"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 18 novembre 2023

Memoriae. 96 Paul Valéry: «Oggi le civiltà sanno di essere mortali».


“La Storia mentre si compie” di Simonetta Fiori pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” dell’11 di novembre 2023:

(…). in “La caduta. Cronache della fine del fascismo” (di Ezio Mauro, Feltrinelli editore, pagg. 208, euro 20 n.d.r.) una data astratta acquista la concretezza di un pomeriggio di una domenica estiva a Villa Ada, a Roma, nella residenza privata dei Savoia. La macchina presidenziale ferma all'altezza dell'ingresso principale, Mussolini che scende in abiti borghesi, il re agitatissimo perché sa che cosa accadrà di lì a poco nel piccolo ufficio disadorno: dopo il voto notturno in Gran Consiglio che ha sfiduciato il duce, spetta a Vittorio Emanuele licenziare il capo del fascismo e di fatto eseguirne l'arresto. Il lettore vede tutto questo come in un film: il volto congestionato del sovrano mentre gli dice "voi siete l'uomo più odiato d'Italia", lo sbigottimento di Mussolini ormai arreso ai segni del suo cattivo destino, il fedele autista Boratto che qualche stanza più in là dismette la livrea da servitore del tiranno. E c'è anche la regina Elena, piuttosto nervosa, perché una pagina di storia del genere non doveva essere scritta a casa sua, all'interno del recinto domestico, piuttosto dentro le stanze ufficiali del Quirinale. Ma era una domenica, non c'era stato il tempo. E mentre un'ambulanza militare porta via il prigioniero, il re quasi domanda scusa alla consorte. Se lo storico racconta i fatti sulla base dei documenti, il giornalista non rinuncia ad andare nei luoghi, a cogliere le atmosfere, a restituire spessore umano ai personaggi e alle piccole storie che compongono la storia più grande. (…). Anche l'ultimo atto del fascismo, celebrato a Palazzo Venezia nella seduta del Gran Consiglio, acquista una luce diversa se ambientato sotto la lampada verde a cupola, lungo il tavolo a ferro di cavallo, all'ombra del grande affresco che mostra Pio IV e l'elenco dei sacerdoti flagellanti imputati di messe nere e riti satanici. Il potere ripristina sempre l'ordine, ma non questa volta, nella lunga notte che mette fine alla dittatura. E il passaggio a Ponza del duce non più duce si arricchisce di molteplici significati se osservato con gli occhi di Pietro Nenni, là confinato per ordine del capo del fascismo. (…). … «il regime non muore per decomposizione autonoma ma grazie al "principio costituzionale che agisce da pietra di inciampo della dittatura". È solo grazie alla pronuncia di un organo costituzionale - il Gran Consiglio - che viene scritta la fine del ventennio nero, confermando quel paradosso italiano per il quale la caduta di Mussolini si inscrive nelle forme legali nella quali era stato condotto anche l'avvento al potere, movimentato certo dalla Marcia su Roma ma codificato nelle forme istituzionali dall'incarico di governo dato dal sovrano- (…). …che in nulla può modificare il giudizio sul ventennio nero, segnato dal sistematico e violento esercizio dell'arbitrio. È una storia prettamente al maschile, questa della caduta di Mussolini in un Paese ridotto in macerie, dove protagonisti e comprimari fanno a gara nella miseria morale, nella viltà, nell'interesse personale prevalente su quello pubblico, nella rinuncia costante al principio di responsabilità: (…). …la fuga del re e di Badoglio dalla capitale, una diserzione che segna la morte della patria svilita dal fascismo e la rinascita di un'altra patria, quella democratica, con le manifestazioni dei civili contro l'occupazione nazista di Roma. Ma non mancano alcune figure femminili cresciute all'ombra del dittatore, non per questo totalmente prive di un'umanità che ne rafforza il profilo tragico. Tra tutte spicca Rachele, la moglie tradita che però non lo abbandona nel momento peggiore, più di lui intuendo - non capendo, ma intuendo - le ragioni della storia. E poi la figlia Edda, stretta tra il dittatore sconfitto e il marito Galeazzo "il traditore". Infine Claretta, di cui le intercettazioni del grande servizio d'ascolto SSR ci mostrano le conversazioni in quei drammatici giorni del 1943. "Fallo per il nostro amore Ben". "Vedrai che anche questa volta prevarrà la tua buona volontà". "Ciao Ben mio, almeno telefona". Ma una volta arrivato a Salò, il suo Ben sentendosi coperto di ridicolo troverà il modo di ridimensionare quel suo legame clandestino. "Ci sono stati semplicemente dei rapporti intimi di un uomo con una donna, incominciati quando l'uomo era ancora giovane e rientrava nella normalità averli". Una lunga storia d'amore ridotta a soli "rapporti intimi". Null'altro che questo, dirà Mussolini, ormai fantasma di sé stesso.

“Quel che resta di Mussolini in questa politica”, testo di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di novembre ultimo: (…). …paghiamo il prezzo, come Paese, di non aver mai fatto davvero i conti con la storia, assumendo la responsabilità di aver inventato il fascismo e di averlo poi seguito senza quel processo di consapevolezza che consente il superamento del passato, a differenza della Germania: che ancora oggi davanti alla tragedia di Israele e al dramma di Gaza si fa carico nelle parole del Cancelliere del peso della storia. Noi invece stiamo assistendo inerti a uno «smottamento del sentimento democratico dei nostri padri e delle nostre madri», dubitando delle promesse della storia che proiettava le speranze nel futuro, anzi ideologicamente nell’Avvenire. Così ci siamo accontentati del presente, accorciando i nostri orizzonti e le nostre pretese. E queste esistenze rimpicciolite, non più attraversate dalla coscienza del tempo grande della storia, rischiano di diventare il recipiente naturale della moderna insidia: il populismo e il sovranismo che sfidano le democrazie liberali, cavalcando la potenza delle crisi diverse ma congiunte che devastano la fase. (…). …Mussolini non è soltanto l’inventore del fascismo, ma è anche il primo interprete dell’eterno populismo italico, scorciatoia e tentazione ricorrente fin da un preciso momento fissato nella cronaca: l’epoca della “vittoria mutilata” dopo la prima guerra mondiale, alba e crepuscolo insieme quando Il Duce, randagio senza partito e senza pubblico, salì spinto dall’istinto sul camion degli Arditi, «élite guerriera e feccia dell’esercito», portando la violenza dalle trincee alle strade delle città, e trovando una macchina da guerra in tempo di pace, con cui dispiegare la violenza squadrista. Ma mentre “stupra” il Paese, (…), Mussolini lo seduce. Ed è il Mussolini populista che compie quest’opera, attraverso un’immedesimazione personalistica («Io sono il popolo, il popolo sono io») che trasforma immediatamente i suoi avversari in nemici del popolo, mentre innova il linguaggio giornalistico con frasi brevi che sono già slogan, costruzioni sintattiche elementari e immediatamente popolari, una retorica titanica e immaginifica dalla cifra militare e insieme militante che produce un progetto politico dominato dalla tattica, spregiudicato e svincolato da qualsiasi coerenza, privo di ogni quintessenza, dunque programmaticamente cavo per essere riempito ogni volta dalle convenienze del momento. «Io sono vuoto di programmi - dirà Il Duce - per riempirmi degli umori della gente. Non faccio politica, ma antipolitica». E infatti il concetto di “gente” è già una degradazione impolitica dell’idea di popolo, così come la caccia agli umori diffusi, ieri e oggi, finisce per nutrire l’epoca di malumori, investendo sul risentimento più che sull’emancipazione, sull’invidia sociale e sulla frustrazione, sull’autoinganno continuo di una congiura delle élite che tiene il cittadino nella condizione gregaria e avvilita di una minorità permanente. Pronto a recepire a questo punto il dileggio mussoliniano delle istituzioni, il disprezzo del parlamento, la polemica (presa a prestito da D’Annunzio) sulla «casta dei nuovi marajà». Si comincia a intravvedere una discendenza sia pure indiretta tra ieri e oggi. Soprattutto nella trasformazione del leader in follower, “l’uomo del dopo” che segue opportunisticamente l’ondeggiare delle masse invece di guidarle, pronto a cavalcare qualsiasi onda purché lo trasporti nel suo movimento, con l’azione che soppianta la strategia, la brutalizzazione della vita politica che ne deforma il costume, nella condanna definitiva della democrazia, col suo superamento. «È finito il secolo democratico – spiega Il Duce nel ’22 –, il secolo del numero, della quantità, della maggioranza. Lo Stato di tutti ritorna ad essere lo stato di pochi. Pochi, ed eletti». Per giungere fin qui bisogna raggiungere l’anima del Paese, mortificandola. Avviene con l’annichilimento della speranza, sostituita dall’unica passione più forte, la paura. Che una volta insediata nel Paese, e dominante, verrà incurvata nella sua dimensione più aggressiva, l’odio, in una commutazione alchemica tra il temere e l’odiare. La realtà così trova la sua semplificazione: tutto è riconducibile a un unico problema, che si incarna nella figura di un nemico, il quale è lo straniero invasore: se si elimina questa presenza abusiva il problema è risolto. Fine. Questo verbo si fa carne nel corpo del Duce, anzi nell’abuso di presenza corporale, nell’ostensione sovrabbondante di posture, divise e espressioni che riemergendo dai filmati “Luce” più che una testimonianza sembrano una lontananza impossibile da colmare. Ma pensiamo al ritorno della simbologia corporale con l’unzione sacra che Berlusconi impartiva ritualmente a se stesso, al segnale di riconoscimento implicito – non estetico, ma etologico – che Trump manda al forgotten man americano attraverso l’irritualità dei suoi gesti, l’irriducibilità della sua capigliatura, l’indocilità incorreggibile del suo muoversi dentro, fuori e contro il sistema. «Una comunicazione viscerale si antepone a quella intellettuale, perché non tutti hanno un dottorato, ma tutti hanno un corpo» (virgolettati tratti da “Fascismo e populismo” di Antonio Scurati, Bompiani editore, pagg. 128, euro 15 n.d.r.). Siamo già oltre la riproduzione di un modello, l’eredità magari illegittima è stata accettata, innovata, oggi è all’opera e – attenzione – non solo a destra, ma anche tra le file di quella che Sofri ha incominciato a chiamare «la sinistra tra virgolette»: sicuramente sedicente, forse abusiva, magari inconsapevole del mulino dove porta la sua acqua, ma certamente populista. Che fare? «Bisogna riprendere la lotta per la democrazia – dice Scurati –, guadagnandoci l’eredità antifascista dei nostri padri». L’alternativa è la resa davanti al monito di Paul Valéry: «Oggi le civiltà sanno di essere mortali».

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