione ricorrente fin da un preciso momento fissato nella cronaca: l’epoca della “vittoria mutilata” dopo la prima guerra mondiale, alba e crepuscolo insieme quando Il Duce, randagio senza partito e senza pubblico, salì spinto dall’istinto sul camion degli Arditi, «élite guerriera e feccia dell’esercito», portando la violenza dalle trincee alle strade delle città, e trovando una macchina da guerra in tempo di pace, con cui dispiegare la violenza squadrista. Ma mentre “stupra” il Paese, (…), Mussolini lo seduce. Ed è il Mussolini populista che compie quest’opera, attraverso un’immedesimazione personalistica («Io sono il popolo, il popolo sono io») che trasforma immediatamente i suoi avversari in nemici del popolo, mentre innova il linguaggio giornalistico con frasi brevi che sono già slogan, costruzioni sintattiche elementari e immediatamente popolari, una retorica titanica e immaginifica dalla cifra militare e insieme militante che produce un progetto politico dominato dalla tattica, spregiudicato e svincolato da qualsiasi coerenza, privo di ogni quintessenza, dunque programmaticamente cavo per essere riempito ogni volta dalle convenienze del momento. «Io sono vuoto di programmi - dirà Il Duce - per riempirmi degli umori della gente. Non faccio politica, ma antipolitica». E infatti il concetto di “gente” è già una degradazione impolitica dell’idea di popolo, così come la caccia agli umori diffusi, ieri e oggi, finisce per nutrire l’epoca di malumori, investendo sul risentimento più che sull’emancipazione, sull’invidia sociale e sulla frustrazione, sull’autoinganno continuo di una congiura delle élite che tiene il cittadino nella condizione gregaria e avvilita di una minorità permanente. Pronto a recepire a questo punto il dileggio mussoliniano delle istituzioni, il disprezzo del parlamento, la polemica (presa a prestito da D’Annunzio) sulla «casta dei nuovi marajà». Si comincia a intravvedere una discendenza sia pure indiretta tra ieri e oggi. Soprattutto nella trasformazione del leader in follower, “l’uomo del dopo” che segue opportunisticamente l’ondeggiare delle masse invece di guidarle, pronto a cavalcare qualsiasi onda purché lo trasporti nel suo movimento, con l’azione che soppianta la strategia, la brutalizzazione della vita politica che ne deforma il costume, nella condanna definitiva della democrazia, col suo superamento. «È finito il secolo democratico – spiega Il Duce nel ’22 –, il secolo del numero, della quantità, della maggioranza. Lo Stato di tutti ritorna ad essere lo stato di pochi. Pochi, ed eletti». Per giungere fin qui bisogna raggiungere l’anima del Paese, mortificandola. Avviene con l’annichilimento della speranza, sostituita dall’unica passione più forte, la paura. Che una volta insediata nel Paese, e dominante, verrà incurvata nella sua dimensione più aggressiva, l’odio, in una commutazione alchemica tra il temere e l’odiare. La realtà così trova la sua semplificazione: tutto è riconducibile a un unico problema, che si incarna nella figura di un nemico, il quale è lo straniero invasore: se si elimina questa presenza abusiva il problema è risolto. Fine. Questo verbo si fa carne nel corpo del Duce, anzi nell’abuso di presenza corporale, nell’ostensione sovrabbondante di posture, divise e espressioni che riemergendo dai filmati “Luce” più che una testimonianza sembrano una lontananza impossibile da colmare. Ma pensiamo al ritorno della simbologia corporale con l’unzione sacra che Berlusconi impartiva ritualmente a se stesso, al segnale di riconoscimento implicito – non estetico, ma etologico – che Trump manda al forgotten man americano attraverso l’irritualità dei suoi gesti, l’irriducibilità della sua capigliatura, l’indocilità incorreggibile del suo muoversi dentro, fuori e contro il sistema. «Una comunicazione viscerale si antepone a quella intellettuale, perché non tutti hanno un dottorato, ma tutti hanno un corpo» (virgolettati tratti da “Fascismo e populismo” di Antonio Scurati, Bompiani editore, pagg. 128, euro 15 n.d.r.). Siamo già oltre la riproduzione di un modello, l’eredità magari illegittima è stata accettata, innovata, oggi è all’opera e – attenzione – non solo a destra, ma anche tra le file di quella che Sofri ha incominciato a chiamare «la sinistra tra virgolette»: sicuramente sedicente, forse abusiva, magari inconsapevole del mulino dove porta la sua acqua, ma certamente populista. Che fare? «Bisogna riprendere la lotta per la democrazia – dice Scurati –, guadagnandoci l’eredità antifascista dei nostri padri». L’alternativa è la resa davanti al monito di Paul Valéry: «Oggi le civiltà sanno di essere mortali».
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